La natura del sionismo II

mar 10th, 2019 | Di | Categoria: Storia

 

Bau eines Kibbuz in West-Galiläa, 13.2.1949

CAPITOLO III

Sionismo come «socialismo» nazionale pseudo-liberale
1) Quale socialismo?
Un elemento che ha contribuito a fare la fortuna del sionismo all’estero, catturando soprattutto l’immaginazione di quella sinistra che da tempo ha abbandonato il marxismo, è stato quello di essersi presentato, almeno fino al 1977, data del primo governo della destra in Israele, come «socialismo» nazionale. Dopo i governi di destra in Israele – quelli di Begin, di Shamir, di Netanyahu e di Sharon – dopo la scomparsa dei kibbutz e di ogni traccia di «socialismo», le illusioni della sinistra non si sono affatto spente perché le illusioni sono dure a morire, come d’altronde la pigrizia mentale. Scrive sempre Zeev Sternhell sul «socialismo» nazionale:
“L’ideologia del socialismo nazionale nasce in Europa tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Si propone come la vera soluzione, puntando a sostituire le ideologie marxista e liberale. Il suo postulato – il primato della nazione – trova le premesse nel socialismo premarxista di Proudhon. É un’ideologia che presenta la nazione come un’entità storica, culturale o biologica. Per preservare il suo avvenire e proteggersi dalle forze che scalzano la sua armonia, la nazione deve consolidare la sua unità interna, spingendo tutte le sue componenti alla missione comune. Per questa nuova ideologia, il liberalismo e il marxismo costituiscono il più grande pericolo che, nel mondo moderno, minacciano la nazione. Il liberalismo, perché concepisce la società come un’aggregazione di individui in eterna lotta per un posto al sole, una sorta di mercato selvaggio, la cui sola ragione d’esistenza è di soddisfare gli egoismi dei singoli, quelli dei più forti ovviamente e il marxismo, perché sostiene che la società è divisa in classi nemiche impegnate in una lotta senza pietà tanto più inevitabile in quanto iscritta nella logica interna del capitalismo”. 83
Il «socialismo» nazionale rifiuta categoricamente la lotta di classe e l’internazionalismo proletario. La sua singolarità consiste nel fatto che esso aderisce al principio del primato della nazione, la quale è posta in posizione assolutamente prevalente rispetto a qualsiasi altro aspetto, rinnegando così i principi universalistici del socialismo. Tuttavia, se pure rinnega il marxismo, il «socialismo» nazionale non rinuncia a voler risolvere a suo modo la questione sociale. Rifiutando i principi marxisti, primo fra tutti l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il «socialismo» nazionale afferma di voler risolvere la questione sociale con una critica ai settori parassitari del capitale, alla rendita, alla grande finanza, agli speculatori, ai borsisti, a tutti coloro che dispongono facilmente di denaro e non lo investono attivamente creando posti di lavoro e facendo crescere la società e la nazione. Costoro vengono definiti, parassiti, plutocrati, usurai, perché essi sono i soli ad arricchirsi senza benefici per la nazione. Ci si rivolge al «lavoratore» (non al «proletario»), al contadino, al negoziante, all’artigiano e a quei settori del capitale produttivo, il borghese «positivo» che investe nel progetto nazionale e rischia il suo denaro nella produzione. Ovviamente, il «socialismo» nazionale non intende affatto cambiare la società, né mai esso ha preso provvedimenti per eliminare il ceto dei parassiti, degli speculatori, dei finanzieri tanto criticati. Anzi i provvedimenti principali sono diretti contro gli operai, costretti in corporazioni, senza sindacati, senza partiti politici che li rappresentino in modo autonomo. Gli operai vengono invece iscritti, con le buone o con le cattive, nel partito nazionale, associati nelle sue istituzioni, arruolati nell’esercito. Il socialismo «nazionale» è infatti un’ideologia aggressiva che punta alla conquista di territori altrui per metterli a disposizione della propria nazione, che mira a impadronirsi delle loro ricchezze. É anche un’ideologia razzista che ritiene la propria nazione superiore alle altre. Nella storia, il «socialismo» nazionale si è realizzato prevalentemente sotto forma di sistema antidemocratico e reazionario, anzi decisamente dittatoriale. La sua forma più brutale è stata il nazismo (Nazional Socialismus), ma anche il fascismo mussoliniano in alcuni momenti si è considerato una forma di «socialismo» nazionale. Esiste tuttavia anche una forma di «socialismo» nazionale con caratteristiche pseudo-democratiche. Tale è il sionismo; tali sono certe forme di «socialismo» nazionale nel terzo mondo (la Corea del Sud, per esempio, al tempo degli agglomerati industriali nazionali, prima che questi fossero minati dalla globalizzazione liberista). Compito fondamentale di qualsiasi «socialismo nazionale» che si rispetti è conquistare la fiducia degli operai e inquadrarli in rigide organizzazioni nazionaliste. Il sionismo ha sentito questa necessità ancora più fortemente di altri tipi di nazionalismo, in quanto ha dovuto convincere gli operai ebrei a lasciare il loro paese d’origine ed emigrare in un paese povero e arretrato com’era allora la Palestina. Davanti ad una borghesia ebraica non disposta a lasciare i suoi ricchi affari e i suoi legami in Europa e in America, l’idea vincente dei sionisti è stata quella di iniziare la colonizzazione con i denari della borghesia ma con il lavoro dei proletari. E infatti, afferma Maxime Rodinson:
“le truppe del movimento furono fornite dagli ebrei poveri e perseguitati d’Europa orientale, per lo meno da quelli che, ancora
83 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, Parigi, 1996, Fayard, p. 20. inquadrati in strutture comunitarie, erano orientati verso l’emigrazione in Palestina a causa dei loro sentimenti religiosi ”.84 Se le truppe furono costituite di proletari e poveri, non era così per quanto riguardava la direzione politica del movimento sionista e ancor meno per coloro che fornivano i necessari capitali all’impresa colonizzatrice. Questo fatto fondamentale è spiegato con molta chiarezza dallo stesso Rodinson, che aggiunge:
“La direzione piuttosto fu fornita da intellettuali delle classi medie che cercarono i mezzi finanziari presso l’alta borghesia ebraica d’Occidente, desiderosa di stornare dall’Europa occidentale e dall’America un’ondata d’emigrazione popolare, in quanto la riteneva una pericolosa minaccia per la propria volontà di assimilazione con la borghesia occidentale. E ne temeva anche le caratteristiche etniche straniere che essa conservava nonché le tendenze rivoluzionarie che manifestava. (…) É vero che il movimento nel suo insieme, per raggiungere i suoi scopi, ha cercato e ottenuto l’appoggio di diversi imperialismi euro-americani (soprattutto quello britannico, poi quello americano), che ha ottenuto anche la maggior parte dei suoi finanziamenti presso gli strati più ricchi della borghesia ebraica, in particolare quella degli Stati Uniti, che però si guardava bene dall’emigrare in Palestina”.85
É difficile pensare che il movimento sionista degli ebrei askenaziti dell’Europa orientale, qualora esso fosse stato autenticamente rivoluzionario, potesse essere finanziato dalla ricca borghesia ebraica prevalentemente sefardita e assai assimilata dell’Occidente. Le ragioni autentiche di tale finanziamento sono molteplici, proprio come suggerisce Rodinson. Da una parte, c’era la paura della borghesia ebraica d’Occidente di una massiccia ondata migratoria di poveri ebrei diseredati dalle forti caratteristiche etniche askenazite perché una simile invasione metteva in pericolo i suoi sforzi di assimilazione. Dall’altra, vi era la volontà di questa stessa borghesia di allontanare dal socialismo e dalla rivoluzione le masse ebraiche orientali. Spingerle a trasferirsi in Palestina poteva essere la soluzione.Vedremo che quest’ultima idea era esattamente ciò che Herzl aveva proposto al ministro zarista von Plehve nel 1903. La borghesia ebraica d’Occidente aveva perfettamente capito che i sionisti, al di là dei proclami, non aveva nulla a che fare con il socialismo. Anzi le era chiaro che il sionismo nel suo complesso si caratterizzava come anti-socialista. Non deve quindi sorprendere che il sionismo «socialista» sia stato scomunicato dalla III internazionale e che esso non abbia mai aderito alla II internazionale. Il rifiuto della rivoluzione sociale anticapitalista lo allontanava dalla III internazionale; dalla II, lo escludevano le sue origini nel nazionalismo tribale e il suo rifiuto di una qualche adesione alle filosofie marxista, liberale o kantiana che erano invece alla base della socialdemocrazia. Inoltre il sionismo si teneva lontano dall’internazionale socialdemocratica perché poneva come sua priorità l’obiettivo nazionale e non valori quali l’uguaglianza o il progresso della classe lavoratrice. Infine anche la sua fede incrollabile nella forza come metodo politico non era fatta per avvicinarlo al riformismo della II internazionale. «Ma i kibbutz allora?» qualcuno chiederà. «Non è socialismo quello?». Zeev Sternhell, nel suo magistrale libro sulle origini di Israele, chiarisce perfettamente quale è stata la natura e la funzione delle forme cooperativistiche di sfruttamento del lavoro agricolo (kibbutz, moshav, ecc), che oggi, tra l’altro, non incidono per più del 1,8 % del prodotto nazionale lordo israeliano.
“Il movimento laburista non ha mai avuto la presunzione di proporre un sistema di ricambio totale della società capitalista. Al contrario, si è avverato che perfino gli spazi sociali originari, e meno originali, realizzati – kibbutz, moshav e altre cooperative – non hanno fatto altro che rafforzare indirettamente il sistema capitalista dimostrando che le piccole unità sociali non avevano la forza di influenzare, e ancor meno cambiare, il corpo sociale nella sua interezza”.86
L’autore, dopo aver espresso il sospetto che Israele abbia occultato volutamente la verità sulla storia e la natura del movimento cooperativistico ebraico in Palestina, ribadisce che:
“Il popolamento collettivista non è nato da una decisione ideologica chiara e definita, né la raccolta dei fondi destinati a sostenere questo nuovo tipo di sfruttamento agricolo ha mai avuto l’intenzione di danneggiare in nulla il funzionamento normale o lo sviluppo del capitale privato. Il kibbutz e il moshav sono nati dalla necessità di supplire all’incapacità e alla mancanza di sollecitudine dell’agricoltura privata ebraica messa in piedi per soddisfare le priorità nazionali introdotte dall’elite – non ancora intronizzata – della seconda alya. I proprietari e coltivatori ebrei dell’epoca preferivano impiegare mano d’opera araba, sempre meno costosa e più qualificata, piuttosto che i nuovi immigranti le cui capacità agricole lasciavano molto a desiderare”.87
I sionisti «socialisti», quindi, inventarono i kibbutz per mancanza di mezzi e soprattutto per contrastare soltanto un aspetto dello sfruttamento agricolo della borghesia ebraica: l’uso di manodopera araba. Il contrasto non era dovuto al 84 Maxime Rodinson, Peuple Juif ou problème juif ?, Parigi, 1981, Petite collection Maspero, p. 144. 85 Maxime Rodinson, Peuple Juif ou problème juif ?, cit. 86 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. p. 54 87 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. p. 54. 40
fatto che gli agricoltori ebrei borghesi erano capitalisti, si badi bene, ma perché essi impiegavano manodopera araba anziché ebraica. Conservando la manodopera araba non ci sarebbe mai stato uno Stato per soli ebrei o a maggioranza ebraica. Era essenziale quindi liberarsi della manodopera araba anche se essa era meglio qualificata e meno costosa. Le motivazioni del cooperativismo ebraico sono quindi razziste e nazionaliste; non sono socialiste e non sono nemmeno strettamente economiche. Era fondamentale per i nazionalisti «socialisti» che sulle terre ebraiche lavorassero solo ed esclusivamente lavoratori ebrei; questo obiettivo è noto con lo slogan ingannevole della «conquista del lavoro» (ebraico) che i sionisti «socialisti» lanciarono nella loro lotta contro la concorrenza degli operai agricoli arabi nel mercato del lavoro. Occupare solo proletari ebrei disoccupati sulle terre arabe conquistate significava rendere il territorio veramente ebraico, cioè «redimerlo» e favorire l’immigrazione ebraica, la quale sarebbe stata seriamente minacciata se gli immigrati fossero rimasti disoccupati perché, nella loro «nuova patria» gli si preferivano i lavoranti palestinesi.
“La kvutza d’origine – piccolo kibbutz – e il moshav hanno voluto essere prima di tutto una tecnica di conquista del territorio (occupazione del suolo comprato dal suo proprietario, in generale arabo) ed anche una soluzione poco costosa alla disoccupazione che colpiva i nuovi immigrati della seconda alya. Il tipo di vita adottato dai primi «gruppi» (kvutza) è stato imposto dalla forza delle cose, vale a dire dai pochi mezzi di cui disponevano. É falso e vano voler presentare questi generi di sfruttamento agricolo come l’applicazione di un’ideologia sociale premeditata, ed è falso presentarli come una creazione che avrebbe avuto come obiettivo combattere la proprietà privata in tutte le sue concezioni e implicazioni”. 88 Il socialismo vero o anche una semplice «ideologia sociale premeditata» senza caratteristiche nazionaliste o razziste, avrebbe dovuto introdurre elementi di unione e di uguaglianza tra gli operai agricoli ebrei e arabi, avrebbe dovuto diffondere idee di riscatto sociale tra i lavoratori e i contadini arabi e non espellerli semplicemente. Quale socialismo allora? E oggi dov’è il cooperativismo dei kibbutz? Non ha nessun peso nella società ferocemente capitalistica d’Israele; la sua unica funzione rimastagli oggi, compiuta con successo quella storica di allontanare la manodopera araba, è di ingannare gli ingenui, disposti a lasciarsi convincere che il socialismo alberga ancora, se mai ci è stato, nell’ultimo paese coloniale del mondo. Veniamo ora all’altro aspetto «sociale» della vita nazionale dei lavoratori israeliani: l’Histadrut. Il movimento laburista prese assai presto la direzione e il controllo della colonizzazione sionista e, suo primo obiettivo fu di costruire, non un’organizzazione di salariati che si opponesse ai datori di lavoro ebrei o non ebrei, ma di edificare una forte organizzazione nazionale che espandesse il territorio su cui operava e vi si comportasse come Stato. Questa fu fin dall’inizio l’Histadrut. All’interno di essa, i dirigenti laburisti crearono l’Hevrat Ovdim (Società dei Lavoratori) con la duplice funzione di dirigere le imprese e le istituzioni dell’Histadrut e di sfuggire a qualsiasi controllo della base operaia. In seguito, al momento della proclamazione di Israele furono sempre i laburisti, alla guida dell’Histadrut, e dell’Hevrat Ovdim a trasformare le due strutture in vero e proprio Stato. furono quindi queste onnipotenti corporazioni dei «lavoratori» e degli industriali il fondamento dell’ordine sociale statale subito dopo la fondazione dello Stato. Dopo l’ascesa al potere del Likud esse hanno continuato ad esistere e prosperare. l’Histadrut non è un sindacato, come spesso si dice, ma una struttura nazionale che inquadra «i lavoratori» e «le altre forze produttive» e affida a tutti la medesima missione nazionale. Essa possiede banche, imprese nel settore dell’industria pesante, degli armamenti, dell’editoria, della cinematografia, dei lavori pubblici, delle costruzioni e della pesca, possiede anche la maggiore centrale nazionale di distribuzione dei prodotti agricoli, catene di grandi magazzini e negozi. É il più grande prestatore di lavoro e possiede centinaia di uffici di collocamento nel paese. L’Histadrut controlla l’intero settore cooperativo, si occupa dei contratti tra lavoratori e le imprese che gli appartengono, gestisce direttamente la Cassa Malattia Nazionale, dispone di ospedali, scuole, case di riposo e pubblica un proprio giornale, il Davar. In Israele solo l’esercito è un’organizzazione più capillare e meglio organizzata dell’Histadrut. Ma l’esercito, che oggi di chiama Tsahal, fu fondato dall’Histadrut col nome di Haganah e solo a partire dalla fondazione dello Stato d’Israele esso risponde al Ministero della Difesa. Tuttavia, seppur meno capillare dell’esercito, questa istituzione è un vero Stato nello Stato e fornisce al parlamento gran numero di parlamentari e buona parte degli uomini di governo, di sinistra e sorprendentemente (ma solo per chi ha schemi in testa) anche di destra. Per capire il peso di questa organizzazione e il suo contributo alla formazione dello Stato, è bene sapere che nel 1947, alla vigilia della fondazione di Israele, essa contava 176.000 membri, nel 1948 rappresentava il 25% dell’economia del paese, nel 1949 aveva 215.000 membri, cioè il 41% della popolazione adulta, nel 1950, aveva 330.000 membri, cioè il 46% della popolazione adulta. Solo dopo l’Histadrut e l’esercito vengono le altre istituzioni politiche e sociali, che completano il quadro. In seguito alla fondazione di Israele, furono sempre i laburisti a dirigere lo Stato, fino agli anni settanta quando persero le elezioni a vantaggio del partito del Likud. Questo è un partito seguace del sionismo di Vladimir Jabotinsky, amico personale del Duce. La destra, una volta salita al potere, non ha mai contrastato
88 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. p. 55. l’Histadrut, il cosiddetto «sindacato», come avviene con la destra in tutte le democrazie parlamentari e in tutti i regimi capitalistici liberali con i sindacati veri. Questo proprio perché l’Histadrut non è un sindacato ma un’organizzazione nazionale di lavoratori, di capitalisti e di boiardi di stato, i cui dirigenti vengono scelti ogni 4 anni sulla base di liste presentate da tutti i partiti politici, compresi il Likud e i partiti religiosi. Attualmente i dirigenti laburisti dell’Histadrut detengono una risicata maggioranza interna rispetto ai rappresentanti della destra. A coloro che parlano di questa organizzazione come di un sindacato operaio o come di un’organizzazione di welfare vogliamo ricordare quanto scrive lo storico israeliano Ilan Pappe riguardo all’obiettivo principale dell’Histadrut, fin dalla sua fondazione:
“Politiche economiche basate su considerazioni di carattere nazionale facevano sì che la Histadrut – la confederazione generale del lavoro della comunità sionista – fosse più interessata all’espansione dei confini politici della comunità che non ai diritti dei lavoratori. Espansione che ebbe luogo negli anni Venti, nonostante le depressioni economiche del 1923, del 1926 e del 1928, e le difficili condizioni in cui versavano gli immigrati”.89
Altro obiettivo fu quello di dimostrarsi efficienti e attivi, dal punto di vista capitalista naturalmente, per impressionare positivamente il colonialismo britannico e continuare ad ottenerne i favori. É ovvio che se l’Histadrut si fosse dimostrato efficiente e attivo dal punto di vista del socialismo o comunismo non avrebbe ricevuto da parte del governo britannico (che tra l’altro negli anni Venti era conservatore) un’attenzione favorevole. Scrive sempre lo storico Pappe:
“L’esigenza di essere economicamente attivi ed efficienti costituì un ulteriore obiettivo. Il movimento sionista considerava la fervente attività economica una riprova delle capacità del paese di accogliere un ampio numero di immigrati (…), considerazione che influenzò i dirigenti politici britannici perlomeno sino al 1933. A quanto sembra, i rapporti ufficiali sionisti arrivavano a magnificare il livello di attività per impressionare i britannici a tutto vantaggio dell’immigrazione ebraica”. 90
Le cosiddette «strutture sociali» create dai laburisti prima della fondazione dello Stato israeliano e poi divenute strutture statali, non hanno mai rappresentato qualcosa di fondamentalmente diverso da altre strutture capitalistiche di altri paesi.
“L’Histadrut non ha avuto regole di comportamento molto diverse da quelle della società borghese intorno: la Hevrat Ovdim (Società dei lavoratori)91 non era altro che una istituzione amministrativa centrale destinata a coprire e coordinare le unità economiche del complesso creato dall’Histadrut, e non il prototipo della società socialista chiamata a sostituire, quando sarebbe stato il momento, la società borghese. (…) Il socialismo non doveva essere altro che il «mito» reclutatore di cui parlava Georges Sorel all’inizio del secolo, con tutte le sue funzioni. Il mito soreliano è un concetto neutro, utilizzabile a fini diversi. Il movimento laburista di prima e dopo la fondazione dello stato se n’è servito come strumento della rivoluzione nazionale; non è stato l’unico movimento nazionalista che ha utilizzato questa leva”. 92
Solo un «mito» reclutatore e propulsivo per poter fondare uno Stato coloniale. Non è nemmeno un caso che Sternell ricorra ad uno scrittore reazionario come Sorel, seguace di Bergson e del suo «slancio vitale», teorico dell’anarcosindacalismo, entusiasta nazionalista, che negli ultimi anni della sua attività di pensatore si avvicinò alla destra dell’Action Française e al fascismo italiano. In quanto all’egualitarismo che uno potrebbe aspettarsi tra dirigenti e base operaia nelle strutture «sociali» create dai laburisti, riportiamo le parole dell’impietoso Sternhell che dovrebbero togliere qualsiasi illusione a chi continua a coltivarne.
“Appare chiaro che, dietro il paravento di una società kibbutzica pioniera, sobria, idealista e idealizzata, l’Histadrut aveva lasciato che si sviluppasse al suo interno una realtà sociale che non si distingueva molto da quella che prevaleva nella società esterna. Le differenze nel livello di vita tra i dirigenti, gli alti funzionari e l’organizzazione dei lavoratori qualificati da una parte e la massa dei lavoratori manuali dall’altra, erano andate sempre più aumentando. (…) L’oligarchia laburista era veramente una «nuova classe» nel senso più esatto del termine. Verso il 1925, il salario familiare divenne una finzione e le disparità socioeconomiche un dato costante, e legittimo agli occhi di molti dirigenti, della realtà dell’Histadrut. Nel periodo di crisi economica, alla fine degli anni 1920 e degli anni 1930, i contrasti tra la direzione economica dell’organizzazione o i funzionari, con salari sicuri, e i disoccupati erano semplicemente rivoltanti. Questa è la ragione per cui, durante la crisi della fine degli anni 1930, perfino il conformismo,la disciplina e la dipendenza, tre ingranaggi essenziali del funzionamento dell’Histadrut, si sono
89 Ilan Pappe, Storia della Palestina Moderna, Torino 2004, Einaudi, pp. 118-19. 90 Ilan Pappe, Storia della Palestina Moderna, p. 119. 91 La Hevrat Ovdim è una delle due facce dell’Histadrut, quella che rappresenta il suo statuto di proprietario dei beni finanziari, industriali, agricoli, ecc. (cioè il padrone). L’altra faccia sarebbe il «sindacato» (cioè l’operaio). 92 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. pp. 37-38. 42
dimostrati insufficienti per contenere il rancore e l’animosità verso i dirigenti dell’Histadrut e del partito, da parte dei disoccupati i cui figli soffrivano di scarsa alimentazione. Lo studio, anche fatto a caso, degli archivi dei consigli operai rivela quanto in quegli anni era insopportabile la miseria dei piccoli salariati e soprattutto quella dei disoccupati. Un simile studio rivela anche l’indifferenza di coloro che dalla miseria erano al riparo, sia perché l’apparato li proteggeva – erano essi stessi quell’apparato -, sia perché la loro potenza li rendeva intoccabili. Le differenze non erano sorte solo tra gli uomini dell’apparato e gli operai: tutta la società histadrutica era stratificata in categorie e classi i cui interessi non erano meno conflittuali di quelli che esistevano nella società esterna”. 93
Le cose sono ulteriormente peggiorate dopo la creazione dello Stato ebraico ed oggi è difficile dire che i boiardi di Stato laburisti o likudisti, i direttori della banca nazionale, i dirigenti delle imprese statali o private legate alle strutture politiche e militari del paese rappresentano e difendono la classe operaia e i poveri.
2) Corporativismo e militarismo Quello che è stato definito «socialismo» nazionale non è altro che corporativismo nazionale. La società israeliana oggi è, senz’alcun dubbio, una società capitalista, inserita nel mercato capitalista globale. Su questo nessuno può avere dei dubbi. Nessuno oggi sostiene che Israele sia una società socialista o che conservi aspetti di socialismo. Vi sono tuttavia quelle strutture della società israeliana che si è voluto (da parte sionista) far passare per «socialiste». Noi riteniamo invece che queste strutture si debbano associare semmai al corporativismo. Queste strutture, cioè leggi e istituzioni, non solo non hanno nulla a che vedere con il socialismo ma addirittura hanno poco in comune con una democrazia liberale. Prendiamo per esempio la cosiddetta, «legge del ritorno». Essa dà diritto a tutti gli ebrei del mondo di emigrare in Israele ma, contemporaneamente, nega lo stesso diritto ai palestinesi che sono stati espulsi. Dietro questa legge vi sono alcune istituzioni che con il liberalismo non hanno nulla da spartire: la Israel Land Authority (ILA) e il Jewish National Fund (Fondo Nazionale Ebraico). Entrambe queste istituzioni dipendono dall’Organizzazione Sionista Mondiale e sono legate a doppio filo con lo Stato e il governo israeliano. La ILA possiede il 92% della terra d’Israele, mentre il restante 8% è costituito dalle piccole proprietà del milione di cittadini palestinesi. La ILA mette la terra in suo possesso a disposizione esclusivamente degli ebrei di tutto il mondo che vogliono emigrare in Israele. Questa terra può essere affittata o venduta solo ad ebrei e può essere lavorata e coltivata solo da manodopera ebraica. Non è nazionalizzata nel senso vero della parola ma è gestita ad esclusivo vantaggio degli ebrei, ricchi o poveri che siano, proprietari o operai agricoli. Questo non è naturalmente socialismo perché un ebreo è autorizzato a godere privatamente di parte della «terra d’Israele», ma nemmeno può essere accettato sotto un governo liberale, in quanto una proprietà «collettiva» ad esclusivo vantaggio di una etnia o razza è l’opposto del liberalismo e della libertà economica personale. Il fatto che la «Terra d’Israele» sia stata destinata, per legge, all’esclusivo godimento degli ebrei (di tutto il mondo) ha una conseguenza antieconomica: un arabo o un gentile d’Europa o d’America non può acquistare proprietà ebraica in Israele neanche offrendo un prezzo migliore. Cosa abbia a che vedere questo con il liberalismo economico e con il mercato è difficile capire. Non è socialismo non è economia di mercato, allora cos’è? Secondo la teoria corporativa fascista, gli appartenenti ad uno stesso ramo di attività economica sono inquadrati in una Corporazione, diretta in modo autoritario dall’alto, secondo i programmi politici del governo. Si tende a limitare la concorrenza tra i produttori, in antitesi alla dottrina liberale. Si regolano le condizioni di sfruttamento e di lavoro mediante contratti calati dall’alto, in antitesi alla dottrina socialista della lotta di classe. Questo succede esattamente sulla terra dell’ILA: le direttive sulla sua gestione vengono calate dall’alto, la concorrenza non può esistere perché la lotta economica tra due proprietari ebrei sulla terra dell’ILA non è ammessa, i contratti di lavoro con la manodopera ebraica sono stabiliti dall’ILA stessa, in accordo col governo. Si potrebbe dire che si tratti di una specie nuova di corporativismo: un corporativismo nazionalista basato su principi razzisti. La proprietà della terra e delle case deve restare in mani ebraiche, altrimenti si rischierebbe sempre di perdere l’«ebraicità» della terra d’Israele. Potrebbe succedere, per esempio, che una organizzazione di carattere umanitario raccogliesse dei fondi e acquistasse terre e proprietà in Israele e poi le lasciasse in eredità ad alcuni profughi palestinesi del Libano o di altri paesi. I risultati della pulizia etnica sarebbero vanificati. Si osservi il seguente paradosso: è ovvio che un ebreo israeliano può acquistare proprietà in Europa, America o altrove (molti israeliani hanno proprietà in due paesi) ma un goy che vive fuori da Israele non può acquistare proprietà in Israele. Cosa succederebbe se fosse proibito a un ebreo di qualsiasi paese di acquistare proprietà in un paese qualsiasi diverso da Israele? Sarebbe naturalmente ritenuto un divieto determinato da antisemitismo. Gli ebrei e gli israeliani quindi godono del liberalismo nei paesi dell’Occidente ma non lo permettono in Israele, almeno riguardo alla proprietà della terra. 93 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. pp. 70-71.
Veniamo ora all’Histadrut. Anch’esso si configura come un’enorme corporazione, non ancora scalfita dall’economia globale liberistica che le sta intorno e che vede crescere il suo peso in Israele. Si tratta di un settore complesso e importante dell’economia del paese, gestito da istituzioni miste composte di dirigenti, organizzati in una specie di confederazione, e operai, organizzati in una specie di «sindacato». In realtà le regole sono già stabilite e sono quelle decise dal partito laburista, un tempo, e dai partiti di governo oggi. La conflittualità interna è minima e i sindacati raramente chiamano allo sciopero. Questo non è proibito per legge, è semplicemente prevenuto o scoraggiato. Le somiglianze con le corporazioni fasciste sono sorprendenti. Come avveniva con le corporazioni fasciste, anche l’Histadrut serve gli obiettivi nazionalistici del governo e non la classe operaia. Così come i sindacati fascisti avevano il compito di controllare le masse e orientarle verso obiettivi nazionali, tenendoli lontani da obiettivi e conquiste di classe, allo stesso modo il «sindacato» dell’ Histadrut, controlla e asservisce la classe operaia al nazionalismo. É vero che sotto il fascismo lo sciopero era proibito per legge, ma questo non vuol dire però che di scioperi non se ne facessero.
“Nonostante la camicia di forza rappresentata dalle leggi fasciste e dagli istituti creati dal regime, l’antagonismo di classe si rivelò insopprimibile all’interno del sindacato. Gli stessi dirigenti sindacali fascisti furono talvolta costretti a promuovere alcune lotte e vertenze per evitare che esse sorgessero spontaneamente: si trattò (…) di lotte per lo più difensive, che nascevano in reazione allo strapotere padronale e in difesa di condizioni di vita che, nell’Italia sconvolta dalla crisi economica, divenivano sempre più pesanti in termini salariali e in termini di organizzazione del lavoro”.94
Il sindacato fascista aveva quindi un carattere decisamente ambiguo:
“un sindacato che ha il compito di controllare le masse, ma che, proprio per assolvere questo compito, deve dare soddisfazione ad alcune loro rivendicazioni elementari”. 95
Il sindacato dei lavoratori dell’Histadrut svolge perfettamente il suo compito di controllo e orientamento verso obiettivi nazionali, solo che lo fa sotto la copertura, sempre più lacera, del «socialismo» nazionale. Se talvolta è necessario ricorrere alla lotta per placare alcune esigenze dell’ineludibile antagonismo di classe degli operai e dei lavoratori, come sotto il fascismo, si ricorre allo sciopero cercando di limitarne gli effetti. Più che allo sciopero, però, l’Histadrut ricorre al costante sbandieramento della minaccia alla sopravvivenza di Israele. Questa è ormai la nota dominante della propaganda nazionale. In nome della pretesa costante e incombente minaccia a tutta la nazione si riescono a far fare ai lavoratori israeliani tutti i sacrifici che i governanti sionisti di destra e di «sinistra» ritengono necessari. Molti credono addirittura che i regimi fascisti abbiano abolito totalmente i sindacati operai. Ma la storia ci dice che non è così. Il nazismo effettivamente abolì i sindacati operai. Ma non fu così per la maggior parte dei regimi fascisti, i quali preferirono usare i sindacati, dopo ampie epurazioni ovviamente, per fini nazionali e per irreggimentare e controllare le masse. Questo avvenne sicuramente per il fascismo italiano.
“A differenza di quanto avverrà nella Germania nazionalsocialista, dove il regime reazionario di massa si organizzerà in forme tali che gli consentiranno di sopprimere ogni forma di organizzazione sindacale, il fascismo italiano costruì all’ombra del monopolio di Stato proprie organizzazioni sindacali che, pur non avendo sul piano giuridico carattere di obbligatorietà, costituivano di fatto il tramite necessario per l’occupazione dei lavoratori delle singole categorie. Questa peculiarità non fu certo dovuta ad un maggior legame, sia pure negativo, con le tradizioni del movimento operaio (anzi da questo punto di vista, non va dimenticato che in fatto di demagogia sociale il fascismo tedesco non fu certo secondo al fascismo italiano: si richiamava al socialismo – per quanto nazionale – nella sua denominazione di partito operaio, incorniciò la svastica nel rosso delle sue bandiere e conservò la festa del 1° maggio) Essa scaturì piuttosto dalla circostanza che la costruzione del regime reazionario di massa fu avviata in Italia nel contesto di una politica di deflazione e di bassi salari, che rendeva prioritaria e indispensabile la funzione di controllo delle masse lavoratrici esplicabile dal sindacato, mentre in Germania la scelta di una politica di riarmo subito compiuta da parte del nazismo al potere consentì di ottenere immediatamente un consenso delle masse lavoratrici fondato sull’elargizione di salari relativamente elevati e poté esprimersi nel «Fronte del lavoro», prescindendo da ogni forma di mediazione sindacale. Aiutava inoltre il fascismo nel seguire questa strada il fatto che (…) soltanto una parte dei lavoratori italiani era stata sindacalmente organizzata prima della marcia su Roma, e inoltre in organizzazioni divise da rivalità ideologiche o di carattere tendenzialmente tradeunionista, cosicché il personale fascista operante in questo settore, spesso di provenienza sindacalista rivoluzionaria, poté assumersi il compito di sindacalizzare per la prima volta vaste masse di lavoratori”.96
Anche l’Histadrut, fondato nel 1920, per diventare una specie di monopolio di Stato (prima che nascesse lo stato) e 94 AAVV, Storia d’Italia, vol IV, Dall’unità a oggi, Torino, Einaudi, 1976, p. 2008. 95 AAVV, Storia d’Italia, vol IV, Dall’unità a oggi, cit. p. 2009. 96 AAVV, Storia d’Italia, vol IV, Dall’unità a oggi, cit. p. 2008. 
per trasformarsi da organizzazione operaia in corporazione economica, ha dovuto operare una dura lotta di epurazione degli elementi socialisteggianti provenienti dai partiti operaisti dei coloni russi della seconda alya. Ci riferiamo alle posizioni della piccola pattuglia dei sionisti-socialisti seguaci di Ber Borochov (1881-1917), il cui partito il Poalei Tsion (Operai di Sion) era l’esponente più «marxista» del nazionalismo ebraico. Ci riferiamo anche al «Battaglione del lavoro», nato dalla terza alya e che auspicava
“una comune unica, su scala dell’intero paese, una entità integrata in cui tutti i kibbutzim avrebbero costituito altrettante unità solidaristicamente tra di loro da una cassa comune, con tutto quello che ciò implicava di proprietà collettiva di tutti i beni, di coordinamento, di gestione e decisioni concertate”.97
Ebbene, fin dalla sua nascita l’Histadrut ritenne necessario inglobare prima, per distruggere poi, queste forze pericolose. Fu soprattutto la spina dorsale dell’Histadrut, il partito di David Ben Gurion, l’Ahdut Haavoda che portò a termine questa battaglia. In pochi anni fu cancellata qualsiasi traccia di marxismo e di collettivismo comunardo. Nel 1924, la creazione della società Nir venne a sancire che “nessuna sperimentazione di vita collettivista su grande scala sarebbe stata tollerata”98 in Palestina. Questa società mise sotto lo stretto controllo dei dirigenti dell’Hevrat Ovdim, i kibbutz e le terre nuovamente acquistate. Da allora i dirigenti laburisti poterono dirigere col pugno di ferro l’intero movimento di colonizzazione. Le somiglianze col fascismo non si fermano qui. Da un altro punto di vista l’Histadrut, in quanto monopolio, fa pensare a quelle aziende, come l’Imi e l’Iri, create dal fascismo col suo intervento nell’economia italiana negli anni 1930-31. La creazione dei monopoli pubblici dell’Imi e dell’Iri era
“un particolare tipo di intervento, che si differenzia non solo dalla vecchia politica protezionistica, rivolta ad accrescere la competitività in alcuni settori dell’industria italiana, ma anche dalla pura e semplice assunzione da parte dello Stato delle perdite dei settori in difficoltà dell’industria nazionale; essa consisteva nell’istituzione di strumenti di controllo e nella creazione di una struttura portante dell’economia italiana di carattere pubblico, ma organizzata sulla base di criteri privatistici”.99 Prima della creazione dello Stato sionista e dopo, per almeno tutti gli anni Cinquanta, l’Histadrut ha svolto un ruolo assai simile nell’economia israeliana, con l’aggravante che è stata questa struttura «pubblica» (assieme all’esercito) a fornire allo Stato i suoi dirigenti e i più alti funzionari e non viceversa. In quanto monopolio, o meglio complesso monopolistico, l’Histadrut ha facilitato uno sviluppo economico capitalistico nazionale fornendo al paese una struttura autonoma e semi-indipendente dal mercato internazionale, che però è servita anche ad attrarre capitali internazionali, soprattutto ebraici. Col tempo, il suo settore di produzione di armi ha costituito la base per lo sviluppo di un complesso militare-industriale sempre più legato al complesso militare-industriale americano. É risaputo che oggi il settore militare israeliano ha ottenuto licenze di modifiche di armi americane, che produce ed esporta in quei paesi in cui, a causa dei divieti del Congresso, gli Stati Uniti non possono esportarle. Questo è il settore industriale israeliano oggi più impegnato nel mercato mondiale con contratti di esportazione, produzione, commercializzazione di armi americane modificate, contratti di formazione con eserciti importanti come sono gli eserciti dell’India o della Cina. Vi è anche un settore di consulenti e contractors che operano in tutto il mondo. L’Histadrut ha anche costruito una serie di strutture assistenziali che servono per rafforzare l’ideologia nazionalista sionista ed esercitare in Israele un controllo non dissimile da quello che il fascismo ha cercato di esercitare sulle masse in Italia. Il fascismo istituì le sue strutture assistenziali, per esempio il «dopolavoro» (Opera nazionale dopolavoro). Una struttura capillare tesa a inquadrare il massimo numero possibile di lavoratori. Oltre che delle attività di divertimento, il «dopolavoro» si occupava di assistenza e di istruzione. Esso tuttavia era indipendente sia dal partito fascista, sia dai sindacati fascisti. L’Histadrut possiede varie organizzazioni «dopolavoristiche» con funzioni analoghe ma paradossalmente queste non sono affatto indipendenti, in quanto legate sia al sindacato, sia all’Hevrat Ovdim, sia ai partiti politici e quindi indirettamente anche al governo. Ma l’aspetto più singolare e inquietante dell’Histadrut è che esso, già dagli anni Venti, ha dato vita alla militarizzazione dei lavoratori e del paese. Colonizzare un paese non è un’impresa che può essere compiuta senza ricorso alla forza; questo i sionisti lo sapevano. La prima organizzazione militare nacque nel 1907, essa era denominata Hashomer (il Guardiano) ed aveva il compito di sostituire le guardie arabe assoldate per sorvegliare le proprietà ebraiche. Le proprietà ebraiche dovevano essere, da allora in poi, sorvegliate e protette solo da ebrei armati. Due anni dopo nacque un’organizzazione segreta di difesa fondata da Yitzhak Ben Zvi, futuro presidente d’Israele. Erano piccole formazioni militari i cui fondatori erano «socialisti» ma il loro compito non era di difendere i poveri
97 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. p. 305. 98 Z. Sternhell, Aux origines d’Israel, cit. p. 295. 99 AAVV, Storia d’Italia, vol. IV, Dall’unità a oggi, cit. p. 2006.
emigranti ebrei, ma semmai proteggere le ricche proprietà ebraiche dai palestinesi, subito individuati come un potenziale pericolo. Durante la prima guerra mondiale il giovane Jabotinsky creò un’unità combattente denominata il «Corpo dei Muli di Sion» che prestò servizio nei ranghi dell’esercito britannico a Gallipoli (Turchia). Un altro giovane sionista Aaron Aaronsohn organizzò una rete di spionaggio, il Netzakh Israel Lo Yeshaker (Nili), cioè «L’Ebreo Eterno Non Fallirà», che serviva la causa sionista ma collaborava anche con l’intelligence britannica. Verso la fine della guerra, Jabotinsky riuscì a reclutare un numero notevole di coloni per formare «La Legione Ebraica», quattro battaglioni di Fucilieri Reali, 5.000 uomini che combatterono, con una propria bandiera, a fianco degli inglesi contro la Turchia. Questa fissazione con la militarizzazione dei coloni era finalizzata ad armarli e prepararli psicologicamente allo scontro con gli arabi. Un ufficiale sionista dei Fucilieri, Joseph Trumpeldor, che si dice fosse stato ufficiale nell’esercito zarista, così spiega l’obiettivo della militarizzazione sionista:
“Abbiamo bisogno di uomini pronti a tutto … dobbiamo allevare una generazione di uomini senza interessi né abitudini… Barre di ferro, elastiche ma di ferro. metallo che possa essere forgiato in qualunque cosa sia necessaria per la macchina nazionale. Una ruota? Sono la ruota. Serve un chiodo o un ingranaggio? Prendete me! C’è bisogno di scavare? E io scavo. C’è bisogno di sparare, di fare il soldato? … Io sono un soldato … Sono l’ideale puro del servizio pronto a tutto”.100
Tale era l’ideale militarista che il giovane sionista era invitato a seguire; il colono-soldato-conquistatore era additato a tutti come esempio da ammirare ed amare. Tutte queste formazioni militari confluirono nell’Haganah (Difesa), al momento della sua fondazione da parte dell’Histadrut, il 12 giugno 1920. Non si comprende la finalità di questa struttura militare se non si prende in considerazione l’obiettivo finale dei sionisti. In Palestina infatti vi era già l’esercito britannico, il quale aveva tra i suoi compiti anche quello di difendere le colonie ebraiche. Era ovvio che l’esercito ebraico dei coloni doveva servire a preparare la lotta contro i palestinesi. I finanziamenti all’Haganah vennero sempre dall’Histadrut e per suo tramite dall’Organizzazione Sionista Mondiale, ma l’esercito dei coloni volle presentarsi come indipendente per poter attirare tra i suoi ranghi giovani provenienti da tutti i partiti politici. Era importante che vi aderissero anche i sionisti di destra seguaci di Jabotinsky e Trumpeldor. Fu questo vero e proprio esercito che preparò militarmente decine di migliaia di giovani uomini e donne; la sua struttura era semi-clandestina ma i britannici erano a conoscenza della sua esistenza. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, l’esercito britannico collaborò con essa per mettere in piedi delle pattuglie d’assalto, denominate Palmah. Già prima della guerra del 1948, quando ormai la resa dei conti con i palestinesi si avvicinava, le Palmah si macchiarono di numerosi crimini contro le masse dei palestinesi disarmati. Durante il conflitto i battaglioni di queste truppe scelte costituirono le forze d’assalto ebraiche che espulsero i contadini arabi non disposti a lasciare le loro terre senza una qualche resistenza. Da esse sono venuti molti generali dell’esercito israeliano e diversi capi di Stato Maggiore tra cui Yitzhak Rabin. Le Palmah furono sciolte nel novembre 1948 e i suoi membri costituirono il nocciolo centrale dell’esercito dello Stato d’Israele. Mentre, tra il 1940 e il 1945, l’Haganah collaborava con gli inglesi, i sionisti di destra di Jabotinsky, per divergenze con i laburisti sul momento di iniziare la lotta anti-britannica e per la scelta di allearsi con i tedeschi in funzione antiinglese, costituirono proprie forze armate. Ci riferiamo alle famigerate organizzazioni militari terroriste dell’Irgun, del Lehi e della cosiddetta «banda Stern». Dopo la partenza delle truppe di sua Maestà, le formazioni armate della destra sionista aderirono all’Haganah. Quest’ultima aveva cercato e in parte era riuscita ad attrarre nelle proprie fila militanti di destra, ma Jabotinsky e i suoi si erano nuovamente rafforzati con l’ondata di profughi ebrei giunta in Palestina durante la guerra e grazie alla collaborazione, tra il 1934 e il 1937, con il regime fascista italiano (vedi capitolo V). Nel 1948 anche queste formazioni militari, oltre all’Haganah, confluirono in Tsahal, cioè l’esercito israeliano. «Socialisti» e fascisti, tutti insieme per una causa nazionale nella quale il militarismo e il nazionalismo aggressivo erano posti al di sopra di qualsiasi divergenza o posizione politica.
3) Il sistema parlamentare di un regime ideocratico
Abbiamo visto, nel capitolo II, quale tipo di «democrazia» esiste in Israele. Quello che può sorprendere, a questo punto, è che in Israele ci sia comunque un sistema parlamentare, per quanto esso non può essere paragonato ai sistemi parlamentari dei paesi occidentali. Sorprende cioè che nello Stato ebraico non sia stato instaurato un sistema a partito unico. L’esistenza di un parlamento di tipo apparentemente democratico-borghese è il vanto dei sionisti e dei loro amici nel mondo; in questo modo, Israele oggi può sostenere di essere l’unica democrazia in Medio Oriente e su questa base ideologica è anche costruita l’alleanza con gli USA e l’Europa. Non sarebbe ovviamente così nel caso in Israele ci fosse un sistema politico a partito unico.
100 Citato in David Hirst, Senza Pace, Bologna, 2003, Nuovi Mondi Media, p. 115. 
É vero che in Israele non c’è la dittatura di un partito unico e i partiti che concorrono alle elezioni sono numerosi, anzi ne sorgono ogni tanto dei nuovi. La «democrazia» israeliana è caratterizzata da un sistema di partiti piuttosto vivace: Vi sono due grandi partiti e numerose formazioni minori, che posseggono una grande mobilità; nel senso che possono fondersi tra loro, dissociarsi, coalizzarsi, tornare a dividersi, ecc., secondo quelle che sembrano le regole di una democrazia parlamentare. Ma quella che pare una democrazia addirittura più briosa dei fossilizzati sistemi politici bipolari occidentali, non è che vana apparenza e quella che viene definita democrazia non lo è nel senso pieno del termine. Se in Israele non esiste un partito unico, esiste però un’ideologia unica: il nazionalismo sionista. Non è permesso allontanarsi da essa e dai suoi obiettivi storici, non è permesso, per legge, fondare partiti non sionisti; né mettere in discussione l’esistenza di Israele in quanto Stato ebraico e nemmeno proporre riforme che trasformino Israele in uno Stato di tutti i cittadini che abitano nei suoi confini. Non è permesso operare per l’uguaglianza totale tra cittadini arabi e ebrei, si può solo (anzi si deve) parlare di una simile uguaglianza che non esiste e non si vuole che esista. L’ideologia sionista impone l’idea di Israele come Stato ebraico; l’idea che Israele è lo Stato di tutti gli ebrei del mondo e non delle persone che vivono entro i suoi confini. In questo senso il sionismo è un’ideologia totalitaria molto simile al nazismo. É un’ideocrazia, come la definisce lo storico Ernst Nolte.101 Nessuno può mettere in discussione i suoi assiomi, né all’interno del paese, né all’esterno. Una ideocrazia infatti è un regime di governo fondato su una determinata ideologia, nel nostro caso il sionismo. Se qualcuno afferma che lo Stato sionista non deve esistere (come si è detto e fatto per il Sud Africa dell’apartheid) e deve essere invece sostituito da uno Stato democratico per ebrei e palestinesi, viene subito emarginato e ostracizzato. Se costui è ebreo, ci si limita a considerarlo un pazzo, «un ebreo che odia se stesso» (cosa significa?) e viene immediatamente escluso dal dibattito pubblico. Se non è un ebreo, allora lo si accusa di essere «antisemita», di volere la distruzione degli ebrei. Se costui è il capo di una nazione araba o islamica allora è un novello Hitler che prepara un nuovo olocausto. Si sa quale è il peso dell’accusa di «antisemitismo». Vera o falsa che sia, essa equivale a un marchio d’infamia contro cui non ci si può difendere. Molti rispettabili intellettuali di sinistra, come ad esempio Roger Garaudy, sono stati travolti da questa accusa. Eppure le loro posizioni erano chiaramente antisioniste e non antisemite. Ma oggi il sionismo internazionale, cioè Israele, le varie lobby ebraiche nel mondo e il codazzo di loro servitori, indistintamente della «sinistra» e della destra, hanno stabilito e sono riusciti ad imporre l’idea che antisionismo equivale ad antisemitismo. La potenza del pensiero unico sionista fa meraviglie, censura e reprime il dibattito molto meglio di tanti minculpop fascisti. La differenza tra l’ideocrazia israeliana e le altre ideocrazie prodotte in Europa, per esempio il nazismo o il fascismo, sta nel fatto che la prima è, per così dire, di «esportazione», mentre le altre hanno dovuto imporsi nel loro paese. Lo stato ideocratico israeliano si è formato in seguito all’emigrazione in Palestina di soli ebrei sionisti. Di destra e di «sinistra» certo, ma tutti sionisti, tutti decisi a raggiungere lo stesso obiettivo. C’è stata, è vero, competizione tra le varie tendenze sioniste (quella «socialista», quella fascista, quella religiosa), a volte anche una competizione violenta, ma essa è stata sempre assorbita all’interno dello stesso progetto nazionalista. Nessuna delle tre tendenze è riuscita né ha voluto imporsi sulle altre eliminandole. Esse hanno contribuito in modi diversi e con diverse forze allo stesso obiettivo. Il sistema parlamentare israeliano è fatto per accomodare le diverse facce dell’ideologia sionista. Tenendo bene in mente ciò, diventa facile capire perché in Israele è così semplice giungere alla formazione di coalizioni nazionali che associano cosiddette «colombe» e «falchi», laici e religiosi. Negli ultimi tempi sono stati numerosi i governi di unità nazionale. Se si riflette, al di là dei governi, il progetto sionista è andato avanti senza interruzioni, così pure la colonizzazione, così pure l’espulsione dei palestinesi. Si può capire allora come le definizioni che di solito si danno dei vari gerarchi sionisti, classificati in «colombe» e «falchi», sono del tutto ingannevoli. Il «falco» Begin, ha firmato il trattato di pace con l’Egitto di Camp David; la «colomba» Barak ha massacrato migliaia di palestinesi ed ha sviluppato come nessuno la colonizzazione in Cisgiordania e Gaza; il «falco» Sharon ha continuato a massacrare i palestinesi come nessun altro ma ha smantellato le colonie la cui espansione Barak aveva favorito a Gaza. Il «falco » Sharon e la «colomba» Peres, premio Nobel per la «pace», hanno fondato insieme il partito Kadima, lo stesso partito che ha recentemente decretato la guerra di distruzione in Libano del luglio-agosto 2006. Se si tiene in mente il sistema ideocratico del paese, si può capire anche come mai succeda tutti i giorni in Israele quello che in un paese occidentale sarebbe inimmaginabile. Ci riferiamo al peso dei militari, alcuni dei quali palesi criminali di guerra, nella politica. Generali e Capi di Stato Maggiore hanno da sempre occupato posti di segretari di partito, primi ministri, ministri, presidenti dello Stato. Si può immaginare una cosa del genere in una democrazia occidentale dove nemmeno il Ministro della Difesa proviene dall’esercito? Questo è normale in Israele, il paese più militarizzato del mondo ed anche il paese più ideologizzato del mondo. Israele non è comunque l’unico esempio di regime ideocratico parlamentare. Fino a qualche tempo fa in Sud Africa esisteva un sistema analogo. Anche la Repubblica Sudafricana aveva un sistema parlamentare e regolarmente organizzava elezioni «democratiche». In realtà erano elezioni veramente democratiche solo che gli unici elettori 101 E lo storico disse “Israele nazista”, La Repubblica , 7 maggio 2003.
autorizzati a parteciparvi erano i bianchi mentre la maggioranza di colore ne era esclusa. In Sud Africa, come in Israele non erano autorizzati a partecipare i partiti (anche formati esclusivamente da bianchi) che si proponevano di cancellare lo Stato razzista dalla carta geografica. Come in Sud Africa erano proibiti i partiti con un programma antirazzista, così in Israele sono proibiti i partiti con un programma antisionista. Non per niente il Sud Africa razzista e Israele strinsero un’alleanza ideologico-militare che durò per tutti gli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, fino alla caduta del regime razzista di Pretoria. Questa piena cooperazione era
“tesa al perfezionamento delle tecnologie per la produzione di piccole e sofisticate bombe all’idrogeno così come alla progettazione di modernissimi missili balistici per il loro trasporto” 102 nonché al rafforzamento delle rispettive economie e del peso politico dei due regimi nell’arena internazionale. Il simile al simile è sempre amico. É giunto però il momento di spiegare la differenza tra un regime ideocratico come Israele, che abbiamo definito di «esportazione» e i regimi ideocratici totalitari del nazismo e del fascismo. Queste due ultime ideocrazie si sono dovute affermare in paesi dove vi erano forti partiti politici totalmente contrari al nazismo e al fascismo. Hanno dovuto quindi sbarazzarsi di questi partiti e conquistare le masse al loro progetto ideologico. Il nazismo ha dovuto sconfiggere i partiti democratico-borghesi, il forte partito comunista tedesco, le forze religiose contrarie. Per fare questo ha dovuto condurre una lotta violentissima fin dalla sua nascita; ha dovuto sciogliere i sindacati; militarizzare le masse e l’economia; mettere il bavaglio alla stampa; cacciare o eliminare gli intellettuali liberali o progressisti; ha dovuto istaurare il suo pensiero unico; ha dovuto perfino costruire campi di concentramento per tutti gli oppositori, soprattutto comunisti e i socialisti, fin dal primo anno della sua ascesa al potere. I primi campi di concentramento e sterminio furono per gli oppositori politici, per i religiosi contrari alla dittatura, per i minorati mentali, per gli omosessuali. Non, come molti credono, per gli ebrei, a meno che essi non appartenessero ad una delle summenzionate categorie. Una lotta più lunga anche se meno violenta (ma sempre violenta) ha dovuto condurre il fascismo per poter fare della propria ideologia l’ideologia della nazione. Nazismo e fascismo hanno liquidato gli oppositori, ne hanno riempito le prigioni e i campi di concentramento, li hanno messi al confino, li hanno costretti all’esilio. Il sionismo, per il semplice fatto di essere nato nella Diaspora ebraica e non in un solo paese nel quale doveva impossessarsi del potere, ha costruito un po’ alla volta in una terra lontana il suo Stato sionista. Lo ha fatto per mezzo di emigrati già convinti dell’ideologia di cui andavano a costruire il potere. Questo ha rappresentato contemporaneamente la forza e la debolezza dei sionisti. La forza, perché appunto essi non hanno incontrato in Palestina nessuna opposizione ebraica, né politica né ideologica. Non hanno dovuto conquistare nessuno, erano già conquistati in partenza dall’ideologia sionista. La debolezza, perché essi erano una minoranza tra gli ebrei della diaspora ed hanno faticato a convincere una parte sufficientemente cospicua per poter proclamare uno Stato in una terra povera e lontana. Immaginiamo per un attimo che i fascisti e i nazisti, con i loro alleati monarchici e nazionalisti, per ragioni storiche particolari fossero stati costretti a fondare i loro Stati ideocratici non in Italia e Germania, ma in colonie africane e in condizioni di debolezza. Avrebbero forse scelto di emigrare sbandierando il progetto di una dittatura sanguinaria e, giunti alla loro destinazione, avrebbero forse istaurato un regime dittatoriale rischiando di spaventare tutti? O non avrebbero forse preferito un sistema più aperto per attirare quanti più sostenitori possibile malgrado differenze tattiche e sfumature politiche? E che bisogno c’era di un sistema dittatoriale se tutti gli emigranti erano perfettamente d’accordo col progetto finale? Il problema vero semmai è un altro. Quello di capire cioè come Israele, conservando un sistema parlamentare (pur se limitato) riesca a mantenere e addirittura a rafforzare l’ideologia fondante dello Stato, il sionismo, malgrado i suoi fondatori siano in gran parte scomparsi e le nuove generazioni vivano in un mondo globalizzato. Il mondo globalizzato non ha messo in crisi le ideologie razziste o ultranazionaliste; in qualche modo, anzi, ha dato loro nuovo vigore. Il sionismo poi è esso stesso un sistema ideologico globalizzato e trova la sua dimensione al di quà e al di là dell’Atlantico come il fenomeno dei neoconservatori sionisti americani prova chiaramente. Più importante (per rispondere alla nostra domanda) ci sembra però il fatto che il sionismo ha connaturato in sé la mentalità vittimistica di quegli ebrei che vedono nell’assimilazionismo un pericolo altrettanto grande per la «razza ebraica», quanto può esserlo l’antisemitismo. Abbiamo già detto con Ben Dor che Israele alimenta “una mentalità vittimistica tra gli ebrei israeliani” e per farlo “deve alimentare le condizioni della violenza” (vedi cap. I). La mentalità vittimistica non serve solo per nascondere ai cittadini israeliani “l’immoralità primordiale” dell’ingiustizia che Israele ha commesso e continua a commettere. Essa serve anche a mantenere vivo il sentimento di paura e angoscia della persecuzione e dello sterminio in tutti i cittadini dello Stato. Una paura esistenziale generalizzata e mantenuta ad arte dalla propaganda e da uno stato di guerra e mobilitazione perenne, permette ai dirigenti sionisti di 102 Andrew e Leslie Cockburn, Amicizie pericolose, Roma 1993, Gamberetti Editore, p. 330. 
inculcare, meglio che con qualsiasi altro mezzo, l’ideologia sionista nei giovani. Altri mezzi per inculcarla sono rappresentati dalle istituzioni scolastiche che diffondono capillarmente la versione della storia ufficiale, gli organi di stampa e i Media cibernetici. É significativo che nelle università israeliane si è dovuto aspettare più di quarant’anni perché uno sparuto gruppo di nuovi storici, con mille cautele, giungesse a mettere in discussione la negazione ufficiale della pulizia etnica del 1948. Molti israeliani capiscono perfettamente che il loro Stato opprime i palestinesi, diversi di loro sanno anche della pulizia etnica che ha permesso a Israele di essere fondato come Stato ebraico. Alcuni addirittura si dolgono (almeno così dicono) della miserabile condizione dei profughi palestinesi in Libano, Giordania, Gaza, ecc.. Ma in loro prevale la paura che il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e il ritorno dei profughi porti alla scomparsa degli ebrei o meglio dello Stato-rifugio per tutti gli ebrei del mondo «minacciati» dall’assimilazione o dallo sterminio.

CAPITOLO IV Sionismo e antisemitismo

Abbiamo parlato dell’odio che i sionisti provano per gli ebrei assimilazionisti, a ragione del loro rifiuto di emigrare in Israele. Quest’odio traspare evidente dalla lunga intervista che un personaggio molto vicino a Sharon concesse allo scrittore Amos Oz nel 1982, poco dopo la conclusione dell’avventura militare israeliana in Libano (tutto il brano potrebbe benissimo applicarsi alla più recente «operazione» nel paese dei cedri, effettuata non certo per liberare i due soldati israeliani catturati da Hezbollah, ma per distruggere il Libano e cercare di mettere i libanesi contro la resistenza islamica).
“Se anche lei mi provasse – dice il nostro sionista all’intervistatore – con matematica precisione che l’attuale guerra nel Libano è una sporca guerra immorale, non m’importerebbe. Dirò di più: anche se lei mi provasse che noi non abbiamo raggiunto e non raggiungeremo mai alcuno dei nostri obbiettivi in Libano, e che neppure potremo creare in Libano un regime amico né sconfiggere i siriani e neppure 1′OLP, nemmeno allora mi importerebbe. Questa guerra valeva comunque la pena di farla. Anche se la Galilea venisse di nuovo bombardata dai katjuscia entro un anno, anche di questo in fondo non m’importerebbe. Noi cominceremmo un’altra guerra, uccideremmo e distruggeremmo ancora e ancora finché quelli ne avranno abbastanza. E lo sa lei perché ne vale la pena? Perché sembra che questa guerra ci abbia reso ancora più impopolari presso il cosiddetto mondo civile. Non sentiremo più ripetere le assurdità sulla famosa moralità ebraica, sulla lezione morale dell’olocausto o sulla immagine di purezza e virtù degli ebrei emersa dalle camere a gas. Facciamola finita. La distruzione di Eyn Hilwe (è un peccato che non abbiamo spazzato via del tutto questo nido di calabroni [ si tratta di un villaggio libanese, n.d.t.] ), il salutare bombardamento di Beirut e quel modesto massacro (si può chiamare massacro l’uccisione di cinquecento Arabi nei loro campi?) che avremmo dovuto compiere con le nostre delicate mani invece di lasciarlo fare ai falangisti, queste ottime operazioni hanno troncato finalmente tutti quei merdosi discorsi su ‘un popolo eccezionale, faro per tutte le nazioni’. Basta con questo popolo eccezionale, buono, faro di civiltà, sbarazziamocene. Personalmente non desidero affatto essere migliore di Komeini o di Breznev, o di Gheddafi, di Assad o della signora Thatcher e nemmeno di Harry Truman che ammazzò mezzo milione di giapponesi con due belle bombe. Io voglio solo essere più intelligente, più veloce e più efficiente di loro, non più buono o più bello.. secondo lei i cattivi di questo mondo se la passano male? se qualcuno prova a toccarli, quelli gli tagliano le mani e anche le gambe, sono cacciatori che inseguono e acchiappano tutto quello che gli par buono da divorare. E non soffrono di indigestione e il Cielo non li punisce. Io voglio che Israele si associ a questo club cosi, forse, alla fine il mondo comincerà a temermi invece di compatirmi. Forse allora cominceranno a tremare, a temere il mio furore invece che ammirare la mia nobiltà. Grazie a Dio! Lasciateli tremare, lasciate che ci chiamino uno stato aggressivo, lasciate che capiscano che siamo un paese selvaggio, pericoloso per i popoli che ci circondano, non normale, e che potremmo diventare feroci se uccidono uno dei nostri figli, anche uno solo. Lasciate che pensino che potremmo perdere ogni controllo e bruciare tutti i pozzi petroliferi del Medio Oriente. Se, Dio non voglia, succedesse qualcosa a suo figlio, lei parlerebbe come me. Si rendano conto a Washington, a Mosca, a Damasco, in Cina che se uno dei nostri ambasciatori venisse ammazzato o anche un console o uno dei giovanissimi addetti d’ambasciata, noi potremmo scatenare la terza guerra mondiale solo per questo. (…) Mi lasci dire qual è la cosa più importante, il frutto più dolce della guerra in Libano: è che loro ora, non solo odiano Israele, ma grazie a noi odiano anche quei feinschmecker [palati delicati, n.d.t.] di ebrei di Parigi, Londra, New York, Francoforte, Montreal che se ne stanno nei loro gusci. Alla fine ora odiano anche queste belle anime di yids che dicono di essere diversi da noi di non essere come thugs israeliani, ma ebrei puliti ed educati. Ma non gli servirà a niente, a questi yids cosi per benino, come non è servito all’ebreo assimilato di Vienna e di Berlino che pregava gli antisemiti di non confonderlo con i vocianti e puzzolenti giudei dell’est, perché lui si era liberato dai costumi degli sporchi ghetti di Ucraina e Polonia. Lasciamoli gridare che loro condannano Israele, che sono nel giusto, che non vogliono far del male nemmeno a una mosca, che preferiscono essere ammazzati che ammazzare, che si sono assunti il compito di mostrare ai gentili come essere buoni cristiani porgendo sempre l’altra guancia.. Questo non gli porterà alcun vantaggio. Ora stanno subendo questo odio a causa nostra. E io le confesso che per me questo è un piacere. Questi sono gli stessi yids che hanno convinto i gentili a capitolare di fronte a quei bastardi di vietnamiti, a mollare di fronte a Komeini, a Breznev, a impietosirsi per lo sceicco Yamani a causa della sua difficile infanzia e a fare l’amore e non la guerra. O magari a non fare né l’una né l’altra cosa, piuttosto a scrivere un saggio sull’amore e sulla guerra. Con tutto questo abbiamo chiuso. L’ebreo è stato respinto, non solo ha crocefisso Gesù, ma ha crocefisso anche Arafat a Sabra e Chatila, ormai essi sono identificati con noi e questa è una cosa buona, i loro cimiteri vengono dissacrati, le loro sinagoghe incendiate, tutti gli epiteti sono stati rispolverati, vengono espulsi dai club esclusivi, la gente spara contro i loro ristoranti etnici, uccidendo anche i bambini, costringendoli a cancellare tutte le insegne ebraiche, costringendoli ad andarsene o a cambiare professione. Ben presto i loro palazzi verranno coperti da slogan: yids, andate in Palestina e sa che le dico? Loro verranno in Palestina perché non avranno altra scelta! Questo è il vantaggio che abbiamo ricevuto dalla guerra in Libano. Mi dica, non valeva la pena? Presto avremo tempi migliori. Gli Ebrei cominceranno ad arrivare, gli israeliani smetteranno di andar via e coloro che se ne sono già andati torneranno. Quelli di loro che hanno scelto l’assimilazione capiranno finalmente che non gli serve a niente cercare di essere la coscienza del mondo. La coscienza del mondo si prenda nel culo quello che non gli è entrato nella testa. I Gentili si sono sempre sentiti insofferenti verso gli ebrei e la loro coscienza e ora gli yids hanno una sola via d’uscita, tornare a casa, 51
tornarci tutti, presto, per installare grosse porte d’acciaio, per costruire una robusta barriera, per avere mitragliatrici posizionate in ogni angolo della loro barriera e combattere come diavoli contro chiunque osi alzare la voce contro questo paese. E se qualcuno alza la mano contro di noi gli porteremo via metà della sua terra e bruceremo l’altra metà, incluso il petrolio. Possiamo anche usare le armi nucleari. Andremo avanti finché non ce la faranno più. Ancora oggi sono disposto a offrirmi volontario per fare il lavoro sporco per Israele, per uccidere quanti Arabi è necessario, per deportarli, per espellerli e bruciarli in modo che tutti ci odino, per togliere il tappeto da sotto i piedi degli ebrei della diaspora cosi che essi siano costretti a correre da noi piangendo. Anche se ciò significa vedere saltare per aria una o due sinagoghe qua e la, non m’importa. E non mi preoccupo se a lavoro finito sarò messo di fronte al tribunale di Norimberga e poi messo in carcere a vita. Impiccatemi se volete come criminale di guerra. Cosi voi potete ripulire la vostra ebraica coscienza ed entrare nel rispettabile club delle nazioni civili, che sono ampie e sane. Ciò che voi tutti non capite è che il lavoro sporco del sionismo non è ancora finito. Siamo ancora lontani dalla fine. É vero, avrebbe potuto essere finito nel 1948, ma voi avete interferito, lo avete fermato. E tutto questo a causa della ebraicità delle vostre anime, a causa della vostra mentalità di diaspora. (…) Perciò sono contento che questa piccola guerra in Libano abbia spaventato gli yids. Si spaventino pure, soffrano, cosi si affretteranno a tornare a casa prima che venga buio del tutto. Per questo, io sarei un antisemita? Bene. Allora non citi me, citi Lilienblum che non è sicuramente antisemita, tanto è vero che una strada di Tel Aviv porta il suo nome. (l’intervistato cita leggendo in un quadernetto che era sul suo tavolo)
Tutto ciò che sta accadendo non è forse un segno che i nostri antenati vollero e noi stessi vogliamo, essere perseguitati, che a noi piace vivere come zingari.. e questo è Lilienblum a dirlo, non io. Mi creda ho studiato la letteratura sionista, posso provare quello che dico. E scriva pure che io sono una disgrazia per l’umanità. Non me ne importa, anzi. Facciamo un patto: io farò tutto il possibile per espellere gli Arabi da qui. Io farò tutto il possibile per incrementare l’antisemitismo e lei scriverà poesie e saggi sull’infelicità degli Arabi e si preparerà ad assorbire gli yids che io costringerò a rifugiarsi in questo paese e ai quali insegnerò ad essere un faro per i Gentili. Cosa ne dice?” 103 L’intervista che abbiamo appena letto è vera al cento per cento, ce lo garantisce lo scrittore Amos Oz, tra l’altro un sionista lui stesso, il quale però si è sempre rifiutato di dire il nome della persona intervistata, perché, per poter raccogliere i suoi propositi, Oz aveva promesso che quel nome non avrebbe mai svelato. Si è a lungo discusso se l’intervistato non fosse in realtà proprio Sharon e si è detto che Oz non abbia voluto svelare il nome per ragioni politiche visto che il personaggio era allora ai vertici della politica israeliana. I propositi sionisti sono stati attribuiti anche a Shlomo Baum, a Motta Gur, personaggi vicinissimi ideologicamente a Sharon o ancora a Raphael Eytan. Il primo era molto vicino a Sharon, non solo ideologicamente visto che negli anni ’50 era stato il suo vice nella famigerata Unità 101, diretta proprio da Sharon, un reparto speciale dell’esercito che si era macchiato di varie stragi a Gaza e in Cisgiordania. Le «operazioni» più note furono quelle del campo profughi di El-Bureij nella striscia di Gaza. L’obiettivo era il colonnello Egiziano Mustapha Hafez che di fatto governava la Striscia. Secondo l’ufficiale delle Nazioni Unite presente a Gaza, Van Bennike, i kommando israeliani lanciarono bombe a mano nelle case dove dormivano dei rifugiati e quelli che cercarono di salvarsi fuggendo furono falciati a raffiche di mitra. Solo due mesi dopo Sharon e Baum attaccarono il villaggio di Qibya, sotto amministrazione Giordana. Morirono circa 70 civili innocenti nelle case abbattute con la dinamite. Il secondo, deve la sua preparazione militare alla Francia, dato che in gioventù seguì i corsi dell’École de guerre e dell’École militaire di Parigi (1959/60) quando la Francia era alleata ad Israele per meglio combattere la resistenza algerina. Nel 1976 e nel 1978 rispettivamente, fu alla testa delle operazioni di Entebbe e sul fiume Litani. Nella prima, la sua unità atterrò all’aeroporto di Entebbe e massacrò centinaia si soldati e civili ugandesi per liberare gli israeliani di un aereo dirottato. La seconda operazione rappresentò la prima invasione del Libano da parte di Israele, effettuata nel tentativo di influenzare la politica libanese in senso anti-palestinese. In quel caso la scusa per l’invasione fu un attentato palestinese vicino a Tel Aviv e l’esercito israeliano si spinse fino al fiume Litani per creare una «fascia di sicurezza». L’operazione portò, anche in quel caso a numerose vittime e all’esodo di molti libanesi sciiti (allora furono 250 000). Dopo questa “operazione” nacque la resistenza sciita libanese che nel corso della seconda invasione israeliana del Libano (1982) darà vita a Hezbollah. Da notare che mentre Motta Gur conduceva i suoi carri armati in Libano, Israele era impegnato nelle “trattative di pace” con l’Egitto a Camp David. Alla fine dell’Operazione Litani, Israele costituì un esercito mercenario di cristiani maroniti che affidò al Maggiore cristiano Haddad, al quale venne affidata una zona al confine con Israele e il compito di tenere a distanza i Palestinesi e la resistenza libanese. In seguito a queste “eroiche” gesta, Motta Gur fu premiato con un seggio alla Knesset nelle fila del partito … laburista. Ricoprì anche la carica di vice ministro della difesa. Potrebbe però anche essere stato il generale Eytan, l’autore di quei propositi razzisti. Non sarebbe certo una cosa
103 Intervista pubblicata sul quotidiano israeliano Davar, il 17 dicembre 1982. Vedi il sito web: http://www.counterpunch.org/pipermai1/counterpunch-1ist/2001-September/013054.htm1 52
nuova per lui visto che, ci dice di lui Israel Shahak:
“egli dichiara regolarmente alle sue truppe che «un buon arabo è un arabo morto», afferma che tutti gli arabi devono essere sterminati o espulsi, ha sempre preconizzato le punizioni collettive, e non ha mai dovuto affrontare fino ad ora una sola opposizione di un qualsiasi membro dell’establishment politico, né del Likud, né dei laburisti. Per il generale attuale Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, gli arabi, tutti gli arabi e non solo i palestinesi, formano una categoria umana particolare e a questo titolo meritano un «trattamento» a parte. Questo metodo è comune a Eytan e ai nazisti, somiglia molto ai metodi che si usano abitualmente per ammaestrare gli animali. Questi ultimi non possedendo nessuna «umanità», non posseggono neanche quel valore intrinseco che di solito garantisce ad ogni essere umano, indipendentemente dal sistema nel quale vive, un certo numero di diritti inalienabili”. 104
Raphael Eytan ha un curriculum criminale dei più folti. Basta ricordare che lui e Sharon sono i personaggi militari di più alto rango coinvolti nei massacri di Sabra e Chatila e nella scomparsa di diverse centinaia di palestinesi e libanesi rastrellati a Beirut portati via su camion e svaniti nel nulla. 105 Chi sia la persona intervistata, in realtà, non ha molta importanza. Le cose importanti da dire sono prima di tutto che l’intervista è sicuramente vera, e poi che i contenuti dell’intervista corrispondono ad un modo di pensare che non è fuori dal mondo ma al centro del sionismo, una volta che esso viene sfrondato dalla sua retorica. Quest’ultimo fatto è confermato dallo stesso Oz che successivamente all’intervista affermò di aver ricevuto lettere di numerose persone le quali «si presero il fastidio di scrivere per esprimere la loro totale identificazione con le parole del personaggio» [appendice alla traduzione inglese dell’intervista, apparsa in The Land of Israel, London, 1983, pp. 85-100; traduzione e corsivo miei]. Il personaggio, comunque, ci spiega molto chiaramente che sono i sionisti i primi ad odiare quegli ebrei che si rifiutano di emigrare in Israele e che vogliono integrarsi nel paese d’origine. Egli ci spiega anche come l’antisemitismo sia funzionale, anzi indispensabile al sionismo, perché esso spinge gli ebrei in Palestina. Anzi egli dice che vuole fare «il lavoro sporco» perché si sviluppi l’antisemitismo e questo spaventi gli ebrei assimilazionisti e li spinga in Palestina.
Se i sionisti hanno così tanto bisogno dell’antisemitismo è forse sorprendente che si siano alleati con i peggiori antisemiti della storia? Queste vergognose alleanze le esamineremo nei dettagli nel capitolo successivo. É sorprendente che essi accusino gli ebrei marxisti, internazionalisti o assimilazionisti di essere «palati delicati», «ebrei puliti ed educati» o peggio «ebrei che odiano se stessi»? Il sionista intervistato vuole attizzare l’antisemitismo, vuole far odiare gli ebrei per farli fuggire in Israele, per farli contribuire ad ulteriori pulizie etniche, ulteriori massacri di palestinesi. D’altronde il binomio sionismo-antisemitismo era contenuto nella definizione stessa del nazionalismo ebraico. Fin dall’inizio della sua affermazione, l’approccio sionista alla questione ebraica sembrava calcato sulla teoria antisemita. Come gli antisemiti, i sionisti sostenevano che gli ebrei costituivano una presenza estranea nelle società europee le quali «appartenevano» per diritto naturale alle popolazioni prevalenti. L’antisemitismo era anzi per loro una cosa non del tutto negativa in quanto costituiva l’impulso naturale di una società organica che si sentiva minacciata, quasi «infettata» da una comunità estranea, un corpo alieno. D’altra parte per i sionisti, l’antisemitismo aveva decisamente (ed ha sempre) l’aspetto positivo di operare contro l’assimilazione degli ebrei nel corpo sociale prevalente. L’assimilazione era temuta dagli antisemiti ma era anche quello che temevano i sionisti, cioè che gli ebrei perdessero le loro caratteristiche culturali, religiose e di razza, fondendosi con i popoli. Al contrario, i sionisti lottavano perché gli ebrei conservassero integro tutto il loro patrimonio razziale e culturale. Solo se le società prevalenti rigettavano, con il loro antisemitismo, tutti gli ebrei sarebbe stato possibile ai sionisti convincerli ad emigrare in Palestina e costituire lo Stato per soli ebrei. La famosa frase del filosofo filo-sionista francese Jean Paul Sartre “l’antisemitismo si trova nell’infelice posizione di avere bisogno per sopravvivere dello stesso nemico di cui vuole la distruzione”106 Si potrebbe invertire in “il sionismo si trova nell’infelice posizione di avere bisogno per sopravvivere dello stesso nemico di cui vuole la distruzione” e il suo senso ne ricaverebbe in completezza. Lo scrittore sionista A.B. Yehoshua ha affermato:
“I gentili hanno sempre incoraggiato il sionismo, sperando che li avrebbe aiutati a liberarsi degli ebrei che vivevano tra di loro. Anche oggi, in una maniera perversa, un vero antisemita deve essere un sionista”. 107
Yeoshua, che nei paesi europei viene fatto passare per un progressista, dimentica di completare il concetto, ma non 104 Israel Shahak, Nazification, Revue d’études palestiniennes, N° 8 1983, p. 90. 105 Vedi: Amnon Kapeliouk, Sabra e Chatila, inchiesta su u massacro, Pistoia 2002, CRT. 106 Jean Paul Sartre, Anti-Semite and Jew, New York 1975, p. 28. 107 Jewish Chronicle, 22 gennaio 1982. c’è problema lo faremo noi. Basta aggiungere: “i sionisti hanno sempre incoraggiato l’antisemitismo sperando che li avrebbe aiutati a far emigrare gli ebrei in Palestina. Anche oggi, in maniera naturale, un sionista deve essere anche un vero antisemita”, e i conti tornano. La forma peggiore di antisemitismo è stato indubbiamente il nazismo. Che corrisponda a verità pure che per essere un vero sionista bisogna essere almeno un po’ nazista? Una società liberale, democratica e tollerante che avesse incoraggiato l’integrazione e l’assimilazione degli ebrei nel suo grembo avrebbe rappresentato per il sionismo la più grande minaccia. Il sionismo non ha mai cercato di combattere l’antisemitismo (solo gli ebrei assimilazionisti hanno interesse a farlo e lo fanno effettivamente). Esso ha più che altro cercato un modus vivendi (parole di Lenni Brenner) con l’antisemitismo, basato sul reciproco vantaggio. Da qui la collaborazione col nazismo e col fascismo di cui diremo oltre. Da qui le sorprendenti frasi che riportiamo di seguito, con i loro autori, e che possono essere comprese solo se si tiene in debito conto la vera natura del sionismo che noi abbiamo cercato di smascherare.
“Ogni paese può assorbire solo un numero limitato di ebrei, se non vuole avere disturbi nello stomaco. La Germania ha già troppi ebrei.” 108
“Anche noi siamo d’accordo con l’anti-semitismo culturale, in quanto che noi crediamo che i tedeschi di fede mosaica siano un fenomeno indesiderabile e demoralizzante”.109
“L’ebreo è una caricatura di un essere umano normale e naturale, sia fisicamente che spiritualmente. Come individuo nella società si rivolta e butta via le briglie degli obblighi sociali, egli non conosce né ordine, né disciplina”.110
“Noi ebrei, noi i distruttori, rimarremo dei distruttori per sempre. Nulla che voi facciate darà soddisfazione ai nostri bisogni e alle nostre esigenze. Noi distruggeremo sempre perché noi abbiamo bisogno di un mondo tutto nostro, un mondo divino, che non è nella vostra natura di poter costruire … quelli tra di noi che non riescono a capire questa verità saranno sempre gli alleati delle vostre fazioni ribelli, fin quando non giungerà la disillusione, il destino maledetto che ci sparse in mezzo a voi ci ha assegnato questo sgradito ruolo”.111
“Se noi [sionisti, ndt] non ammettiamo che gli altri abbiano il diritto di essere anti-semiti, allora noi neghiamo a noi stessi il diritto di essere nazionalisti. Se il nostro popolo merita e desidera vivere la propria vita nazionale, è naturale che si senta un corpo alieno costretto a stare nelle nazioni tra le quali vive, un corpo alieno che insiste ad avere una propria distinta identità e che perciò è costretto a ridurre la sfera della propria esistenza. É giusto, quindi, che essi [gli anti-semiti, ndt] lottino contro di noi per la loro integrità nazionale. Invece di costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dagli anti-semiti, i quali vogliono ridurre i nostri diritti, noi dobbiamo costruire organizzazioni per difendere gli ebrei dai nostri amici che desiderano difendere i nostri diritti”.112
“Ho elaborato una filosofia del Giudaismo affine alla Tendenz spirituale del Fascismo molto prima che quest’ultimo fosse diventato la regola nella società politica italiana”.113
“Per i sionisti, il nemico è il liberalismo; esso è anche il nemico per il nazismo; ergo, il sionismo dovrebbe avere molta simpatia e comprensione per il nazismo, di cui l’anti-semitismo è probabilmente un aspetto passeggero”.114
“L’hitlerismo … ci ha reso per lo meno un servizio dal momento in cui non ha tracciato una linea di demarcazione tra l’ebreo religioso e l’ebreo apostata. Se Hitler avesse fatto eccezione per gli ebrei battezzati [al cristianesimo], avremmo assistito allo spettacolo poco edificante di migliaia di ebrei che correvano a battezzarsi. L’hitlerismo ha forse salvato l’ebraismo tedesco, che stava assimilandosi fino all’annichilimento”.115
“Vi dico che voi siete più potenti del Signor Hitler (…) noi tutti lo seppelliremo. Ma dovete creare uno Stato ebraico. Sono
108 Chaim Weizmann, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale, futuro presidente di Israele, (1912) citato in Lenni Brenner, Op. Cit., cap. 3, 109 Chaim Weizmann, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale e futuro presidente di Israele, “The letters and papers of Chaim Chaim Weizmann”, Letters, Vol. 8, p. 81, 1914 110 Our Shomer “Weltanschauung”, articolo scritto nel 1917 e pubblicato nel dicembre 1936 in Hashomer Hatzair, p, 26, organo dell’Organizzazione Giovanile Sionista «socialista». 111 Maurice Samuel, You Gentiles, p. 155,1924, in Lenni Brenner,. Op Cit. 112 Jacob Klatzkin, (1925), citato in Jacob Agus, The Meaning of Jewish History, in Encyclopedia Judaica, vol II, p. 425. 113 Alfonso Pacifici ideologo del sionismo italiano, intervistato da Guido Bedarida, 1932, in Lenni Brenner, Op. Cit. 114 Harry Sacher, Jewish Review, settembre 1932, p. 104, Londra. 115 Chaim Bialik, Palestine and the Press, New Palestine, 11 dicembre 1933. 
sionista, io. L’ho detto già al Dr. Weizmann. Dovete avere un vero Stato ebraico e non il ridicolo Home National che gli inglesi vi hanno offerto. Vi aiuterò a creare uno Stato ebraico. La cosa più importante è che gli ebrei abbiano fiducia nel loro avvenire e non si lascino spaventare da quell’imbecille di Berlino”.116
“É un fatto innegabile che gli ebrei presi collettivamente sono infermi e neurotici. Quei professionisti ebrei che, colpiti sul vivo, negano sdegnosamente questa verità sono i più grandi nemici della loro razza, perché guidano gli altri ebrei alla ricerca di false soluzioni, o, al massimo, di palliativi”.117
“I membri delle organizzazioni sioniste non devono essere, date le loro attività dirette verso l’emigrazione in Palestina, trattati con lo stesso rigore che invece è necessario nei confronti dei membri delle organizzazioni ebraico-tedesche (cioè gli assimilazionisti, ndt)”.118
“Il momento non può più essere lontano ormai in cui la Palestina sarà in grado di nuovo di accogliere i suoi figli che aveva perduto da oltre mille anni. I nostri buoni auguri e la nostra benevolenza ufficiale li accompagnino”.119
“Hitler tra qualche anno sarà dimenticato, ma avrà un bellissimo monumento in Palestina. Sapete, la venuta dei nazisti è stato un avvenimento piuttosto benvenuto. Vi erano tanti dei nostri ebrei tedeschi che pendevano tra due sponde; tanti di loro navigavano nella corrente ingannatrice tra la sponda di Scilla dell’assimilazione e quella di Cariddi di una conoscenza compiaciuta delle cose ebraiche. Migliaia di loro che sembravano completamente perduti per l’ebraismo furono riportati all’ovile da Hitler, e per questo io sono personalmente molto riconoscente verso di lui”.120
“Uno Stato costruito sul principio della purezza della nazione e della razza (cioè la Germania nazista, ndt) può solo avere rispetto per quegli ebrei che vedono se stessi allo stesso modo”.121
“Per i sionisti era molto disagevole operare. Era moralmente imbarazzante sembrare essere considerati i figli prediletti del governo nazista, in particolare proprio nel momento in cui esso scioglieva i gruppi giovanili (ebraici) antisionisti, e sembrava preferire per altre vie i sionisti. I nazisti chiedevano un «comportamento più coerentemente sionista»”.122
“Lo stato sionista deve essere fondato con ogni mezzo e appena possibile … Quando lo stato ebraico sarà stato fondato secondo le attuali proposte contenute nel documento della Commissione Peel, e in linea con le promesse parziali dell’Inghilterra, allora i confini potranno essere spostati ulteriormente in avanti secondo i nostri desideri”.123
“Per essere un buon sionista uno deve essere in qualche modo un antisemita.” 124
“Forse – afferma Israel Shahak125 – l’esempio più scioccante di questo tipo di comportamento è il piacere con cui alcuni dirigenti sionisti in Germania diedero il benvenuto all’ascesa al potere di Hitler, perché ne condividevano la fede nel primato della ‘razza’ e la sua ostilità verso l’assimilazione degli ebrei tra gli ‘ariani’. Si congratularono con Hitler per il suo trionfo sul comune nemico – le forze del liberalismo. Il dottor Joachim Prinz, un rabbino sionista che successivamente emigrò negli Stati Uniti, dove giunse ad occupare la posizione di Vice-Presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale (e fu anche un ottimo amico di Golda Meir), pubblicò nel 1934 un libro speciale, Wir Juden (noi ebrei), per celebrare la cosiddetta rivoluzione tedesca di Hitler e la disfatta del liberalismo: “Il significato, per la nazione germanica, della rivoluzione tedesca risulterà chiaro alla fine a coloro che l’hanno creata e le hanno dato la sua impronta. Per noi (sionisti, ndt) il suo significato è questo: Le fortune del liberalismo sono finite. L’unica forma di vita politica che ha aiutato gli ebrei ad assimilarsi è scomparsa.” [Dr. Joachim Prinz, Wir Juden, Berlino, 1934, pp. 150-1]. La vittoria del nazismo – commenta Shahak – elimina per gli ebrei le opzioni dell’assimilazione e dei matrimoni misti. «Non ne siamo scontenti» afferma invece il dottor Prinz. Il fatto che gli ebrei siano costretti a identificarsi come ebrei (e 116 Benito Mussolini a Nahum Goldman dell’Agenzia Ebraica, il 12 novembre 1934, cit in Renzo De Felice, Il fascismo e l’Oriente, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 156. 117 Ben Frommer, sionista revisionista, (1935), The Significance of a Jewish State, in Jewish Call, maggio 1935, p. 10 118 Circolare della Gestapo bavarese indirizzata al corpo di polizia bavarese, 23 gennaio, 1935, pubblicata in Kurt Grossman, Zionists and Non-Zionists under Nazi Rule in the 1930′s, Herzl Yearbook, vol VI, p. 340. 119 Reinhardt Heyndrich, capo dei Servizi Segreti delle SS, The Visible Enemy, articolo pubblicato in Das Schwarze Korps, organo ufficiale delle SS, maggio 1935. 120 Emil Ludwig intervistato da M. Steinglass, Emil Ludwig before the Judge, American Jewish Times, aprile 1936, p. 35 121 Joachim Prinz, (1936), citato in Benyamin Matuvo, The Zionist Wish and the Nazi Deed, Issues, (1966/67), p. 12. 122 Joachim Prinz, Zionism under the Nazi Government, in Young Zionist, Londra, novembre 1937, p. 18. 123 Feivel Polkes ad Adolf Eichmann, citato in Klaus Polkehn, The Secret Contacts: Zionism and Nazi Germany 1933-41, Journal of Palestine Studies (primavera 1976), p. 74. Citato anche in Lenni Brenner, Op. Cit. cap. 8. 124 Chaim Greenberg, The Myth of Jewish Parasitism, Jewish Frontiers, marzo, 1942, p. 20. 125 Israel Shahak, Jewish History, Jewish Religion, The weight of Three Thousand Years, cit. pp.71-72. Le citazioni di Prinz sono all’interno del testo di Shahak. 55
non tedeschi, ndt), è per i sionisti «la realizzazione dei nostri desideri»”.
Shahak ci guida più avanti nel libro di Prinz, dove questo signore scrive:
“Vogliamo che l’assimilazione sia sostituita con una nuova legge: La dichiarazione di appartenenza alla nazione e alla razza ebraica. Uno Stato costruito sul principio della purezza della nazione e della razza può solo essere onorato e rispettato da un ebreo che si dichiara appartenente alla sua razza. Avendo dichiarato apertamente la sua appartenenza, egli non sarà mai capace di un comportamento sleale verso uno Stato. Uno Stato, d’altra parte, non può volere ebrei diversi da quelli che dichiarano la loro appartenenza alla propria nazione. Non deve desiderare di avere ebrei che si fanno adulatori e strisciano davanti ad esso (gli assimilazionisti, ndt). Uno Stato deve esigere da noi fede e lealtà ai nostri propri interessi. Perché soltanto chi onora la propria razza e il proprio sangue può avere un atteggiamento onorevole verso il volere nazionale di altre nazioni.” [Dr. Joachim Prinz, Wir Juden, Berlino, 1934, pp. 150-1].
Si noti il modo subdolo e vergognoso di denigrare gli ebrei assimilazionisti attribuendo loro caratteristiche di slealtà e contemporaneamente di pusillanimità mentre si presentano i sionisti come onesti e coraggiosi almeno quanto i nazisti. Si capovolge la realtà dei fatti e naturalmente si additano gli assimilazionisti come i veri nemici del nazismo, da eliminare.
“L’intero libro – conclude Shahak – è pieno di simili rozze lusinghe per l’ideologia nazista, di espressioni di gioia per la disfatta del liberalismo e in particolare quella delle idee della rivoluzione francese e di grandi speranze che, nell’atmosfera congeniale dell’affermarsi del mito della razza ariana, anche il sionismo e il suo mito della razza ebraica si sarebbe affermato.”
Prinz non era un uomo al margine del movimento, era un intellettuale che operò al centro del sionismo negli anni trenta e successivamente; egli ebbe rapporti e amicizie con i politici (laburisti) che governarono lo stato di Israele. Le sue idee non sono mai state sconfessate per paura che fossero conosciute. Si è preferito nascondere tutto. Come pure si è nascosto un altro sionista poco presentabile (se mai di presentabile ce n’è stato qualcuno), Abba Ahimer, poeta e dottore in filosofia, prima socialista, infine fascista, proprio come Mussolini che egli ammirava. Costui era negli anni trenta il numero due dell’organizzazione dei sionisti revisionisti di Vladimir Jabotinsky il quale era anche lui, come Prinz, figlio legittimo del reazionario Herzl e anche lui come Ahimer ammiratore e addirittura amico di Mussolini. Di Jabotinsky diremo più a lungo dopo. Ebbene Abba Ahimer, secondo Paolo Di Motoli che ha scritto uno studio attento sulla destra sionista,
“considerava l’ebraismo diasporico come una sorta di civilizzazione decadente. Urgeva a suo giudizio una rivoluzione sia politica che culturale simile per radicalità a quella che si era realizzata in Russia nel ’17, a cui egli nei suoi anni giovanili aveva guardato con simpatia militando nell’Ha’poel Ha’tzair, una delle due ali del movimento socialista palestinese, per passare nel 1928 alla destra. La rivoluzione di Ahimer era però una rivoluzione fascista che si doveva distinguere per il culto dell’eroismo, dell’originalità culturale e per la fedeltà al capo, il cui compito era la realizzazione dell’idea nazionale con la forza. La collettività doveva unirsi attorno a una singola idea nazionale per fondare uno stato guerriero pronto ad allargare i propri confini (corsivo nostro, ndt). La democrazia e il liberalismo erano (…) deboli e pronti a essere spazzati via dalla rivoluzione nazionale. Il fascismo (…) era l’unica possibilità di salvezza dell’Occidente contro i nuovi barbarici mongoli rappresentati dai militanti comunisti russi. Il deserto aveva temprato nella storia il popolo ebraico che aveva acquisito una superiorità e un radicalismo uniti a un’inflessibile capacità di esercitare la violenza. La missione di questo popolo non era diversa da quella di altri, come pensavano i religiosi, ma simile: la creazione di uno stato che coincideva con una storica redenzione, questo era il sionismo di Ahimer. Egli esortava i giovani a un odio sacro contro tre nemici: gli arabi, i britannici, la sinistra. L’omicidio politico era a suo giudizio un atto positivo, uccidere in nome di obiettivi pubblici era lecito per chi voleva condurre una battaglia coraggiosa contro i nemici. A un’assemblea di studenti ebrei in Palestina dichiarò: «Voi siete delle pappette e non degli studenti, non c’è tra di voi nessuno capace di assassinare come hanno fatto quegli studenti tedeschi che hanno ucciso Ratenau (…) nascono dei sicari poiché hanno la coscienza di essere volontari e il fatto dell’assassinio sarà considerato come un episodio di eroismo e un’impresa positiva». Il sionismo secondo Ahimer aveva una missione civilizzatrice nei confronti del barbarico Oriente, in cui erano inclusi il comunismo e gli arabi”. 126
Con queste premesse può mai sorprendere che i sionisti, posti di fronte al problema di salvare ebrei in fuga dal nazismo o dalle persecuzioni, abbiano cinicamente scelto di occuparsi solo di quei pochi che accettavano di emigrare in Palestina e abbiano abbandonato alla loro triste sorte gli altri, gli assimilazionisti, o addirittura abbiano respinto i vecchi che pure accettavano il progetto sionista ma appunto perché vecchi rappresentavano, contrariamente ai giovani sionisti, un peso più che un aiuto?
126 Paolo Di Motoli, La destra sionista, Milano, M&B Publishing, 2001, p. 63. 56
“Le speranze dei sei milioni di ebrei europei si fondano sull’emigrazione. Mi è stato chiesto: «Puoi portare sei milioni di ebrei in Palestina?’ Ho risposto, ‘No’ … Dal profondo della tragedia voglio salvare … dei giovani [per la Palestina]. I vecchi passeranno. Sopporteranno il loro destino o non lo faranno. Sono polvere, polvere economica e morale in un mondo crudele … Solo il ramo giovane sopravvivrà. Dovranno accettarlo»”.127
“Se sapessi che è possibile salvare tutti i bambini (ebrei) di Germania portandoli in Inghilterra e solo metà di essi portandoli in Eretz Israel, allora opterei per la seconda alternativa”.128
“Se chiedessero a me «Non si potrebbero usare i fondi del United Jewish Appeal per soccorrere gli ebrei d’Europa?» Io ho già detto NO! e ribadisco il mio NO!” 129
“Una mucca in Palestina vale più di tutti gli ebrei d’Europa.” 130
“Finanche nel 1943, mentre gli ebrei d’Europa venivano sterminati a milioni, il Congresso americano propose di istituire una commissione per studiare il problema. Il rabbino Stephen Wise, che era il principale portavoce sionista in America, si recò a Washington per testimoniare contro il progetto di legge perché esso avrebbe sviato l’attenzione (degli ebrei) dalla colonizzazione della Palestina. Si tratta dello stesso rabbino Wise che, nel 1938, in quanto dirigente del Congresso ebraico d’America, scrisse una lettera nella quale si opponeva a qualsiasi cambiamento della legislazione americana sull’immigrazione, cambiamento che avrebbe permesso agli ebrei di trovare accoglienza. In quella lettera scriveva: «Può essere d’interesse per voi sapere che alcune settimane fa i dirigenti delle più importanti organizzazioni ebraiche si sono riuniti in una conferenza … Vi si è deciso che, in questo momento, nessuna organizzazione ebraica avrebbe sponsorizzato una legge destinata a cambiare in qualsiasi modo la legislazione sull’immigrazione»”. 131 Abbiamo percorso solo la prima tappa del nostro viaggio nell’inferno del sionismo, quella della vicinanza di idee e ideali tra sionismo e antisemitismo. La prossima sarà quella, ben più orribile, dell’effettiva collaborazione tra questi due mostri. Pur di giungere alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, il sionismo si è alleato con i peggiori antisemiti e con lo stesso nazismo. É giunto anche a fare la parte concreta dell’antisemita dove l’antisemita non c’era. Si è spesso accusato i governi arabi di aver «cacciato» gli ebrei dai loro paesi come risposta alla fondazione dello Stato israeliano. La verità ce la racconta Akiva Orr, professore di matematica e fisica all’Università Ebraica di Gerusalemme. In un suo libro del 1994, egli scrive:
“Nel 1948 gli ebrei non furono espulsi da paesi come l’Irak, il Marocco, l’Algeria, la Tunisia e la Libia, ma furono indotti a partire da emissari provenienti da Israele, i quali ricorsero spesso a trucchi sporchi, come buttare bombe nelle sinagoghe e creare l’impressione di una persecuzione anti-ebraica, per atterrire gli ebrei e indurli a emigrare in Israele”.132
Come prova inoppugnabile della sua affermazione, lo scrittore, nella stessa pagina del suo libro, porta le copie
“del settimanale israeliano Haolam-Ha-zeh (quelle del 20 aprile e del 1 giugno 1966), nelle quali era stata pubblicata la storia dettagliata, con fotografie, di questi avvenimenti. Alcuni ebrei iracheni, divenuti disabili in seguito alle bombe buttate da agenti israeliani nella Sinagoga Masuda Shemtov di Bagdad, avevano denunciato, in Israele, il governo israeliano per danni. Il governo aveva preferito sistemare la cosa fuori dal tribunale e pagare i danni, ma gli atti legali erano pervenuti alla stampa israeliana ed erano stati pubblicati da alcuni rotocalchi”.
La triste storia degli ebrei iracheni è raccontata anche da David Hirst, il quale spiega che le bombe furono piazzate in più di una sinagoga irachena ad opera di un movimento sionista clandestino in collegamento con Yigal Allon, futuro
127 Chaim Weizmann, futuro primo presidente di Israele, nel discorso al Congresso Sionista del 1937 nel quale riporta le sue risposte davanti alla Commissione Peel, Londra, luglio 1937. Citato in Yahya, p. 55. 128 Ben-Gurion nel suo discorso ad una assemblea di Sionisti Laburisti in Gran Bretagna nel 1938.
129 Izaak Greenbaum – capo del Comitato di Soccorso dell’Agenzia Ebraica (Jewish Agency Rescue Committee) – rivolto al Consiglio Esecutivo Sionista, il 18 febbraio 1943. 130 Izaak Greenbaum, 18 febbraio 1943, cit. 131 Lenni Brenner, Op. Cit. cap. 24. 132 Akiva Orr, Israel: Politics, Myths and Identity Crises, Londra 1994, Pluto Press, pp. 5-6.
ministro degli esteri israeliano ed ex-capo di un reparto d’assalto delle Palmah. L’operazione segreta in Iraq «fruttò» a Israele l’immigrazione di 125.000 ebrei iracheni.133 Si ricordino di questo, coloro che con troppa leggerezza ripetono pappagallescamente l’infamante accusa di «antisemitismo» rivolta da Israele e dai sionisti a coloro che combattono il sionismo. Sono i sionisti che hanno bisogno dell’antisemitismo. Al punto che quando questa vergognosa forma di razzismo non c’è o è molto debole, come ai giorni nostri, i sionisti fanno di tutto per suscitarlo o per gonfiarne la portata ed il peso in modo da poterlo sbandierare come reale minaccia e quindi favorire l’emigrazione ebraica in Israele. Lo Stato ebraico ricorre a questa tattica ogni volta che in un paese in cui vive una comunità ebraica si verifica un cambiamento politico, una guerra civile o semplicemente dei disordini sociali. Così è stato durante il crollo dell’Unione Sovietica, così è stato nell’occasione della sconfitta del regime di apartheid sudafricano, così è stato durante la guerra civile in Bosnia, così pure è avvenuto durante la carestia in Etiopia, così sta avvenendo oggi in Francia, dove le rivolte nelle banlieues vengono presentate come una minaccia diretta agli ebrei francesi. In realtà sono i nordafricani, gli islamici le vere vittime del razzismo in Francia oggi. Lo testimonia il numero di moschee assaltate e bruciate. La pretesa minaccia dell’«antisemitismo» rientra pure, ovviamente, nella politica sionista tesa a nascondere i crimini dello Stato d’Israele contro i palestinesi, giustificare le sue aggressioni contro i paesi arabi vicini e legittimare lo stesso possesso della bomba atomica, al di fuori di qualsiasi trattato internazionale.
133 David Hirst, Senza Pace, cit. pp. 204-10.

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Mauro Manno

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