Vicissitudini storiche del rapporto Uomo-Natura

ott 3rd, 2019 | Di | Categoria: Primo Piano

 

Pochi appunti di orientamento per la lettura di

“No alla globalizzazione dell’indifferenza”

di Giancarlo Paciello

La prima considerazione da fare è che, fin dall’inizio, dichiaro di aver scritto il libro per rispondere ad una domanda di mia figlia e dunque di voler entrare in contatto con le generazioni successive al 1975. So bene che il rapporto fra le generazioni è, di per sé, cosa difficile, ma ritengo che nel caso specifico sia veramente assai difficile se non impossibile. La ragione di una così grande difficoltà la attribuisco al fatto di aver appartenuto, per la maggior parte della mia vita, ad un diverso ciclo storico rispetto alle generazioni attuali. Un ciclo storico, iniziato con la Prima guerra mondiale, caratterizzato dalla preminenza della politica e culminato nella Guerra fredda (1945-1991), mentre il nuovo ciclo, decisamente post-politico, è sorto in un quadro di rapporti riassunti generalmente in un unico fenomeno, la Globalizzazione.

Per ovviare in parte alla difficoltà, oltre al tentativo di utilizzare spesso un linguaggio colloquiale e di introdurre parole e concetti nuovi spiegandone ampiamente l’origine, ho dotato il volume di un indice estremamente articolato, anche per cercare di fornire, attraverso la struttura del libro, altri elementi di comprensione. Ed è alla struttura del libro che intendo dedicare alcune pagine di commento, non essendo mia intenzione né di riassumerlo né, peggio ancora, di darne una lettura “apologetica”. Resta essenziale la lettura del primo paragrafo della PARTE PRIMA “Da un ciclo storico all’altro”

Per comodità espositiva ho riportato l’indice completo, in modo che il lettore di queste poche pagine possa farvi riferimento con facilità. Il libro dunque consta di una Premessa che riguarda la sua genesi, dell’Introduzione, il cui contenuto riguarda proprio le mie preoccupazioni circa la possibilità di interagire con le nuove generazioni, di quattro PARTI, di tre INTERMEZZI, e delle Conclusioni. Nella PARTE PRIMA, mi sono preoccupato di dare una risposta a mia figlia che, concordando con me sull’utilizzo strumentale dei diritti umani, mi aveva chiesto di esporre il mio punto di vista sui veri diritti umani e implicitamente sulla mia visione universalistica. E così, la prima parte tende a svolgere il tema dell’universalismo, non certo su di un piano atemporale. Di qui l’esigenza, per me, di storicizzare il tema dell’universalismo, senza dimenticarne la pregnanza filosofica. Occorre dire che, dal punto di vista della struttura del libro, pur essendomi preoccupato di articolare puntualmente l’indice, ho commesso un grave errore nel lasciare anonime le parti. Avrei dovuto invece assegnare un titolo ad ognuna di esse. E’ quello che faccio ora, per dare una maggiore comprensibilità alla struttura del testo.

 

La PARTE PRIMA doveva avere per titolo:

 

L’Universalismo ai tempi della Globalizzazione

 

Se si scorre l’indice, si vede che il punto “1. Da un ciclo storico all’altro”, dopo aver descritto il vecchio ciclo, si preoccupa di ricostruire le origini del capitalismo e di caratterizzare il capitalismo attuale, molto diverso da quello ottocentesco, per poter “centrare” il tema dell’universalismo.

Al punto “2. Quale universalismo”, ho affrontato una trattazione filosofica del tema per evidenziare, nell’ultimo paragrafo “2.5 C’è universalismo ed universalismo” come l’Occidente abbia già sfruttato strumentalmente nei secoli passati, i diritti umani (si pensi alla conquista dell’America, e a tutta la colonizzazione che ha caratterizzato gli indigeni sempre come esseri inferiori, al “fardello dell’uomo bianco” come impegno nel portare la civilizzazione) e mi sono servito per far questo del contributo essenziale di Wallerstein.

E così ci avviciniamo ai tempi nostri, con il punto “3. I diritti dell’uomo”. La nascita delle Nazioni Unite e della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo costituiscono l’argomento iniziale di questo punto che trova il suo contrappunto nel paragrafo “3.2 Ascesa e caduta del diritto internazionale”, sostanzialmente una versione in prosa di un capitolo dello splendido libro di Danilo Zolo, una summa del diritto internazionale, La giustizia dei vincitori Da Norimberga a Baghdad.

A questo punto, l’impegno nei confronti di mia figlia sembrava sostanzialmente risolto, ma da ottantenne, mi sono reso conto di dover dare una risposta più ampia alle nuove generazioni e ho affrontato il tema del rapporto dell’uomo con la natura, dell’ecologia.

L’ho fatto in una densissima seconda parte, con l’indispensabile aiuto di Massimo Livi Bacci demografo e studioso delle popolazioni e di papa Bergoglio, mettendo a confronto “Il pianeta stretto”, un agile libretto di Livi Bacci (l’enciclica laica a mio parere), che si misura con la situazione drammatica in cui la nostra specie si è infilata sfidando la natura di cui fa parte, e l’Enciclica religiosa, in perfetta sintonia, sempre a mio modestissimo giudizio. Aspetto assai importante del lavoro di Livi Bacci è quello di aver descritto il nostro pianeta precisando l’entità del problema.

Tutto questo, non prima di aver fornito, ai lettori della PARTE PRIMA il PRIMO INTERMEZZO, tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawm, sul XX secolo, per una migliore comprensione del ciclo storico ormai abbandonato.

La PARTE SECONDA, relativa all’Enciclica di papa Francesco costituisce il fondamento della tematica ecologica anche da un punto di vista antropologico. Ma il titolo doveva essere:

 

La Terra e l’Umanità alla luce di due encicliche

 

Passiamo perciò al SECONDO INTERMEZZO, che riguarda l’analisi e soprattutto il dibattito, sviluppatosi negli anni 1970, sul tema dell’ecologia, guardata con sospetto dal fronte anticapitalista, dal momento che Nixon se ne era fatto in parte portatore e, in ogni caso espressione di “una logica interclassista”, come si diceva allora. Questo intermezzo è molto importante per chiarire come il tempo possa svuotare di senso o modificare decisamente il senso delle polemiche di un’altra epoca. Uno degli autori de “I limiti dello sviluppo”, il libro intorno al quale si svolse allora il dibattito, è ancora lì a sostenere, a ragione, quello che, allora, sembrava il portato di una ideologia capitalistica, e non nascondo di aver sostenuto, a ragione, con Dario Paccino e altri, la pericolosità delle tesi del Club di Roma.

Al SECONDO INTERMEZZO segue la PARTE TERZA tutta da scoprire! E’ chiaro che dopo le due encicliche la discussione verte su come l’uomo abbia concepito, nel tempo, il rapporto con la natura e come l’avvento del capitalismo non abbia certo favorito il rispetto della natura, considerata fonte inesauribile e, in ogni caso, subordinata a qualsiasi decisione umana.

Un titolo possibile?

 

Vicissitudini storiche del rapporto Uomo-Natura

 

La lettura di questa parte, decisamente stimolante, richiede la conoscenza almeno dei rudimenti della teoria economica settecentesca, valore d’uso, valore di scambio, ecc. Sicuramente non si legge di un fiato, ma può costituire un percorso di arricchimento, soprattutto per i giovani. Va studiata. Parte dal denunciare un delitto, l’assassinio della natura da parte dell’economia, per la quale esiste soltanto come valore d’uso. Un solo esempio, tratto ovviamente dal testo, presente nella sua completezza, nel primo paragrafo del secondo intermezzo.

“Cosa è un bosco?”

Il bosco, una realtà naturale che ci è familiare, si presta assai bene a una valutazione plurima. Considerato sotto il profilo economico corrente esso non che è un deposito di legname più o meno cospicuo, pagabile a un determinato prezzo. La sua realtà e la sua ‘ricchezza’ si esauriscono nell’equivalente astratto – direbbe Marx – di una definita massa di danaro. Osservato come risorsa, le sue attribuzioni e potenzialità si moltiplicano e soprattutto emergono i beni nascosti e non pagabili di cui è produttore. Il bosco, infatti, com’è noto, soprattutto nella sua collocazione collinare e montana, costituisce un serbatoio naturale di acque perché esso consente la filtrazione e la percolazione delle piogge nel fondo del terreno. Ad esso si affida il meccanismo di formazione delle sorgenti. Altrimenti l’acqua dilava rovinosamente a valle e spesso si perde in mare. E naturalmente assai poco calcolabile appare il compito economico, ma anche sociale, che esso svolge nella difesa del territorio dai processi di erosione, dalle frane e dagli smottamenti da cui sono periodicamente minacciati colture e centri abitati. Più acutamente oggi, di fronte alla scadente qualità dell’aria delle nostre città, ci accorgiamo con diffusa consapevolezza, anche economica, del valore del bosco come produttore di ossigeno. Così come una più avvertita conoscenza ambientalista ci ricorda che quella fitta popolazione di alberi costituisce una nicchia spesso preziosa e insostituibile nella quale si conserva la biodiversità superstite delle società industriali. Quanti animali e specie vegetali vivono, tra gli alberi, a cui non sapremmo assegnare un valore sotto un immediato profilo di economia di mercato?

Il bosco è, inoltre, un equilibratore climatico e influisce sulla vegetazione circostante, così come un tempo, per essere sede di varie specie di uccelli, costituiva una presenza equilibratrice importante nell’agricoltura tradizionale, che non ricorreva alla guerra chimica per difendersi dai parassiti. Un compito che potrà continuare a svolgere nell’agricoltura biologica dei nostri giorni. Infine, il bosco conserva un valore ben noto: può essere un luogo che esprime bellezza e mistero. Beni che naturalmente l’industria turistica utilizza e vende. Ma la cui ricchezza intrinseca tuttavia consiste nel loro non uso, nel loro sfuggire a una utilizzazione strumentale, nel farsi oggetto di contemplazione disinteressata, nell’offrirsi agli uomini come realtà da non violare.

Il valore più alto e unico nell’epoca della produzione industriale di massa tende sempre di più a coincidere con ciò che non può essere riproducibile. E’ un fenomeno già emerso nelle riflessioni sociologiche delle società post-fordiste, che acquista in questo caso un ulteriore e più complesso significato. Per avere valore, la bellezza ha bisogno di una domanda, direbbero gli economisti, ma una domanda intrinsecamente antieconomica vale a dire una soggettività umana in grado di contemplare disinteressatamente delle forme visibili che si presentano come belle, uniche e irriproducibili. La realizzazione dell’economia turistica si regge sull’esistenza di un ambito non economico della realtà naturale e della soggettività umana. Si dovrebbe dunque convenire – anche sulla base di queste rapide considerazioni – che riconsiderare la centralità della natura non porta a impoverire il senso della ricchezza sociale, ma a liberarla del suo rozzo e riduttivo economicismo, a farle acquisire un più vasto e multiforme significato.

Ovviamente – il bosco non è solo natura. E’ anche opera umana. Sono spesso gli uomini che costruiscono o ricostruiscono i boschi, che plasmano il territorio e imprimono, con le proprie mani, linee di bellezza in grado di aggiungere valore ai luoghi. Sotto tale profilo appare ormai evidente, ad esempio, che le campagne oggi non ci appaiono più esclusivamente come sedi di pratiche agricole. Non sono soltanto luoghi nei quali si producono beni alimentari. A tale tradizionale funzione hanno aggiunto quella di essere, molto spesso, per ragioni storiche, una forma del paesaggio agrario: vale a dire una configurazione “naturale” a cui il lavoro umano ha dato, nel corso del tempo, una particolare impronta di bellezza e di grazia. Il paesaggio agrario di tante regioni italiane – l’esempio più noto è quello della Toscana – è diventato una risorsa che offre continuamente il bene vendibile della bellezza: la bellezza di una sintesi originale fra natura e pratiche agricole.

Gli argomenti della PARTE TERZA convergono in ogni caso in una critica del capitalismo e dell’ideologia positivistica, in particolare nella critica della “scienza economica” dominante che si fonda sulla teoria dell’equilibrio generale di Walras e … sulla mano invisibile di Adam Smith! Anche se ha proceduto a darsi una facciata “scientifica” con matematizzazioni a non finire. Secondo me l’economia non è una scienza, figurarsi quella che ha subìto la “domanda della Regina”, senza poter articolare una risposta! In realtà, nella PARTE TERZA, ho cercato di sollecitare un orientamento critico che sappia contrastare proprio sul piano scientifico “la chiacchiera” corrente. Il riferimento al libro di Francesco Sylos Labini è assai esplicito. Del resto, in sede di conclusioni, c’è un invito esplicito a misurarsi, sul piano scientifico con la “scienza economica” sempre rigorosamente tra virgolette.

Il distacco da questo quadro ci porta al TERZO INTERMEZZO che riprende la critica ecologica, analizzando un tema già preso in considerazione da Livi Bacci, la sostenibilità dello sviluppo, e con lui, ma non con il suo stile misurato, ne denuncia praticamente l’impossibilità.

Siamo agli sgoccioli. La PARTE QUARTA ripercorre tutta la storia certamente non esaltante delle assise internazionali dal primo Vertice della Terra di Stoccolma del 1972, alla conferenza sull’Ambiente Umano, alla Prima conferenza mondiale sul clima, al secondo Vertice della Terra, al protocollo di Helsinki, al Rapporto Brundtland, alla Seconda Conferenza mondiale sul clima (1990), al Terzo Vertice della Terra (Rio de Janeiro), al Protocollo di Kioto,  alla conferenza di Johannesburg (Rio + 10), a Kioto, dieci anni dopo, e infine alla Conferenza di Parigi del 2016 (o 2015?).

Il titolo di questa parte?

 

L’Insostenibile leggerezza dell’O.N.U. con l’ecologia

 

Non resta che parlare delle conclusioni. Ma forse è meglio non anticiparle!

 

Ed ecco l’indice

 

Premessa

1. Introduzione

1.1 L’uomo che visse la Guerra fredda

1.2 Le generazioni nate dopo il 1975

PARTE PRIMA

 

1. Da un ciclo storico all’altro

1.1 La Prima guerra mondiale

1.2 L’età dell’oro

1.3 Il capitalismo del nostro tempo

1.3.1 Maddi, Aristotele e la crematistica

1.3.2 Una digressione importante: cultura cristiana e crematistica

1.3.3 Sull’emancipazione

1.3.4 Capitalismo industriale e produzione a mezzo di macchine

1.3.5 Ma di quale capitalismo si parla, oggi?

2. Quale universalismo?

2.1 Sul titolo

2.2 L’universalismo di Bergoglio

2.3 Ma esistono gli “universali”?

2.4 Che ne pensiamo (io e Lorenzo), degli universali?

2.4.1 La parola a Lorenzo

2.4.2 Si apre il dialogo

2.4.3 Il dialogo continua

2.4.3.1 Aristotele scopre l’economia

2.4.3.2 Le scoperte di Aristotele

2.4.3.3 L’impostazione sociologica

2.4.4 Una “toppa” di Aristotele dura a morire!

2.4.5 A fatica, il dialogo riprende

2.5 C’è universalismo ed universalismo

3. I diritti dell’uomo

3.1 Si comincia sempre con un po’ di storia

3.1.1 La nascita delle Nazioni Unite

3.1.2 Gli organismi delle Nazioni Unite

3.1.3 La Carta delle Nazioni Unite

3.1.4 La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

3.2 Ascesa e caduta del diritto internazionale

3.2.1 “La giustizia dei vincitori”

3.2.2 La guerra globale preventiva

3.2.2.1 La guerra antica

3.2.2.2 La guerra moderna

3.2.2.3 Dalla guerra moderna alla guerra globale

 

PRIMO INTERMEZZO: Naturalmente, breve!

 

Il secolo: uno sguardo a volo d’uccello di Eric J. Hobsbawm

PARTE SECONDA

1. Il mondo in cui viviamo

1.1 Il vecchio regime demografico

1.2 “La transizione demografica”

1.3 Il nuovo regime demografico

1.4 Uno sguardo sul futuro

1.5 L’antropizzazione del pianeta

1.6 Possibili criticità dell’antropizzazione

1.6.1 L’intrusione umana nelle grandi foreste

1.6.2 L’intensificarsi degli insediamenti nelle aree più fragili

1.6.3 L’esplodere dei processi di urbanizzazione

1.7 L’urbanizzazione e l’ambiente

1.8 Sviluppo e sostenibilità

1.9 Elogio delle migrazioni

1.10 Globalizzazioni e migrazioni

2. L’Enciclica “Laudato sì”

2.1 L’Enciclica e la “nostra casa”

2.1.1 Il clima

2.1.2 Il clima e le migrazioni

2.1.3 L’acqua

2.1.4 La biodiversità

2.1.5 La qualità della vita umana

2.1.6 L’“inequità planetaria”

2.1.7 La debolezza della risposta internazionale

2.1.8 La guerra

2.1.9 La falsa ecologia

2.2 Le diverse concezioni della situazione mondiale

2.3 La critica delle ideologie

2.3.1 Critica del progresso

2.3.2 La globalizzazione del paradigma tecnocratico

2.3.3 L’importanza di una visione olistica

2.3.4 La necessità di una rivoluzione culturale

2.3.5 L’antropocentrismo moderno

2.3.6 Il relativismo pratico

2.3.7 La necessità di difendere il lavoro

2.3.8 L’innovazione biologica a partire dalla ricerca

2.4 Un’ecologia integrale

2.4.1 “Ecologia ambientale, economica e sociale”

2.4.2 Ecologia culturale

2.4.3 Ecologia della vita quotidiana

             2.2.4 Il principio del bene comune

2.4.5 La giustizia tra le generazioni

2.5 Che fare?

2.5.1 Il dialogo sull’ambiente nella politica internazionale

2.5.1.1 Diversità biologica e desertificazione

2.5.1.2 Bassa emissione di gas inquinanti

2.5.1.3 La compravendita di “crediti di emissione”

2.5.1.4 Urgenza di accordi internazionali

2.5.2 Il dialogo verso nuove politiche nazionali e locali

2.5.3 Dialogo e trasparenza nei processi decisionali

2.5.4 Politica ed economia in dialogo per la pienezza umana

2.5.5 Le religioni nel dialogo con le scienze

2.6 Educazione e spiritualità ecologica

2.6.1 Puntare su un altro stile di vita

2.6.2 Educare all’alleanza tra l’umanità e l’ambiente

2.6.3 La conversione ecologica

2.6.4 Gioia e pace

2.6.5 Amore civile e politico

 

SECONDO INTERMEZZO: I limiti dello sviluppo

 

1. Elogio dell’ecologia

2. Tra crescita economica ed ecologia

2.1 Il movimento ecologico in fermento

2.2 Il Club di Roma

2.3 La Dinamica dei Sistemi

2.4 I limiti dello sviluppo

2.4.1 L’indagine sui Limiti

2.4.2 Il consenso ai Limiti

2.4.3 Gli economisti e i Limiti

2.4.4 La Chiesa cattolica e i Limiti

2.4.5 La critica dei marxisti ai Limiti

2.4.6 Le oscillazioni del giovane ambientalismo italiano

2.4.7 I Limiti quaranta anni dopo: un bilancio in chiaroscuro

2.4.7.1 I Limiti vent’anni dopo

2.4.7.2 I Limiti trent’anni dopo

2.4.7.3 I Limiti quarant’anni dopo

2.4.8 Le proposte di Randers

 

PARTE TERZA

 

Introduzione

 

1. Questa volta, l’assassino non è lo zio, e nemmeno il maggiordomo!

1.1 Aristotele, ancora lui!

1.2 Valor naturalis versus valor usualis

1.3 La preda di Hobbes

1.4 Locke e la proprietà privata

1.5 E Adam Smith dove lo mettiamo? Chi, quello della Ricchezza delle Nazioni?

1.6 Ricardo: la razionalizzazione dell’ingiustizia sociale

1.7 Merci e natura in Marx

1.8 Chi paga per la riproduzione?

2. L’ambientalismo di Marx e di Engels

2.1 Fatti noti

2.2 La violenza della società industriale capitalistica

2.3 La violenza urbana

2.4 La cultura del limite

3. Le radici dell’ecologia

3.1 La contestazione ecologica

3.2 Capitalismo e ecologia

3.3 Quale alternativa?

3.4 Le conclusioni di Nebbia

 

TERZO INTERMEZZO: La sostenibilità

 

1.  Oltre la sosteniblablablà

1.1 Genesi di un concetto

1.2 Se lo sviluppo non è sostenibile, è sviluppo?

1.3 Crisi e possibilità

1.4 Domande difficili

1.5 La misurazione della sostenibilità

2.  L’insostenibile sostenibilità dello sviluppo

2.1 L’uso improprio del termine sostenibilità

2.2 Dal 1972 a oggi: la continua inazione ha aggravato la situazione

2.3 Dal 1972 a oggi: la sostenibilità si allontana

 

PARTE QUARTA

 

1.  La Terra e le organizzazioni internazionali

1.1 Il Progetto RIO

1.1.1 Obiettivi e portata del rapporto

1.1.2 Il rapporto e l’Ambiente umano

1.1.3 Il rapporto e l’interdipendenza a livello planetario

1.1.4 Gli obiettivi fondamentali di un mondo nuovo

1.2 La conferenza sull’Ambiente Umano

1.3 Prima conferenza mondiale sul clima

1.4 Il secondo Vertice della Terra

1.5 Il protocollo di Helsinki

1.6 Il Rapporto Brundtland

1.7 Seconda Conferenza mondiale sul clima (1990)

2. Terzo Vertice della Terra (Rio de Janeiro)

    2.1 La COP-1

    2.2 La COP-2

    2.3 La COP-3 ovvero il Protocollo di Kioto

2.4 La COP-4, Buenos Aires 1998

2.5 La COP-6, L’Aja 2000

2.6 La COP- 6Bis Ancora Bonn

    2.7 La conferenza di Johannesburg (Rio + 10)

    2.8 Da Milano a Potsdam

2.9 La COP-15 Dopo Kyoto

2.10 Kioto, dieci anni dopo

2.11 La conferenza di Doha

2.12 La conferenza di Parigi

 

Conclusioni

 

 

PARTE TERZA

Vicissitudini storiche del rapporto Uomo-Natura

 

Sia pure senza sistematicità, si è venuta delineando per grandi linee, la strada percorsa dal movimento ecologista, con le sue contraddizioni, nel quadro della Guerra fredda, e che ha trovato, a mio parere, una buona formulazione teorica nella sintesi di Piero Bevilacqua riportata nel primo paragrafo dell’ultimo Intermezzo, Elogio dell’ecologia, e soprattutto nella proposta di papa Francesco di un’ecologia integrale, elemento centrale dell’Enciclica Laudato si’. Si tratta ora di approdare concretamente nel nostro tempo e di misurarci con quella che, sicuramente un po’ troppo enfaticamente, viene detta scienza economica e anche, perché no, con la teoria di Marx, per provare a dare una risposta di senso a questo mondo che mi pare ne sia un po’ a corto. Con il massimo dell’umiltà e della prudenza, ma anche con una certa determinazione dal momento che materia per schiarirci le idee ce n’è tanta, anche se altrettanto determinata sembra la “corrente” interessata a confonderci e a distrarci.

Userò come mentore in questo cammino gli scritti di Piero Bevilacqua (una vecchia conoscenza incontrata già nell’ultimo Intermezzo e gli scritti oltre che la grande esperienza di Giorgio Nebbia, noto come il padre dell’ambientalismo italiano anche se, leggendo le sue più recenti dichiarazioni, ho la sensazione che non voglia essere coinvolto in pratiche e conclusioni di figli degeneri! Giorgio Nebbia e Luigi Piccioni mi hanno già permesso il lungo excursus sui Limiti dello sviluppo sempre nell’ultimo Intermezzo.

Bevilacqua, nomen omen, è sobrio, misurato. Il suo Demetra e Clio - Uomini e ambiente nella storia della Donzelli, che ha quasi vent’anni, è un piccolo gioiello. Piccolo soltanto perché di poche pagine. Ne parleremo presto più avanti. Per Nebbia sarei uno sconsiderato ad usare l’espressione latina, vista la chiarezza dei suoi scritti e delle sue argomentazioni, ampiamente disponibili anche per il tramite della benemerita Fondazione Micheletti di Brescia e del suo La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2015.

Ovviamente questa parte è funzionale per riprendere successivamente il discorso con le due encicliche. Serve proprio a trasformare da titanica in abbordabile anche se sempre complessa, questa operazione, dal momento che disponiamo di un collegamento strettissimo con quanto sostenuto sull’importanza, meglio sulla centralità della natura per la vita dell’umanità, da papa Francesco.

Di che si tratta.

Il quinto capitolo del libro appena ricordato dello storico Piero Bevilacqua è estremamente adatto per ricollocare la natura nel posto giusto che le tocca nel farsi dell’umanità, oltre che in grande sintonia con quanto abbiamo fin qui esposto. Ora c’è da dire che il testo cui ho appena accennato, contiene un’attenta e appassionata analisi di un altro libro, di Hans Immler. Le modalità d’interazione da parte mia risulterebbero decisamente complicate, dovendo continuamente specificare a quali argomentazioni faccia io riferimento: se a quelle di Bevilacqua o alle tesi di Immler esposte da Bevilacqua e si tratterebbe soltanto del primo livello d’interazione. Ho perciò deciso di riprodurre praticamente nella sua interezza il quinto capitolo, scegliendo di fatto un solo interlocutore, un mentore per meglio dire.

Questa mia decisione, che spero utile sul piano euristico, e l’argomento trattato dal libro di Immler, in sostanza la cancellazione della natura da parte della “scienza economica”, in combutta con la mia passione cinquantennale per Shakespeare in generale e, in particolare, per la tragedia che credo di aver letto più volte in assoluto, Amleto, mi ha portato a immaginare tutto questo come una rappresentazione tragica, che ad Amleto, in senso lato può ispirarsi.

Penso che questa idea sia dovuta innanzitutto a un ricordo d’infanzia, quando per la prima volta ho sentito parlare di Amleto. Era allora per me una storia tragica sì, ma di cappa e spada. Ricordo che mio padre ricostruiva nella narrazione la situazione finale della tragedia, quando un duello, e il veleno della coppa e sulla punta della spada, (gli elementi destinali della risoluzione in tragedia di una situazione altrimenti normale), portava a risoluzione la complessa vicenda iniziata con l’assassinio del re, il padre di Amleto. La tragedia consisteva ovviamente in questa successione rapidissima di fatti che portava alla morte di tutti i protagonisti.

Ma ciò che mi è tornato alla mente della tragedia del principe danese, e che mi ha spinto al parallelo con il testo di Bevilacqua, è il momento dello spettacolo teatrale a corte. E, ovviamente, il ruolo che Amleto, principe del dubbio o forse no, affida alla compagnia di teatranti arrivati a corte, per rappresentare le modalità dell’assassinio del padre, suggerendo il copione, e per verificarne nello stesso tempo, attraverso la reazione dello zio Claudio, l’usurpatore, la corrispondenza con quanto raccontatogli dal fantasma del padre.

Il teatro nel teatro, un classico cui ricorreranno in seguito molti altri autori, Pirandello su tutti, e che verrà poi imitato, mutatis mutandis da maestri del cinema. Una capriola espressiva per me!

E allora?

Ebbene, il quinto capitolo di Demetra e Clio mi ha richiamato con forza la situazione che ho appena descritto dell’Amleto. L’autore comincia il quinto capitolo evidenziando l’importanza del ruolo della natura:

«Rimettere in gioco la natura, ricollocare dentro la storia la sua presenza sinora rimossa: ecco uno dei più fertili esercizi intellettuali, di quelli che possono restituire oggi nuova radicalità al pensiero sociale, dilatare i territori della ricerca, introdurre novità rilevanti nei quadri culturali consolidati, cambiare nel profondo le sensibilità correnti. Ha infatti questo straordinario potere l’emergere di un tale protagonista, lasciato così a lungo e così costantemente muto: consentire un nuovo sguardo sull’insieme dell’organizzazione sociale e sul suo passato, capace di diradare le cortine ideologiche in cui esso spesso e a lungo è rimasto avviluppato. È quanto oggi è dato di osservare, in diversa misura ma in forme sempre più dispiegate, all’interno delle più varie discipline in cui è organizzato il sapere contemporaneo».

Nel bel mezzo del capitolo (il teatro nel teatro), con argomentazioni che condivido totalmente, affida ad un altro testo (la compagnia dei teatranti), il ruolo di svelare l’assassinio della natura da parte dell’economia. In questo caso, il copione è senz’altro di Immler, ma Bevilacqua (Amleto) lo controlla perché è lui a tradurre dal tedesco e a fare da moderatore quando Immler sembra “esagerare”.

L’autore, pur dichiarandosi non specialista della materia (rivendica di essere uno storico e quanto ci tiene, come vedremo!), sa come stanno le cose, e il quinto capitolo continua così:

«Ma è soprattutto nell’ambito dell’economia che ovviamente la critica disvelatrice morde con più dirompente efficacia. Non è d’altra parte, il modo in cui sono organizzati la produzione materiale e il consumo della ricchezza a urtare sempre più drammaticamente contro la vulnerabilità fisica della natura? Non è la pressione gigantesca e indiscriminata esercitata dall’homo oeconomicus sulle limitate risorse naturali a esser posta sotto accusa? Non sono le logiche del pensiero utilitaristico e calcolatore a mostrare i segni profondi di una usura storica della propria razionalità?

[…] Esistono tuttavia, all’interno dell’economia teorica, altri sentieri di riflessione, senza dubbio più solitari e sicuramente meno produttivi di immediate ricadute operative, che consentono di gettare uno sguardo di ben altra radicalità ai problemi che la crisi della natura pone alle società contemporanee, e al loro fondarsi su determinate forme storiche di assoggettamento del mondo fisico. Così può accadere che anche i non specialisti della materia – com’è il caso di chi scrive – si imbattano in testi di indubbio valore generale, in grado di trascendere largamente il loro ristretto ambito disciplinare di partenza. Come sfuggire allora alla tentazione di informare il più largo pubblico dei lettori, di discuterne, di inserirne i temi nell’anemico dibattito culturale italiano, specie se si tratta di testi passati inosservati, estranei al clima intellettuale dominante? Non ha, d’altra parte, lo storico anche un piccolo dovere di dar conto delle proprie peregrinazioni di ricerca, esterne al suo ambito di competenza, quando queste sconfinano in territori di più generale valore culturale?».

Io ho condiviso in pieno l’impegno etico cui Bevilacqua fa riferimento come ad una sorta di “tentazione”, ho colto in quel “piccolo dovere”, la modestia dello storico e ho trovato nel punto interrogativo la motivazione per assegnargli il ruolo di Amleto!

 

1. Questa volta, l’assassino non è lo zio, e nemmeno il maggiordomo!

 

Il copione c’è e Bevilacqua non si lascia sfuggire l’occasione. Sa che La natura nella teoria economica di Hans Immler West-deutscher Verlag, Opladen 1985, è un’opera «di indubbio valore generale, in grado di trascendere largamente il […] ristretto ambito disciplinare di partenza», un libro che, a partire da Aristotele, attraversando millenni di pensiero economico, sino a Marx, rivisita la nozione di natura che la riflessione sui modi di produzione della ricchezza ha di volta in volta tirato in ballo e messo in uso nelle sue formulazioni fondamentali. Si tratta della sintesi coerente di un processo culturale e teorico altrettanto unitario e coerente. La storia dell’idea di natura nell’elaborazione del pensiero economico e la vicenda di uno sforzo graduale e costante di esclusione.

Una vera tragedia!

Ma è ora di lasciare a Piero Bevilacqua la responsabilità della sintesi del lavoro di Immler. Prima però è necessaria una considerazione formale importante. I titoli dei paragrafi sono una mia scelta per scandire, “a mio piacimento”, lo svolgersi dell’argomentazione (e l’andamento della tragedia). Bevilacqua parla, con esplicito riferimento alla natura, «di un tentativo di assoggettamento epistemologico che ha una continuità straordinaria nel tempo e anche un’evoluzione quasi lineare, per lo meno tra l’età moderna e contemporanea. Come vedremo, tuttavia, ciò che consente all’autore di tenere in mano, con sicuro vigore analitico, l’intero bandolo della matassa è l’aver privilegiato, nell’intera ricostruzione, l’antagonista storico della natura: il lavoro umano.

Fin dall’inizio, da quando esiste una formulazione coerente di pensiero economico, natura e lavoro appaiono fra loro divisi. Ovviamente ai due nomi, e soprattutto al primo, hanno corrisposto nel tempo concezioni diverse delle loro realtà, ma in linea di massima si è mantenuta costante la differenza e la distanza fra una Physis esterna all’uomo e l’azione strumentale di questi indirizzata al soddisfacimento dei propri bisogni. Di tale diversità – anche quando non sfuggiva all’osservazione dei vari pensatori il fatto che gli uomini fossero parte interna alla natura – il carattere assoggettatore del lavoro, il suo essere operazione su e contro il mondo fisico, si incaricava di conservare una costanza sostanzialmente immutabile. D’altro canto, bisogna anche ricordare che, nel momento in cui comincia a sorgere un pensiero economico distinto, sistematico, la società che produce quella capacità intellettuale di autoanalisi ha già ampiamente assoggettato – e perciò nascosto – la natura ai propri fini riproduttivi. Qui bisogna anzi ricordare che Immler svolge una riflessione preliminare sulla nozione di valore che per molti aspetti è fondamentale per comprendere pienamente il senso di tutto il suo edificio critico.

La ricerca di una nozione, di una definizione assoluta di valore, di una categoria astratta e definitiva che misurasse i beni, ha finito per condurre il pensiero economico, a suo avviso, in un cul de sac. Il concetto di valore, infatti, non possiede una conoscibilità assoluta – quella che hanno preteso di raggiungere diverse generazioni di economisti – ma è in realtà correlato ai diversi rapporti storici che le società hanno di volta in volta stabilito con la natura. Un valore obiettivo, cioè generalmente riconosciuto, può esistere solo come convenzione sociale e perciò è di volta in volta mutevole. In una società primitiva, ricorda l’autore, lo scarso mezzo di sostentamento può essere stato valutato in vari modi: come gioiello, o come status symbol.

All’interno di essa il valore del lavoro veniva a definirsi e a differenziarsi a seconda della ricchezza o della scarsità della natura. Per cui, ad esempio, se i mezzi di sostentamento si dovevano ottenere attraverso un duro processo di lavorazione, allora era il lavoro che veniva ad assumere un valore incondizionato. In realtà, ricorda sempre l’autore, l’economia scientifica (ma potremmo dire il pensiero economico in generale) non ha mai avuto a che fare con le società primitive, ma sin dall’inizio con una “società di scambio”. Essa ha, per così dire, considerato la natura ex ante dal punto di vista dell’economia di scambio. E, dovremmo forse aggiungere, per ulteriore chiarezza: l’analisi economica ha sempre mirato a fissare criteri di misurabilità universale della ricchezza, i quali non potevano non registrare che il suo apparire sociale. Una volta assoggettata alla società, la natura non ha potuto esprimere il proprio valore che attraverso le forme del dominio subito: vale a dire attraverso le relazioni sociali, come ad esempio il lavoro, che solo apparivano come universalmente (cioè socialmente) misurabili. Apparire sociale e misurabilità venivano a coincidere, e perciò la scienza economica – che ha cercato di fissare leggi costanti e necessarie, sulla base di fenomeni ricorrenti e misurabili – non ha fatto che consacrare la regolarità di un dominio che nascondeva la natura.

Ora – ricorda Immler – sulla base di tale concezione solo come merce qualcosa può avere un valore, e dunque un valore di scambio, e perché sia merce occorre non solo che abbia una qualche utilità (valore d’uso) per un individuo, ma è necessario anche che possegga la capacità dell’appropriazione privata e che le proprietà individuali e gli scambi soggettivi siano a portata di mano. E qui si verifica la prima e fondamentale collisione fra natura fisica e valore di scambio. La natura, infatti, solo limitatamente può essere sottomessa alle caratteristiche richieste dalla razionalità del valore di scambio. Il sole, l’aria, i processi della vita biologica, le leggi che regolano il mondo fisico non sono riducibili a merce. E ciò porta alla conseguenza che l’economia di scambio, per la produzione di valori sociali, da un lato asservisce materialmente l’intera natura fisica, il mondo vivente nella sua intrinseca unità, mentre da un altro lato, tramite la concezione del valore può afferrare solo una parte di questa natura: quella che si trasforma in singole merci, che finisce, appunto, con l’esprimersi nel valore d’uso. Il mondo naturale che sfugge a tale riduzione rimane fuori, del tutto privo di valore. È dunque su tale contraddizione fondamentale – vale a dire fra un dominio totale sul mondo fisico e un pensiero economico che coglie solo il valore di una sua parte – che l’autore costruisce la propria postazione critica per rivisitare, con acuto argomentare, una vasta e ricca tradizione di pensiero».

 

1.1 Aristotele, ancora lui!

 

«Immler rammenta che già in Aristotele la natura, quale fonte dei prodotti, appare rimossa dall’orizzonte della sua analisi. Nel suo sistema esplicativo si danno infatti, sin dall’inizio, beni che hanno una doppia utilizzazione, quel valore d’uso e valore di scambio che diventeranno categorie cardine del pensiero economico successivo. Ma Aristotele non si pone il problema di stabilire da dove proviene il valore di uso delle merci, cui i differenti bisogni soggettivi degli uomini consentono – secondo le sue vedute – di affidare, oltre che una specifica utilità, anche un valore di scambio: vale a dire la possibilità di fondare una vera e propria procedura economica che vada oltre la soglia del semplice autoconsumo.

Certo, il concetto di bisogno – la disposizione soggettiva degli uomini che chiedono e usano beni – non costituisce per Aristotele una nozione utilitaria. Egli è uomo del suo tempo e perciò inscrive quei bisogni entro i rapporti vincolanti fra uomo e natura. Se utilità, uso e valore non sono proprietà intrinseche degli oggetti, essi derivano le loro funzioni dall’essere gli uomini avviluppati entro molteplici relazioni di dipendenza – in ragione dei propri bisogni – dalla natura e dagli altri esseri viventi. E tuttavia, pur entro questa riduzione soggettiva del mondo naturale, non sfugge al grande filosofo dell’antichità, in qualche passaggio della sua opera, la minaccia potenziale insita in una domanda senza limiti, resa possibile dal danaro, su un mondo fisico limitato».

 

1.2 Valor naturalis versus valor usualis

 

«Ma dalle esplorazioni storiche condotte da Immler sulla tradizione del mondo antico, è quasi esclusivamente sant’Agostino che si staglia con forte originalità di intuizioni e di visione generale. La sua distinzione fra valor naturalis e valor usualis, più tardi considerata falsa dal pensiero economico scientifico, costituisce – a giudizio dell’autore – una distinzione di notevole modernità. Il concetto di valore di natura non rende gli uomini la misura antropocentrica di tutte le cose: esso viene considerato dal punto di vista della totalità fisica e della società umana presa nel suo complesso. Il valore d’uso, al contrario, – scrive Immler – legato alla specifica utilizzabilità degli oggetti, trae il proprio significato dall’immediato interesse dei singoli all’uso dei beni secondo la dominante gerarchia degli interessi. Il valore di natura è dunque un bene intrinseco al tutto esistente, che appare strutturato secondo un proprio ordine e che si mostra indipendente dagli uomini.

È ovvio che tale ordine, nel pensiero di Agostino, corrisponda all’organizzazione gerarchica del mondo naturale voluta da Dio. Ma esso consente di scorgere la natura nella sua piena alterità e integrità, come ricchezza indipendente dall’appropriazione sociale che subisce da parte degli uomini. Entro tale quadro non si da contraddizione, come più tardi nella elaborazione dell’economia politica, fra valore d’uso e valore di scambio: vale a dire fra la specifica utilizzabilità materiale degli oggetti (da cui è scomparsa la memoria che essi siano ‘pezzi di natura’) e il loro essere strumenti delle relazioni economiche fra individui con bisogni diversi. Dunque una contrapposizione di modalità e di funzioni che si svolge ed esaurisce nel puro ambito delle relazioni sociali.

In Agostino la contraddizione ha un’altra sede e insieme un’altra grandezza: essa si viene a determinare fra valore naturale e valore d’uso, vale a dire fra il mondo fisico esistente, con le sue logiche autonome di autoriproduzione e l’appropriazione sociale di essa per fini di consumo. Egli è il primo pensatore, ricorda Immler, a porre in evidenza il conflitto fra condizione fisico-naturale della vita e comportamento economico utilitaristico. È su questa divaricata e radicale alterità che Agostino trae la predizione di un possibile e insanabile conflitto piantato all’interno della storia umana: quello fra il comportamento individuale e la natura, fra il non regolato volere degli uomini e la realtà esterna su cui essi possono far valere i propri bisogni. Un’idea che non è stata più ripresa dal pensiero economico successivo e che, insieme alla contrapposizione fra valor naturalis e valor usualis, è anzi rimasta – dice Immler – inosservata».

 

1.3 La preda di Hobbes

 

«Correggendo un precedente giudizio di Marx – che nel Capitale gli attribuiva l’idea del lavoro come unica fonte di ogni ricchezza – Immler vede in Hobbes un pensatore più sensibile alla parte giocata dalla natura nel processo di formazione della ricchezza. Ma il mondo fisico, per il pensatore inglese, era in origine un dono spontaneo di Dio. Esso si presenta come la materia prima e l’oggetto che viene diviso fra gli uomini per assicurarne la sopravvivenza. La relazione fra gli uomini e la natura si limita al lavoro di appropriazione da parte di questi e nessuna riproduttiva interazione viene riconosciuta fra i due.

In verità, nella concezione di Hobbes, la natura è in origine nulla più che una preda: l’oggetto di caccia degli uomini considerati lupi. Le belve per l’appunto che, come è noto, solo il Moloch statale era riuscito a porre a freno, ma solo per regolarne la coesistenza sociale. In tale quadro gli uomini non erano tuttavia solo reciprocamente lupi, essi erano anche in guerra costante con la natura. Un conflitto che sarebbe terminato allorché si sarebbe stabilita una piena identità fra la natura e la proprietà. È la ripartizione e l’appropriazione da parte dei singoli dei beni di natura, per l’appunto la proprietà della terra, che mette fine a tale guerra.

E al tempo stesso è la proprietà a costituire la base più importante per l’ingresso degli individui nel contratto sociale. La natura viene così ridotta a oggetto, costretta ad acquistare rilevanza solo per il fatto di rappresentare la base stessa della proprietà privata, cioè un’articolazione dei rapporti sociali.

Essa si presenta e manifesta come singole cose, pezzi di terreno, alberi, singoli animali, piante ecc., vale a dire nello smembramento prodotto dall’uso dei possessori e non certo – ricorda Immler – come forme di esistenza della natura: come ad esempio l’aria, una specie di uccelli, di piante ecc. L’incorporazione dell’universo fisico all’interno del sistema sociale è quindi, con Hobbes, compiuta e con essa l’assoggettamento a una ideologia che vede nell’appropriazione e spartizione della natura, cioè nella proprietà privata, la condizione e il modo di esistenza di quello. È da questo pensatore, sostiene Immler, che trae origine la scienza economica, destinata a smembrare la natura qualitativa in astratte e divisibili quantità.

Chi completa e sviluppa tali impostazioni con maggiore ampiezza e sistematicità è tuttavia John Locke, che utilizza in una direzione nuova la categoria di valore. Era stato Petty a impiegare fruttuosamente questo nuovo concetto. Un pensatore originale che, secondo Immler, e diversamente da quanto sostenuto da Marx – il quale ne fa il fondatore della teoria del valore-lavoro – aveva riconosciuto anche nella natura una fonte di valore. Locke rompe definitivamente con tutti gli elementi di incertezza che avevano fin lì caratterizzato la riflessione economica, la quale non aveva ancora risolto il problema del rapporto con la natura in una direzione che sarà poi vincente e definitiva. Egli assegna infatti un potere quasi nullo al mondo fisico nella composizione del valore, che appare invece quasi interamente prodotto dal lavoro. Perché si chiede Immler, Locke ha dato tanta importanza nei Trattati sul Governo, vale a dire nella sua più importante opera di scienza sociale, alla dottrina del valore-lavoro?»

 

1.4 Locke e la proprietà privata

 

«Secondo il filosofo inglese – argomenta Immler – la natura non ha valore per gli uomini in quanto realtà indipendente, come mondo fisico: ad esempio come processo di formazione di ghiande, mele, di frutti ecc. Al contrario, ha per essi valore solo come semplice raccolta di tali frutti, che si definisce come processo di lavoro e processo di appropriazione della natura, il quale non solo produce tutta la ricchezza per la società, ma trae con sé anche la formazione della proprietà. Fino a quando manca l’appropriazione umana, la natura è semplicemente a portata di mano, ma svincolata da ogni socialità, cioè da ogni valorizzazione sociale. E tuttavia, allorché ha luogo l’appropriazione, quel che viene messo in valore non è il potenziale naturale ma il potenziale del lavoro.

Con ciò viene posto il principio di una nuova razionalità economica, secondo la quale il mondo fisico esiste solo come privato assoggettamento, come utilità. La natura che si pone al di qua e all’esterno del lavoro umano e della proprietà privata è esterna alla stessa società; e tutto questo, ricorda Immler, sulla base del presupposto che la società non sia altra che la società borghese e che la proprietà sia la proprietà privata. Una società fondata sulla proprietà comune, ad esempio, è fuori dal suo orizzonte. Poiché, per Locke, ogni appropriazione della natura attraverso il lavoro privato conduce alla proprietà privata, e ogni uomo è costretto ad impossessarsi di beni naturali per mantenersi in vita, di conseguenza egli finisce con il legare l’esistenza fisica degli uomini all’esistenza della proprietà privata.

Nell’esaltazione del lavoro umano, che si presenta sempre come lavoro privato, Locke consuma in realtà, in termini di elaborazione teorica, il definitivo distacco del pensiero eco­nomico dalle relazioni di lavoro proprie del mondo feudale. Nel primato del lavoro – inteso come lavoro dei proprietari di terra, e non come prestazione dei lavoratori privi di possesso fondiario – egli mira a legittimare la proprietà privata borghese del suo tempo. La natura appare infatti incolta, infruttuosa, sterile se si presenta come bene comune solo la libera proprietà che si instaura su di essa e la rende produttiva. La terra creata da Dio, potenzialmente ricca ma infeconda senza l’apporto del lavoro, viene trasfor­mata in ricchezza grazie alla proprietà privata.

È essa infatti che consente al lavoro di applicarsi e quindi di realizzare il valore. È in questa destoricizzazione della natura che si crea un paradigma culturale destinato ad avere una grande fortuna nel successivo pensiero economico e nella lunga durata dei grandi quadri culturali dell’Occidente. La frattura fra natura e società conduce infatti alla conseguenza che la proprietà privata viene a coincidere con il diritto praticamente illimitato allo sfruttamento della natura. Ma in questo caso si produce anche la fondazione di un altro presupposto culturale, a sua volta destinato a lunga vita. Dalle argomentazioni di Immler è possibile vedere come già con Locke, grazie al legame inscindibile che egli stabilisce fra lavoro, proprietà privata e valorizzazione, si determini di fatto quello che qui potremmo definire un nuovo principio di visibilità: la natura si manifesta come valore, cioè è socialmente percepibile, solo nelle merci, nel mondo fisico divenuto merce e individualmente posseduto. E ciò porta alla conseguenza che essa compare nella società allorché diventa proprietà privata, mentre non si vede, rimane nascosta, quando – come totalità inscindibile – appartiene a tutti».

 

1.5 E Adam Smith dove lo mettiamo? Chi, quello della Ricchezza delle Nazioni?

 

«Senza l’intervento dell’appropriazione umana nella forma di un determinato rapporto sociale, la natura, quindi, rimane inerte e priva di valore. Ma a questa svalutazione sostanziale della natura corrisponde al tempo stesso un’altra conseguenza teorica di grande portata. Una volta ridotta alla sua valorizzazione attraverso il lavoro, la natura stessa può perdere i propri limiti fisici e materiali e trasformarsi in ricchezza astratta e dunque sfruttabile all’infinito. A rappresentarla dentro la società – ricorda Immler – è sempre più l’equivalente astratto del valore delle merci: il denaro. E il denaro, come strumento e rappresentazione simbolica del valore, appare, in qualità di mezzo non deteriorabile e accumulabile all’infinito, un moltiplicatore illimitato della ricchezza. All’interno della nascente economia borghese natura e ricchezza tendono astrattamente a scindersi e a separarsi. Il mondo fisico perde le sue caratteristiche di realtà biologica vivente e autoriproduttiva e i suoi confini sono determinati dalla potenza di sfruttamento degli uomini. L’idea di una possibilità illimitata di sfruttamento della natura fa dunque il proprio ingresso dirompente nel pensiero economico.

Le radici della separazione fra natura e società sono profonde, ricorda Immler. Per questo, non bisogna limitarsi ad attribuire la responsabilità di aver introdotto la divisibilità, calcolabilità e oggettivazione della natura – dunque la separazione dell’uomo dal mondo fisico – solo a Newton e a Cartesio. Le stesse scienze sociali del tempo, che con Locke muovono una critica definitiva al mondo feudale, e avviano le fortune del pensiero borghese liberale, sono protagoniste della fondazione di questo nuovo quadro culturale decisivo per gli svolgimenti successivi dell’elaborazione teorica occidentale.

In Adam Smith, il padre fondatore dell’economia politica, Immler identifica innanzi tutto il teorico che assegna un ruolo centrale al lavoro come creatore e misuratore del valore. Una posizione, vorrei aggiungere, che sembra sorgere dal bisogno di Smith, più forte e determinato dei suoi predecessori, di stabilire leggi costanti e misurabili, fornite di regolarità e necessità, in grado cioè di fare dell’economia una scienza. Per questa ragione, con molta convinzione, egli fa del lavoro umano ‘l’originaria moneta d’acquisto con cui si pagano tutte le cose’: appunto perché esso ‘è l’ultima e reale misura con cui il valore di tutte le merci può essere stimato e paragonato in ogni tempo e luogo’.

Immler, per la verità, analizza anche le diverse e talora contraddittorie e oscillanti teorie della rendita formulate da Smith, cogliendo così i momenti in cui lo scrittore scozzese tende a spiegare la produzione di questa particolare dimensione della ricchezza con la produttività della natura. Nel tentativo di giustificare in maniera armonica la funzione dei tre gruppi sociali fondamentali del suo tempo, Smith è portato a spiegare il salario operaio con le prestazioni lavorative, il profitto del capitalista sulla base della sua posizione di partenza e la rendita del proprietario con la gratuita produttività della terra.

Ma l’analisi di Immler privilegia sentieri di critica che vanno in una più precisa direzione. Il pensiero di Smith consente infatti di esplorare nelle forme più compiute il processo di formazione del pensiero economico moderno come un processo di progressiva cancellazione della natura dall’orizzonte sociale. L’autore mostra, infatti, come in base alle concezioni del valore elaborate da Smith, il valore di una merce non consista nella sua produzione fisica, ma nelle relazioni sociali che ne consentono la valorizzazione, oltre che – aggiungerei – ne permettono la misurabilità.

Quale utilità economica presenta un bosco se esso non viene fatto a pezzi e ridotto in merci trasportabili a un luogo di mercato? Quale valore sociale possiede un albero se non è tagliato e venduto? Certo, Smith riconosce che il valore d’uso di una merce si fonda su una sua utilità e questa, a sua volta, sulle caratteristiche fisiche e materiali del singolo bene. Ma da questo egli non risale alla totalità naturale da cui il bene è ricavato. Nella sua visione la merce conserva la propria unidimensionalità in vista della propria limitata utilizzabilità sociale eppure, di fatto, rappresenta solo una parte limitata della multidimensionalità della natura.

L’utilità dell’albero – ricorda Immler – per la lavorazione che ne fa il falegname, consiste solo nella proprietà del legno, non nella molteplicità delle forme di esistenza dell’albero come bosco, come nicchia ecologica, come paesaggio, come sede di nidificazione degli uccelli ecc. Si uccidono animali solo per utilizzarne la pelle e così da un’intera catena di funzioni di un processo naturale solo una parte viene vista come utile e tutto il resto e sacrificato. D’altro canto, componenti essenziali della natura che non possono assumere la forma di merce si presentano, esattamente per questo, come prive di alcuna utilità. L’aria, il vento, il sole, il clima, in molti casi l’acqua, appaiono senza valore in quanto non separabili dall’insieme del contesto fisico e organizzabili in merce.

Eppure si tratta di elementi naturali la cui perdita sarebbe disastrosa non solo per l’economia. Ma la teoria del valore tocca in Smith il vertice di un significativo paradosso. Sono i diamanti e l’oro, beni prodotti dal lavoro (e spesso da un duro assoggettamento del lavoro umano) ad avere un valore, mentre l’acqua e 1’aria, offerte dalla natura senza intervento degli uomini appaiono prive di valore. Ciò che entra come componente fondamentale della produzione naturale (e Immler dimentica peraltro spesso di richiamare la funzione produttiva dell’energia solare) e costituisce al tempo stesso la condizione stessa dell’esistenza della vita sulla terra, è priva di valore. Con ironia l’autore ricorda, a tale proposito, che nel calcolo del valore di scambio nessuna distruzione della natura che non ha forma di merce può aver luogo: un valore che non esiste, infatti, non può essere distrutto.

In realtà, ciò che appare non dotato di valore di scambio viene assunto come qualcosa di fisicamente inesistente. Ma all’interno delle società industriali, l’operazione di rimozione concettuale operata da Smith ha avuto ulteriori sviluppi ed esiti. Come già aveva fatto notare nell’illustrare il pensiero di Locke, Immler ricorda alcune caratteristiche odierne della rimozione della natura nel processo economico. Non appena passa attraverso un procedimento industriale, la materia prima non appare più, ai nostri occhi, come appartenente alla natura. Eppure, non sono dopo tutto le materie prime, i macchinari, le stesse industrie, se non natura storicamente formata e manipolata? Piegata ai nostri fini e irriconoscibile, trasformata in paesaggio artificiale di ferro e cemento, la natura inorganica deve cessare forse per questo di ricordarci la sua origine e la sua costante funzione?

D’altra parte, ricorda Immler, la materia prima non rappresenta solo e necessariamente una ‘sottrazione’ dalla natura, ma spesso anche un nuovo grado di trasformazione all’interno di essa. La produzione di energia di vapore necessita – ricorda l’autore – malgrado tutte le conquiste della tecnica, di una straordinaria molteplicità di proprietà della natura fisica esterna: la combustione del carbone, l’effetto delle leggi fisiche per la produzione di vapore, la trasformazione dell’energia di vapore in energia meccanica. In realtà la natura si manifesta meno come parte, pezzo, campo, oggetto, che come processo, effetto, trasformazione. ‘Ma – conclude Immler – è la legge di Gay-Lussac meno una forza produttiva della natura di un chilogrammo di carbon fossile?’

Il petrolio – si potrebbe aggiungere, per piegare l’esemplificazione a fenomeni e processi del presente – continua a esprimere le proprie caratteristiche naturali anche mentre è sottoposto a procedimento industriale, ed anzi proprio in virtù di queste esso è materia prima o fonte di energia. Solo tali capacità naturali di entrare in un processo di trasformazione e lavorazione gli consentono di diventare un prodotto e quindi una merce. Ed è questa, certamente, una realtà non considerata all’interno di un quadro di percezione della natura che oggi riduce l’idea di una sua possibile utilizzazione – come dice ironicamente l’autore in pagine precedenti – nell’opera di raccolta delle bacche.

D’altra parte, spostandosi su altri territori, occorrerebbe aggiungere alle esemplificazioni fornite da Immler altre dimensioni del ruolo produttivo giocato dalla natura. Si pensi alle risorse naturali riproducibili in generale le foreste e i mari, ma anche la terra dell’agricoltura industrializzata dei nostri anni. I concimi chimici e l’irrigazione artificiale (tutti pezzi di natura ridotti in merce) potranno anche accrescere la produttività del terreno: ma ciò che trasformerà i semi in spighe di grano sarà l’immenso e segreto laboratorio chimico della natura, il sole e il calore e i fermenti organici della terra, con i suoi tempi di riproduzione, che sono “tempi di lavoro” del mondo fisico, benché non riconosciuti, né pagati.

Attraverso, dunque, la separazione fra ricchezza e valore e il progressivo assoggettamento della natura alle logiche del processo di valorizzazione, si è pervenuti al quadro di concezioni e di percezioni oggi dominante nelle società industriali. È come se – sostiene Immler a tale proposito – le forze produttive naturali dipendessero, per così dire, dai modi di produzione naturali, mentre le forze produttive industriali appaiono superiori alla natura e svincolate da essa. Il valore di scambio delle merci si è reso così indipendente dalle sue forme fisiche naturali.

Tutti questi errori, sottolinea l’autore, portano al risultato che le forze produttive della società industriale appaiono indipendenti dalle loro condizioni fisiche di esistenza. Ma la paradossalità della dottrina del valore-lavoro, nella sua relazione con la natura, si spinge anche oltre. Per essa, infatti, non è importante il tipo di lavoro esercitato sul mondo fisico e il rapporto con le risorse ambientali: decisivo è invece il tempo di lavoro, la sua quantità misurabile. Se un contadino coltiva una terra fertile o sterile questo è indifferente dal punto di vista della teoria del valore, perché il lavoro viene visto e calcolato come produttore di valore, anche quando non fa che diminuire la produttività naturale e distruggere la natura.

Un risultato di tale economia della scarsità è che tutte le risorse che non si lasciano assoggettare a tale logica, che non possono essere sfruttate lungamente e intensivamente, vale a dire la ricchezza naturale non utilizzata, si trasformano in scarsità e in povertà. D’altra parte la rendita ha luogo quando un bene è scarso: perché l’acqua possa essere venduta bisogna che manchi. Il modello di equilibrio di Smith, in relazione alla parte di valore della rendita fondiaria contenuta nel valore di scambio, conduce a un intrinseco paradosso: la parte di valore sarebbe nulla se la natura fosse infinitamente ricca e sarebbe infinita se, al contrario, la natura venisse distrutta. La più grande possibilità di trasformazione della libera natura in valore si ha con la sua distruzione. Mentre esalta l’astratta ricchezza delle nazioni, Smith in realtà – ricorda Immler con un gusto un po’ spinto del paradosso linguistico – annienta così la loro ricchezza naturale».

 

1.6 Ricardo: la razionalizzazione dell’ingiustizia sociale

 

«Il problema della separazione fra natura e lavoro che aveva occupato il pensiero economico da Locke a Smith, non si pone più per David Ricardo, con il quale le questioni si separano dal contesto storico e vengono assunte e risolte in termini logici e astratti. Egli ha infatti ridotto il lavoro a quantità puramente temporali, prive di diversità qualitative, mentre, coerentemente, non ha mai preso in considerazione la possibilità che la riproducibilità di un bene possa essere indipendente dalla quantità di lavoro necessario. Allorché aumenta la produzione di merci, ciò accade – secondo Ricardo – perché aumenta la produttività del lavoro e, viceversa, una caduta della produttività della natura viene imputata a una minore produttività del lavoro. E, nota Immler, poiché in questo caso aumenta il valore delle merci, grazie alla loro accresciuta scarsità, ciò fa ulteriormente dimenticare la natura. Quest’ultima notazione mostra inoltre a quali estremi logici può condurre l’assunzione del lavoro come misura e produttore di valore. Il valore di scambio di un prodotto cresce tanto più quanto maggiore è il lavoro necessario per produrlo. Ed esso diventa tanto maggiore quanto più elevata è la distruzione della natura, che rende così scarse le risorse disponibili. In realtà la totale invarianza in cui Ricardo ha irrigidito il mondo fisico – l’averlo cioè ridotto a una base stabile e costante a disposizione del lavoro – lo porta, sostiene l’autore con il consueto lavorio analitico, a dei veri e propri paradossi logici.

Chi potrebbe credere, domanda Immler rovesciando un ragionamento tipico dell’economia politica, che uno scavo di carbone a 50 metri di profondità darebbe un valore 20 volte inferiore a quello prodotto da uno scavo più difficile a 500 metri, solo perché sarebbero necessarie, nel primo caso, 20 volte meno lavoro? Anche in questo caso, dunque, come già in Smith, ma con più stringente coerenza logica, l’assunzione del valore di scambio delle merci come criterio della valutazione porta a paradossi che incrinano la stabilità di un intero edificio teorico.

In coerenza con le formulazioni precedenti dell’economia politica, Ricardo sostiene che non si potrebbe ricavare alcuna rendita se i doni della natura fossero a portata di mano e senza limiti, come ad esempio l’aria, l’acqua, il vapore ecc., diversamente da quanto accade per i terreni, che, essendo limitati, sono proprio per questo capaci di rendita. Egli assegna dunque il differente valore economico di parti della natura agli stessi caratteri intrinseci di questa.

In realtà, argomenta Immler, l’acqua è tanto poco inesauribile quanto i terreni e anche l’aria può essere alterata e la sua qualità diminuita. Più precisamente, sostiene l’autore, la spiegazione fornita da Ricardo è del tutto falsa: l’effettiva differenza non risiede nella natura in sé, ma nei rapporti sociali che si stabiliscono con essa. Quest’ultima infatti, apparendo come limitata, ha un proprietario e può, in quanto merce, essere trattata e manipolata. La natura, considerata come inesauribile, manca invece di queste ‘proprietà’.

Paradossalmente, si potrebbe aggiungere, la natura è ricchezza quando è limita­ta al possesso di pochi ed è povertà economica quando è materialmente abbondan­te, ricchezza di tutti. Ma, in effetti, non rivelano tali paradossi logici – su cui Immler esercita la propria ironia – una profonda realtà sociale e storica? Non riflettono essi il carattere per così dire geneticamente asimmetrico del sorgere sociale della ricchezza? Non è effettivamente necessario che ci siano i poveri perché la prosperità diventi visibile e socialmente operante? Forse non bisognerebbe mai dimenticare che esiste un rapporto ambiguo tra la formazione storica della ricchezza e del potere materiale, che si fonda sulla sperequazione sociale fra gli uomini, e il tentativo del pensiero di afferrare il segreto della sua genesi, di renderne visibile il processo di svolgimento e di affermazione.

In questo tentativo lo sforzo di racchiudere i fenomeni entro regolarità, di rappresentarli come leggi, finisce col fare della scienza economica, anche suo malgrado, una sorta di razionalizzazione dell’ingiustizia sociale. E così lo sforzo di racchiudere i fenomeni nella stringente razionalità del calcolo ha portato a non poche rimozioni e talora cancellazioni dell’effettiva realtà sociale. Non solo la natura è rimasta fuori della misurazione del valore, ma – solo per fare un esempio – per secoli è stata socialmente ed economicamente rimossa una parte rilevante del lavoro umano: la fatica quotidiana delle donne entro le mura domestiche. Una fatica, ricorda Immler in un’opera successiva, predisposta alla riproduzione della forza-lavoro.

Ma ritorniamo al nostro testo. È dunque il criterio della forma merce, il punto di vista dell’economia del valore di scambio che divide l’unità reale della natura. Solo come merce, infatti, essa può assumere un valore di scambio e quindi un valore sociale, altrimenti è perfettamente inutile e solo la sua limitazione e diminuzione, la sua stessa distruzione, le conferiscono valore. E questo, sicuramente, rappresenta il supremo paradosso dell’economia politica.

Ricardo rappresenta, dunque, agli occhi del nostro autore – che certamente svaluta, per ragioni di prospettiva teorica, l’enorme contributo di conoscenza sociale fornito dall’economia classica – una sorta di condensato di pensiero in cui si riflette l’incapacità della società industriale del suo tempo di comprendere la natura come storia e la storia come natura: vale a dire come processo in cui gli elementi e le risorse del mondo fisico giocano, insieme al lavoro, un ruolo fondamentale. Se Galilei aveva affermato che il libro della natura è scritto in formule matematiche, bisogna dire che con Ricardo la scienza economica ha trovato il suo Galilei».

 

1.7 Merci e natura in Marx

 

«L’assunzione della natura all’interno della tradizione del pensiero economico può cambiare molte prospettive di interpretazione storica. Ad esempio, anche un pensatore come Marx, il grande critico dell’economia politica, appare più interno a tale tradizione culturale di quanto non rivelino altri aspetti della sua possente elaborazione. Per la verità, come del resto per gli autori già esaminati, chi scrive non possiede una conoscenza così vasta e completa dell’opera di Marx da poter controllare, con piena aderenza, l’analisi e la critica che ne fa Immler. Una tale competenza, in Italia, la possedevano poco tempo fa solo alcuni ideologi del Partito socialista italiano e altri numerosi aspiranti becchini di Marx, oggi del tutto estinti. Quindi si deve continuare, come fin qui si è fatto, a registrare il pensiero dell’autore e procedere senza guide… Sebbene, per la verità, la disamina di Immler sia sempre così ampia e ricca di convincenti riferimenti testuali, che avrebbe potuto fornire qualche informazione in più perfino a quei sapienti ormai scomparsi.

Diversamente dalle riflessioni contenute negli scritti filosofici – ma anche, aggiungerei, dai molti spunti sparsi nelle opere teoriche maggiori – il Marx impegnato a fare i conti con il pensiero economico borghese finisce con l’assegnare alla natura un ruolo limitato nella produzione della ricchezza: o, per meglio dire, nella creazione di valore. Certo, anche in tale ambito Marx mostra una superiore e innovativa capacità di penetrazione dei problemi. Anzi, come riconosce lo stesso Immler a conclusione della vasta e serrata disamina a lui dedicata, “come nessun altro egli ha posto le basi per una critica fisico-naturale dell’economia politica”.

Del resto la stessa definizione che Marx da del lavoro, una categoria fondativa del suo edificio teorico, già nel primo libro del Capitale, illustra in maniera programmatica il rilievo primario assegnato alla natura nel processo di produzione. “Il lavoro è prima di tutto un processo fra uomo e natura, un processo nel quale l’uomo, attraverso la propria attività procura, regola e controlla il suo scambio materiale con la natura”.

Una ammissione importante, anche se, ricorda Immler, la natura gioca in questa relazione con il lavoro un ruolo semplicemente passivo. Essa è infatti presentata da Marx non come forza che coopera alla produzione, ma come base materiale, oggetto inerte che solo dal lavoro umano riceve la sua forma e il suo valore. E tale concezione avrà esiti rilevantissimi nella sua costruzione della teoria del valore. Relativamente al solo valore d’uso della merce, Marx appare tuttavia più che mai esplicito nel limitare il ruolo che nella sua produzione riveste il lavoro: “il lavoro non è l’unica fonte dei valori d’uso che produce della ricchezza materiale. Come dice William Petty, il lavoro è il padre della ricchezza materiale e la terra ne è la madre”.

E tuttavia, a dispetto di tutti gli elementi di distinzione (e di critica radicale) che lo contrappongono all’economia politica, nel costruire la sua teoria del valore, Marx finisce suo malgrado con il collocarsi all’interno della linea di pensiero che cancella la natura dal processo di produzione del valore. E la porta di ingresso che conduce a tali esiti decisivi è ancora una volta un procedimento logico assai antico, come si è visto, nel pensiero economico: la dichiarazione di indipendenza del valore di scambio dal valore d’uso e l’eliminazione di quest’ultimo da ogni influenza nella determinazione del valore.

Com’è noto, Marx si è particolarmente impegnato […] e precisamente ad apertura della sua opera maggiore, allo scopo di disvelare quello che egli chiama “l’arcano della forma di merce”: il fatto cioè che le merci tendano a presentarsi come oggetti regolati da rapporti sociali propri, indipendenti da quelli degli stessi produttori che li hanno materialmente realizzati e messi in circolazione. In questo sforzo egli vuol concorrere a mettere definitivamente a nudo i rapporti sociali che reggono quel particolare apparire “mistico” delle merci, attraverso la dimostrazione che esse sono in realtà non solo e semplicemente il frutto del lavoro astratto, ma qualcosa di più. Quanto fino ad allora conquistato dalla scienza economica nell’analisi di questo problema gli appare com’è noto insoddisfacente.

A Marx preme fornire una più completa e persuasiva spiegazione della formazione del loro valore, una spiegazione che introduce una novità rivoluzionaria rispetto alla teoria del valore-lavoro fin li elaborata dall’economia politica. Egli vuole infatti introdurre la scoperta teorica del plusvalore.

Concordemente con la teoria del valore-lavoro, Marx riconosce che il valore viene alle merci dal lavoro necessario per produrle: una grandezza misurabile con il tempo di lavoro impiegato nella produzione. Ricardo, ricorda Immler, ha fatto un passo avanti verso il processo di astrazione dei rapporti di valore riducendo i diversi e concreti lavori degli uomini alla dimensione di lavoro medio. Un approdo concettuale che Marx ha perfezionato dando al lavoro astratto ricardiano la configurazione di “tempo di lavoro socialmente necessario.

Marx, tuttavia, compiendo tale scelta analitica, finisce col liquidare la natura dal processo di valorizzazione. Nel momento in cui assume il valore di scambio di una merce come supremo determinante del valore, indipendente dal valore d’uso, egli accetta di fatto la dottrina ricardiana del valore-lavoro. Nel valore di scambio, infatti, secondo Marx, non è più contenuto nessun “atomo di materiale naturale”. Con la sferzante ironia che gli è consueta, egli ricorda che “finora nessun chimico ha scoperto valore di scambio nella perla o nel diamante”. In esso, dunque, solo la dimensione sociale dell’attività fisica della forza lavoro incorporata nella merce ha valore, essendo peraltro questa comparabile e misurabile dalla quantità del tempo di lavoro. È tale marchio sociale, secondo Marx, che consente ai beni di scambiarsi con altri beni come una moneta universale. Ed è esso a decidere della dimensione stessa del valore di ogni merce.Ma, nell’insieme, tale esclusione della natura dalla produzione di valore porta indirettamente a delle conseguenze più generali. Dal momento che il valore di una merce riconosciuto come socialmente utile può essere ridotto solo al lavoro astratto contenuto in essa, segue necessariamente – sottolinea Immler – che la parte fisica costitutiva e la condizione di esistenza di una merce, nella misura in cui queste non contengono lavoro, benché utili, debbano essere considerate socialmente e obiettivamente prive di valore. La natura non costituisce più un punto di discussione della dottrina del valore, conclude l’autore, ma viene esclusa prima ancora che sorga il valore.

Secondo Marx, degli oggetti, con il loro concreto valore d’uso, ci rimane la proprietà di essere prodotti del lavoro, di quella parte dell’attività umana che egli chiama “lavoro utile”. Ma a livello del valore di scambio le caratteristiche sensibili del tavolo, della casa, del filato, scompaiono. Essi non sono più il prodotto del lavoro del falegname, del muratore, del filatore ecc. ma solo “astratto lavoro umano”. Ciò che rimane è la loro astratta capacità di scambiarsi con qualsiasi altra merce, grazie a quel misuratore universale in esse contenuto che è la quantità di lavoro necessario per produrle. Ma perché, si chiede Immler, del tavolo, della casa e del filato rimane solo l’espressione del lavoro astratto e non anche quella di una natura astratta? Se si astrae dai caratteri sensibili dei beni – dal momento che si fa astrazione dai lavori particolari e concreti che li hanno prodotti – non si può trovare, come nel lavoro, anche nella natura, un’astratta “comunanza”? Perché è solo il lavoro e non anche la materia naturale, la sostanza costituente valore, che apre il passaggio al mistero dell’economia del valore di scambio?

Secondo Immler, un tale riconoscimento avrebbe comportato l’introduzione di una “natura astratta” che avrebbe costretto alla correzione di tutta l’impalcatura del sistema ricardiano. E più pessimisticamente egli ricorda anche che, in fondo, Marx finisce con l’accettare la visione dominante che la società borghese del tempo aveva della natura fisica, come realtà priva di alcun valore. Sicuramente tale giudizio appare eccessivamente severo, anche alla luce delle stesse valutazioni che Immler da su singole posizioni come sull’intera opera del pensatore di Treviri. Forse occorrerebbe aggiungere e precisare che Marx si è limitato ad accettare, come proprio orizzonte scientifico, il grado di misurabilità sociale del processo di formazione della ricchezza, che nella società del suo tempo come nella nostra ha espunto la natura gratuita come non pagabile e quindi non calcolabile. Egli, in qualche misura, stava così al gioco della convenzione scientifica del suo tempo, e delle sue astrazioni funzionali, allo scopo di dominarle. Per questa via egli poteva fornire una superiore interpretazione analitica del modo di produzione capitalistico, assegnando al tempo stesso una più dirompente efficacia politica al lato sociale – vale a dire il ruolo del lavoro operaio – delle sue innovazioni teoriche.

Marx, sottolinea l’autore, ha difficoltà ad uscire da un evidente circolo tautologico quando tenta di spiegare ricardianamente il valore della forza-lavoro. Egli deve infatti continuamente rinviare ad altro lavoro astratto precedente, necessario alla sua riproduzione. Di passaggio in passaggio il lavoro (il tempo di lavoro socialmente necessario) riproduce se stesso senza incontrare un qualche valore d’uso dato dal cibo o da altri beni e bisogni naturali. E invece, ricorda Immler, il valore di riproduzione dipende dal valore d’uso del lavoro (su cui tornerò più avanti), cioè dagli elementi qualitativi della prestazione fisica e dalla natura esterna. La forza-lavoro si riproduce non dal lavoro astratto, ma – suggerisce scherzosamente Immler – da “un buon pezzo di carne con patate, una sana passeggiata e una buona dormita”. Certo, l’operaio può comprare al mercato i propri mezzi di riproduzione, ma con questo l’aspetto fisico è solo spostato di un certo grado: in questo caso il tempo di lavoro, ma anche le condizioni di lavoro, dei contadini o degli ortolani decidono sul valore della riproduzione.

E tuttavia, proprio la scoperta più grande realizzata da Marx nell’analisi del modo di produzione capitalistico, vale a dire l’esistenza del plusvalore, lo conduce ad aprire nel proprio sistema un varco di feconde contraddizioni. Da dove proviene la differenza, che emerge alla fine di ogni processo di produzione di tipo capitalistico, fra capitale impiegato e capitale realizzato? Che cos’è che aggiunge quel quid di valore in più nel processo lavorativo per cui la somma finale del valore è superiore ai valori iniziali delle singole componenti?

Com’è noto, qui Marx segna il proprio radicale distacco da Ricardo e dall’economia politica. Per l’autore dei Principi il valore del lavoro e quello della forza-lavoro sono la stessa cosa. Marx, distinguendo fra lavoro astratto e lavoro concreto, riconosce la presenza di due elementi naturali nel lavoro concreto: quello della natura esterna e quello della forza-lavoro. E dall’unità di queste due componenti che prende forma e movimento il processo lavorativo.

Ma mentre la natura, diventata oggetto e semplice sostrato delle merci, finisce con lo scomparire a livello sociale – nella sfera del valore di scambio, dove cioè si permutano solo valori misurabili col tempo di lavoro – è il lavoro che viene ad assumersi tutto il merito del valore sociale dei beni. È il lavoro dell’operaio che nel modo di produzione capitalistico realizza entro una parte della giornata lavorativa il valore necessario alla propria autoriproduzione, lasciando tutto il resto della sua fatica alla produzione di plusprodotto e quindi di plusvalore.

Ma Marx, soprattutto con l’introduzione del concetto di plusvalore relativo finisce con l’ammettere, per la forza-lavoro, una dimensione e una realtà che aveva negato per le merci: l’esistenza di un valore d’uso con funzione determinante per la formazione del valore, e addirittura per la formazione di quel di più su cui si regge l’intero edificio del modo di produzione capitalistico.

E qui mi pare che Immler svolga una delle sue più acute intuizioni. Proprio tale dimensione, che era stata bandita dall’economia politica viene ora, sia pure in una delimitata direzione, rivalutata. Il valore d’uso della forza-lavoro diventa una fonte decisiva nella costituzione di valore: essa infatti è superiore al suo valore di scambio, non è racchiudibile entro i suoi limiti. Il lavoro umano, nel rapporto di scambio, non vale tanto quanto il tempo di lavoro necessario per la sua riproduzione. Vale, in effetti, di più. Grazie alla propria capacità di fornire più valore di quanto è costata, la forza-lavoro non si esaurisce in un puro processo lavorativo, ma viene a costituire il nucleo della formazione di valore e del processo di valorizzazione. Il consumo del suo valore d’uso, sostiene Immler, significa immediatamente produzione di valore e insieme di plusvalore. Come ricorda lo stesso Marx, non è infatti il valore astratto della forza-lavoro a produrre il plusvalore ma sono le sue proprietà materiali, le proprie caratteristiche concrete, la elastica estensibilità delle sue applicazioni ai comandi del capitale. Il valore d’uso della forza-lavoro equivale infatti alla sua fisicità, alle sue qualità naturali di intensità, destrezza, potenza ecc., che sono inseparabili dall’uomo in quanto essere naturale, che consuma natura esterna non solo in qualità di merce.

E qui aggiungerei – sulla scorta delle argomentazioni dell’autore – che nell’emergere del valore d’uso ha luogo un doppio movimento di coinvolgimento della natura: attraverso l’uomo lavoratore quale essere naturale e attraverso la natura esterna. Quest’ultima infatti torna a giocare un ruolo di prim’ordine nella determinazione del valore. Come potrebbe, d’altra parte, la forza-lavoro esprimere un valore d’uso che escludesse la natura esterna, dal momento che essa stessa non è che una parte delimitata e quindi una espressione della natura?

Marx – ricorda l’autore – ha giustamente sottolineato il fatto che per ogni lavoro deve essere rinnovato un quantum di muscoli umani, di cervello, di nervi ecc. Ma questi rappresentano quantità puramente fisiche che non sono misurabili: essi devono essere afferrati e rappresentati semplicemente come astratte quantità di lavoro, cioè quantità di valore. Ma la riproduzione di un muscolo o di una quantità di energia, richiede non solo lavoro precedente e quindi tempo di lavoro (per produrre cibo, vestiario ecc.), ma questi ultimi dipendono da fattori naturali della produzione, sia generali che speciali, i quali possono diminuire o accrescere, in maniera rilevante, il tempo di lavoro di riproduzione. La stessa attività fisica dei muscoli, del cervello, ecc. significa anche un necessario movimento della natura e della sua energia, l’influenza diretta dei suoi processi fisici, fisiologici, chimici ecc.

Esiste, insiste Immler, una partecipazione della natura alla produzione e riproduzione che viene cancellata attraverso quello che egli chiama il “trucco ricardiano”, vale a dire la presupposizione di una natura inesauribile e costante nel tempo. E invece il valore d’uso della natura non è affatto costante, esso può essere piccolo o grande e conseguentemente i tempi di riproduzione della forza-lavoro e con essi il valore della forza-lavoro saranno piccoli o grandi. Questo evidentemente non sarà ininfluente sulla determinazione finale del valore e quindi sulla grandezza del valore di scambio.

All’interno della logica marxiana del valore-lavoro – continua Immler – l’ipotesi di un peggioramento delle condizioni generali e speciali della riproduzione dà un risultato distorto: una insufficiente alimentazione del lavoratore, ad esempio, la sua cattiva salute, inumane condizioni di vita ecc., conducono al risultato che per la riproduzione individuale e sociale è necessario più tempo di lavoro che in condizioni normali, per cui il valore della forza-lavoro appare paradossalmente accresciuto. Mentre le condizioni fisiche di esistenza del lavoratore sono così peggiorate, si indicano come migliorate le condizioni del valore. Appare così evidente che il valore della riproduzione della forza-lavoro affidato alle sole astratte quantità di riproduzione del tempo di lavoro, fa apparire la forza-lavoro tanto più piena di valore quanto più deve essere operato per la sua riproduzione, cioè quanto più le condizioni naturali della sua riproduzione vengono distrutte.

In realtà, conclude Immler, ciò che non si è voluto ammettere è che la natura esterna partecipa come partner producente nel processo di riproduzione della forza-lavoro. Esiste una componente fisica, una forza di natura senza la quale non si dà lavoro, ma non si dà neanche valore e plusvalore. Origine e ordine di grandezza del plusvalore sono assolutamente indivisibili dai due elementi fisici che rendono possibile ogni produzione: quello del lavoro e quello della natura esterna. Se non si tiene conto di ciò, alla fine, nel calcolo del valore del lavoro, la produttività della natura apparirà come produttività del lavoro, così come la produttività del lavoro, nel calcolo del capitale, viene rappresentata come produttività del capitale. E ciò accade essenzialmente perché il valore d’uso interno ai rapporti capitalistici di produzione viene riconosciuto solo quando si presenta come merce: cioè come un valore astratto in grado di esprimersi in valore di scambio. Mentre il valore d’uso del lavoro può essere comprato al mercato, lo stesso non accade per il valore d’uso della natura non espressa in forma di merce».

 

1.8 Chi paga per la riproduzione?

 

«Sebbene natura e lavoro rappresentino le fonti del plusvalore, essi mostrano, nel processo di valorizzazione, una differenza importante. Attraverso l’acquisto della forza-lavoro da parte del capitalista viene anche pagato il costo per la sua riproduzione. Le leggi degli scambi equivalenti, ricorda Immler, sono così rispettate. Le cose stanno invece in maniera diversa nel processo di appropriazione delle forze di natura non in forma di merce. Queste costituiscono infatti parti del lavoro e del processo di valorizzazione, ma non hanno nessun valore di riproduzione paragonabile a quello della forza-lavoro: il loro uso non richiede nessuna riproduzione sociale. Nel momento in cui il proprietario di capitale compra la forza-lavoro egli acquista anche l’uso della natura non in forma di merce. Così, all’interno del processo di produzione di plusvalore, esiste una forza produttiva la cui riproduzione è assicurata dal1’economia di scambio, e un’altra la cui utilizzazione e consumo rimangono senza contropartita. Circostanza, ricorda più avanti l’autore, che favorisce l’errore secondo cui il fatto che le forze della natura siano prive di costi e di valori viene scambiato con la loro inesauribilità.

A tal proposito occorrerebbe ricordare, come ci suggerisce Immler, che l’intero apparato produttivo di una società non è che natura in forma di merce. Sulla scorta dello stesso Marx, egli rammenta in questo caso come produttivi non sono gli attrezzi, le macchine in sé (cioè la natura ridotta a merce e rappresentabile in valore di scambio) ma le qualità naturali – ad esempio dell’acqua, del vapore, dei materiali ecc. – attivate e valorizzate nel processo lavorativo.

È considerando la natura nella sua totalità, quale realtà vivente – non diversamente dall’uomo che esprime capacità di lavoro – che si scorge interamente l’asimmetria di trattamento che le viene riservata rispetto alla forza-lavoro. In alcuni luoghi, ad esempio, Marx riconosce apertamente lo specifico valore produttivo della natura. A proposito dell’energia del vapore egli scrive: “L’industriale paga il carbone, ma egli non paga la proprietà dell’acqua di mutare il suo stato, di trasformarsi in vapore, non paga la elasticità del vapore”. Ma tali riconoscimenti non modificano la sostanza della sua teoria del valore lavoro.

Non si tratta, d’altro canto, di considerare in questo caso solo la natura non in forma di merce: l’aria, l’energia solare, le reazioni chimiche e le leggi fisiche che operano gratuitamente nel processo di valorizzazione. Occorre anche valutare quella vasta parte di natura trasformabile in merce. Chi viene pagato per il carbone, il gas, il petrolio – prodotti da un millenario lavorio geologico – ora sottratti al pianeta e consumati una volta per sempre? In quale conto è messo il consumo di rocce, sabbia, minerali, sottratti al loro habitat e destinati alle opere di costruzione o impiegati nell’industria chimica? In realtà non è mai la natura, in questi casi, ad essere pagata sotto forma di mezzi restituiti alla sua rinnovabilità, ma la proprietà fondiaria o il capitale, e il lavoro che la manipola e trasforma. La produttività della natura non viene né posta in valore, né pagata.

Immler sottolinea dunque un diverso trattamento, ai fini della riproduzione, riservato rispettivamente alla forza-lavoro e alla natura esterna. In realtà, e a onor del vero, neppure alla forza-lavoro il modo di produzione capitalistico assicura la riproduzione, fino a che quest’ultima si presenta semplicemente come natura: cioè quando ancora non è entrata, come merce, in qualità di lavoro salariato, nel processo produttivo. Ma, d’altra parte, il problema della riproduzione della forza-lavoro si pone diversamente anche per una ragione evidente: benché nel rapporto di produzione capitalistica gli uomini si presentino come una qualsiasi merce, essi non sono, al pari delle materie prime o dei macchinari, separabili dalla loro totalità naturale. Rimangono esseri viventi, interamente dipendenti dai loro legami molteplici con la totalità del mondo fisico: dall’aria e dal sole, dall’acqua e dal cibo. Essi cioè continuano a rimanere natura anche oltre i rapporti sociali entro cui sono inseriti, e si riproducono consumando beni materiali e risorse allo stesso modo degli animali o delle piante prima che divengano materie prime.

La forza-lavoro, dunque, in quanto merce specifica con cui gli uomini partecipano al processo produttivo, non può non avvantaggiarsi del suo inscindibile legame con gli esseri universali e viventi che la posseggono. A differenza dell’albero da legname o dell’animale da macello, serve viva. Essa viene perciò pagata perché possa autoriprodursi. Ma tale vantaggio della forza-lavoro rispetto alle altre componenti del processo di produzione materiale non nasce solo dai suoi ineliminabili vincoli e “limiti” materiali. Esso è figlio anche di ragioni sociali e storiche. Teoricamente, il modo di produzione capitalistico avrebbe potuto fare a meno di farsi carico della riproduzione della forza-lavoro se questa fosse stata abbondante e facilmente autoriproducentesi come altri beni naturali e risorse. E questo non è solo un provocatorio azzardo concettuale. Forse che non ci sono stati periodi, nella storia di questo modo di produzione – ad esempio nelle Americhe appena conquistate – nei quali conquistadores o proprietari di piantagioni hanno usato la forza-lavoro umana in un modo che molto si avvicinava a tale possibilità teorica? Ma gli uomini, per loro fortuna, hanno costituito una risorsa scarsa, costosa da riprodursi, e per giunta, a differenza della natura, capace di opposizione e di conflitto.

Dalla vasta disamina condotta da Immler sulle vicende del pensiero economico – vale a dire sullo sforzo secolare di alcuni pensatori di dischiudere il segreto del processo di formazione della ricchezza – rimangono dunque rischiarati per la prima volta, sotto questo speciale profilo, percorsi di elaborazione culturale che sono a fondamento di una intera epoca della civilizzazione umana. La particolare visione e immagine della natura costruita dalla scienza economica costituisce un edificio culturale di lunga durata, che ha fornito l’orizzonte dominante entro cui ricondurre le regole del comportamento dell’uomo produttore. Trasformata in insieme di beni potenzialmente infiniti, la natura ha perduto la sua totalità vivente, come sottolinea Immler ripetutamente: ad essa è stata sottratta la concreta e materiale finitezza, per essere trasformata in un presupposto concettuale astratto. Fra l’infinita moltiplicabilità del valore e la delimitazione del mondo fisico si è aperta così una evidente, distruttiva, contraddizione. Ed essa viene alla luce, e si risolve in termini di calcolo economico, solo oggi: allorché la ricchezza della natura diventa scarsa e, a causa dell’aumento di domanda di risorse fisiche, essa riceve un prezzo di mercato.

Per una intera fase storica – si potrebbe aggiungere a questo punto – la natura ha cessato di essere questo pianeta, fornito di determinate e limitate quantità di suolo, di acque, di piante, per diventare l’illusoria infinità del suo illimitato sfruttamento. Alle nostre spalle non abbiamo dunque soltanto la vicenda millenaria dell’uso del lavoro umano non pagato. L’intera storia della formazione della ricchezza sociale sulla Terra si è costruita su una Potenza assente, su un soggetto senza diritti e voce, la cui mancanza di titolarità, allo stesso modo della mancanza di confini, ha costituito il presupposto della sua inesistenza sociale. La mancanza di un rappresentante dei diritti generali della natura ha fatto sì che a parlare in suo nome fossero tutti coloro che si erano appropriati di qualche sua parte dividendola e smembrandola. Il suo diventare parte rilevante e crescente della storia delle società umane è stato spiegato dai suoi stessi, arbitrari dominatori. E ad essi, e sempre di più ad essi soltanto, ha finito col dar voce, ragioni e senso, la scienza economica.

C’è dunque un tertium, posto fra potere di comando e lavoro, a cui non si è riconosciuta dignità di presenza. Ma la natura illimitata e gratuita, senza diritti per sé è rimasta anche senza proprietà su di sé. Nel momento in cui gruppi di uomini e classi se ne appropriavano, facendola così socialmente esistere, come loro proprietà, essi in realtà la sottraevano, come totalità e come parte, al noi invisibile e muto che apparteneva a tutti gli esseri del pianeta. Ed è proprio questo che emerge nei nostri anni alla fine di un lunghissimo ciclo della storia umana. La totale incorporazione della natura dentro la società ha finito col risvegliare la ‘bella addormentata’. La rivelazione drammatica dei limiti della crescita delle società industriali, che urta contro la finitezza delle risorse naturali e la sopportabilità fisica del pianeta, ha fatto uscire la natura dal limbo millenario in cui era stata nascosta.

Ma liberata dall’incantesimo economico, che la rivestiva di falsa infinità, ritornata a essere ciò che è – un insieme di risorse limitate e finite – essa ripropone in termini nuovi e a dimensione universale il problema della proprietà. A chi appartiene l’acqua scarsa, le foreste che deperiscono, a chi l’aria inquinata dalle contaminazioni industriali? È la finitezza assoluta dei beni che disvela la loro universalità e insieme il loro essere proprietà comune. È la vulnerabile delimitazione della natura che illumina tutti i modi di proprietà esercitati su di essa – di uomini, di classi, di stati – come forme di appropriazione storicamente determinate, legate a particolari modi di produzione. E così ne fa emergere la convenzionalità sociale, il lato tecnico e transeunte. Come ricordava Marx con profetica modernità, nel terzo libro del Capitale, in un brano riportato da Immler: “Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata di un singolo individuo sul globo terrestre apparirà interamente priva di senso come la proprietà privata di un uomo su un altro uomo. Parimenti, una intera società, una nazione, tutte le società contemporaneamente messe insieme, non sono proprietari della terra. Essi sono solo i suoi possessori, i suoi usufruttuari, e la debbono tramandare, migliorata, come buoni padri di famiglia, alle generazioni successive”.

Ma il processo di disvelamento si spinge in realtà oltre. Se tertium datur fra capitale e lavoro – e meglio sarebbe dire secundum, dal momento che il capitale non è che lavoro (e natura) accumulato – se si ammette l’esistenza del ruolo produttore della natura, la sua imprescindibile funzione nel realizzare ricchezza e valore, allora un nuovo scenario culturale si apre davanti a noi. L’intero continente sociale delle merci in cui siamo immersi, i beni che sono fra noi e sopra di noi, appariranno in una nuova luce. Essi si mostreranno infatti come parti e frammenti, stratificazioni e solidificazioni di beni che appartenevano e appartengono alla totalità della natura, all’arsenale collettivo di cui tutti siamo parte e al tempo stesso comproprietari.

Ogni processo produttivo non consuma solo forza-lavoro, ma anche risorse e materiali della Terra. Se la natura, attraverso le proprietà delle sue risorse e dell’energia vivente, coopera diuturnamente a tenere in vita la gigantesca macchina produttiva che agita il pianeta, allora il magazzino mondiale delle merci non conterrà solo prodotti del lavoro, pagati parzialmente per mezzo del salario. In essi si troveranno, manipolate e trasformate, risorse naturali oggi sempre più scarse, sempre più drammaticamente sottratte all’insieme della comunità umana, e proprio per questo investite di una inedita titolarità di diritti: i diritti di ogni creatura vivente su questo pianeta e di quelle che verranno.

Perciò, la potenza materiale su cui si reggono le classi dominanti non apparirà semplicemente come il risultato dell’appropriazione del lavoro salariato. Alla fine di un lungo percorso storico essa è finalmente costretta a mostrare il suo più vasto e ingiustificabile dominio. La grande partita della crescita e dello sviluppo economico dell’era moderna non si è giocata solo all’interno dei rapporti sociali, attraverso il dominio sulla classe dei produttori. C’è stato dell’altro, e assai più vasto è stato lo scenario della lotta. Gli attori della grande rappresentazione sono più numerosi.

L’ingresso della natura nella storia, dunque, disvela non soltanto l’origine reale delle merci, ma mette contemporaneamente anche a nudo il loro nascosto e ineliminabile sostrato collettivo. Per questa ragione, dunque, l’ingombrante presentarsi di tale soggetto all’interno dei rapporti sociali, getta una luce di inattualità sul modo in cui gruppi e classi si sono appropriati della ricchezza materiale e continuano oggi a produrla. Dal costituirsi della natura quale componente e condizione di una nuova possibile razionalità economica sorge invece, e diventa socialmente sempre più visibile, un nuovo obbligo generale per i produttori: quello di calcolare il valore collettivo di beni e risorse messe in uso, e il grado di riproducibilità che la loro manipolazione tecnica comporta. Per questo, nel nostro futuro, sempre meno giustificato e sempre più irrazionale è destinato ad apparire l’uso e il dominio privato di ciò che, per la sua crescente vulnerabilità e finitezza, appartiene, ogni giorno di più, a tutti».

Qui finisce il quinto capitolo. Il titolo dell’ultimo paragrafo è dell’autore.

 

2. L’ambientalismo di Marx e di Engels

 

Tornerò sulle conclusioni di Bevilacqua più avanti, per rafforzare la concezione di un’ecologia integrale di cui tutta l’umanità ha un estremo bisogno. Per quanto riguarda le considerazioni di Immler su Marx, come ho brevemente accennato, le ritengo sostanzialmente giuste, a mio modestissimo parere e soprattutto per quanto attiene ad un certo “positivismo” del Barbuto di Treviri. Nello stesso tempo, mi pare che Immler (cui va il merito enorme di un’analisi controcorrente rispetto al pensiero dominante, che tutto è fuorché unico, anche se come tale si propone) non si ponga come l’interprete assoluto di Marx e preferisca piegare il bastone dalla parte del futuro. Per farmi perdonare da coloro che pensano, un po’ religiosamente, che Marx, geniale scienziato dei modi di produzione, in particolare del modo di produzione capitalistico, non sia stato anche figlio del suo tempo, all’interno di una rigorosa riflessione sulla natura, riporto qui di seguito l’analisi di Giorgio Nebbia, relativa a due ambientalisti della prima ora: Marx ed Engels!

 

2.1 Fatti noti

 

Sulla scorta del lavoro di Nebbia e più o meno alla lettera, è facile rendersi conto come non solo i rapporti fra gli esseri umani e le risorse naturali fossero ben presenti in Marx ed Engels, ma anche che essi hanno anticipato e descritto il meccanismo con cui il capitalismo aveva e avrebbe asservito all’universo dei consumi tutti i popoli e tutta la natura. Questo paragrafo è anche pensato come una risposta alle argomentazioni di Immler su Marx contenute nel quinto capitolo di Demetra e Clio, che anche Bevilacqua presenta talvolta come poco “generose”, nei confronti di Marx ovviamente! Si tratta di una posizione dialettica, dal momento che è ragionevole pensare a Immler interessato a chiarire bene la sua tesi e quindi portato, come avrebbe detto Lenin, a curvare il bastone dalla parte opposta alle tesi da contrastare. È noto che l’analisi del pensiero marxiano mostra che una soluzione dei rapporti fra esseri umani, e degli esseri umani con le risorse scarse dell’ambiente, può essere cercata soltanto in una soluzione comunista dei rapporti di proprietà dei beni, in una pianificazione delle merci, in una più equa distribuzione dei beni materiali fra i diversi popoli e in un rigetto dell’imperialismo come strumento per approvvigionarsi dei mezzi fisici con cui soddisfare i bisogni materiali degli abitanti di ciascun paese.

Nebbia sottolinea, dopo aver chiarito di non voler ricostruire in breve spazio i rapporti fra uomo e natura in Marx ed Engels, che i primi anni Settanta hanno rappresentato una vera età dell’oro della riscoperta “ecologica” dei due grandi pensatori del comunismo. Fa riferimento ai Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’opera giovanile di Marx e alla Dialettica della natura di Engels. Da questo momento in poi è Giorgio Nebbia a parlare (e anche i titoli dei paragrafi sono suoi).

Nella sua analisi giovanile (aveva 26 anni) dell’alienazione imposta dai rapporti capitalistici di produzione agli esseri umani nei confronti del lavoro e del mondo circostante – la natura – Marx scrive nel primo dei Manoscritti:

«Le piante, gli animali, le pietre, l’aria, la luce, eccetera costituiscono una parte della vita umana e dell’umana attività. La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura».

Il tema viene ripreso da Engels nel 1876, pochi anni dopo la pubblicazione dei libri di Haeckel, nel saggio Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia, oggi compreso nella Dialettica della natura.

«L’animale si limita ad usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza fra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria sulla natura; la natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell’Asia minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizioni per l’attuale desolazione di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e di deposito dell’umidità. Gli italiani della regione alpina, nell’utilizzare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord, non … immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte dell’anno, quell’acqua che tanto più impetuosamente quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l’epoca delle piogge […]».

E continua: «Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo; tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato». E, più avanti: «Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vede la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso ‘humus’ e lasciassero dietro di sé nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte ad un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto».

Tutto questo un secolo prima che il concetto di previsione degli effetti ambientali della produzione e del consumo delle merci – la cosiddetta “valutazione di impatto ambientale” – entrasse nella legislazione dei paesi “evoluti”!

Ma c’è una ricetta che consenta di usare le ricchezze della natura per soddisfare bisogni umani senza distruggerne le fonti e le radici? Marx indica tale ricetta nella socializzazione dei beni della natura, un problema che affronta nella sesta sezione del III libro del Capitale:

«Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della Terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive. Sono le stesse parole che stanno alla base di tutti i tanto declamati discorsi sull’attenzione che si deve prestare alle future generazioni e sui guasti ambientali che ne possono compromettere le condizioni di salute e di vita; un principio che non potrà fare un passo avanti fino a quando la proprietà e lo sfruttamento individuale, privato, guidano le regole economiche relative all’uso delle risorse naturali».

 

2.2 La violenza della società industriale capitalistica

 

È sempre Nebbia a parlare.

Per cogliere le cause della violenza contro la natura, l’analisi marxiana del modo di produzione delle merci è fondamentale. Il capitolo del I libro del Capitale che tratta «le macchine», spiega bene come il modo capitalistico di produzione inevitabilmente comporti lo sfruttamento dei lavoratori, la produzione di merci alterate e sofisticate, l’inquinamento ambientale.

Per forza il capitale deve produrre più merci al minimo costo possibile: non certo per la maggior gloria della classe lavoratrice, ma per assoggettarla e costringerla a vendere il proprio lavoro. E come la proprietà privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni umani, è ben descritto nel terzo dei Manoscritti del 1844:

«Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l’ipotesi del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione, quanto anche un nuovo oggetto della produzione. Nell’ambito della proprietà privata il significato è opposto. Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce».

Le pagine del quarto paragrafo del capitolo 5 di tale “Sezione I”, hanno una sorprendente modernità:

«Per residui della produzione intendiamo gli scarti dell’industria e dell’agricoltura, per residui del consumo sia quelli derivanti dal ricambio fisico umano sia le forme che gli oggetti d’uso assumono dopo essere stati utilizzati. Sono quindi residui della produzione, nell’industria chimica, i prodotti accessori che vanno perduti, le limature che risultano dalla fabbricazione meccanica, ecc. Residuo del consumo sono le secrezioni naturali umane, i resti del vestiario in forma di stracci, ecc. I residui del consumo sono di grandissima importanza per l’agricoltura. Ma nella loro utilizzazione si verificano, in regime di economia capitalistica, sprechi colossali; a Londra, per es., dello sterco di 4 milioni e mezzo di esseri umani non si sa far di meglio che impiegarlo con enormi spese per appestare il Tamigi».

Tutto il paragrafo continua esponendo le prospettive di produzione della lana dagli stracci (già praticata in Inghilterra nella metà del 1800), la produzione di coloranti dal catrame di carbon fossile. E anche in questa parte Marx ripete che alla base degli sprechi, degli inquinamenti, si trova il modo capitalistico di produzione.

2.3 La violenza urbana

Sia Marx che Engels riconoscono, ancora una volta con visione molto moderna, nel modo di produzione capitalistico le cause della separazione fra città e campagna, della violenza urbana. Engels già nel 1845 (ne La situazione della classe operaia in Inghilterra) aveva scritto:

«Anche la popolazione viene accentrata, come il capitale; e ciò è naturale perché nell’industria l’uomo, l’operaio, viene considerato soltanto come una porzione del capitale che si mette a disposizione del fabbricante e alla quale il fabbricante paga un interesse sotto forma di salario. Il grande stabilimento industriale richiede molti operai, che lavorano insieme in un solo edificio; essi devono abitare insieme e là dove sorge una fabbrica di una certa grandezza, formano già un villaggio».

E, più avanti:

«Già il traffico delle strade ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti si urtano […] si passano accanto in fretta come se non avessero niente in comune […]. La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale, emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto».

Contemporanee al libro di Engels sono le descrizioni della drammatica situazione ambientale delle città operaie inglesi fatta da Charles Dickens nell’Oliver Twist, e in Tempi difficili.

Nella IV sezione del I libro del Capitale Marx spiega bene le conseguenze dell’esodo delle popolazioni operaie nelle grandi città, destinate a rappresentare un serbatoio di mano d’opera accessibile e sotto mano per l’impresa capitalistica.

«Il modo di produzione capitalistico porta a compimento la rottura dell’originale vincolo di parentela che legava agricoltura e manifatture nella loro forma infantile e non sviluppata. Con la proporzione sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula nei grandi centri essa … turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale […]. Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggiore quantità di lavoro resa […] vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro».

Engels riprende il tema del rapporto città-campagna nell’Antidühring del 1878:

«La città industriale – che è condizione fondamentale della produzione capitalistica – trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo». E più avanti, nello stesso libro, fornisce quasi una guida alla pianificazione territoriale:

«Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive secondo un solo grande piano, può permettere all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione, e rispettivamente all’utilizzazione degli altri elementi della produzione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie. La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città un’eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica».

 

2.4 La cultura del limite

 

Neanche i termini del dibattito sui “limiti” allo sfruttamento delle risorse naturali e della fertilità del suolo, erano estranei a Marx ed Engels. Di Liebig (citando la settima edizione del 1862 della Die Chemie in ihrer Anwendung auf Agrikultur und Physiologie) parla Marx nel XIII capitolo della IV sezione del I libro del Capitale, precisando che «la spiegazione del lato negativo dell’agricoltura moderna è uno dei meriti immortali del chimico tedesco». Più avanti, nella sezione 44 del III libro del Capitale, Marx scrive ancora che, «per quanto riguarda la produttività decrescente del terreno in successivi investimenti di capitale si deve consultare Liebig». Come si vede, il tanto citato e discusso libro sui Limiti alla crescita, con la sua analisi dell’impoverimento delle risorse e del crescente inquinamento come conseguenza della crescente produzione di merci e dell’aumento della popolazione, non era poi una novità nel pensiero economico e sociale. Originale e ancora attuale era anche la soluzione che Marx suggerisce al problema della scarsità, alla fine del III libro del Capitale:

«La libertà può consistere soltanto in ciò che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati, come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile consumo di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. [Qui comincia] il vero regno della libertà».

 

 

3. Le radici dell’ecologia

 

Dai a Cesare quel che è di Cesare … e a Giorgio Nebbia quel che è di Giorgio Nebbia! Innanzitutto gli auguri per i suoi 90 anni! Tutto quello che vi dirò sull’ecologia, in sostanza, lo ha già detto e scritto lui: per svolgere le argomentazioni che seguono, la fonte da cui più ho attinto è I quaderni di Altronovecento - Numero 4, Giorgio Nebbia Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo 1970-2013, a cura di Luigi Piccioni, Fondazione Luigi Micheletti, 2014. Praticamente, da questo momento in poi, dovrei far ricorso continuamente alle virgolette. Ma preferisco dare continuità all’esposizione, essendo scontato il plagio. In questo caso, ho preferito la versione in prosa, non adottata con il testo di Massimo Livi Bacci e di Piero Bevilacqua.

La data d’inizio è la fine del XVIII secolo, quando Malthus sostenne con forza che un aumento della popolazione avrebbe portato a una insufficiente disponibilità di cibo, suggerendo come unica soluzione per rallentare l’aumento della popolazione dei poveri (che fanno più figli), di tagliare i sussidi di povertà e di provvedere ad una adeguata “educazione”. A metà del XIX secolo, Justus von Liebig aveva descritto le leggi della nutrizione vegetale e aveva spiegato le ragioni per cui il suolo si impoverisce se coltivato intensamente. Quale fu la risposta del capitalismo? Prima sfruttò i concimi cileni, poi produsse concimi dai fosfati africani, infine produsse concimi sintetici. Nel 1866 Ernst Haeckel, il grande divulgatore del pensiero di Darwin, suggerì di studiare gli scambi di materia e di energia fra gli esseri viventi e il mondo circostante, assegnando alla nuova disciplina il nome di “ecologia”, in quanto “economia della natura”.

Per molto tempo, l’ecologia si è sviluppata nei laboratori scientifici influenzando limitatamente il pensiero e l’agire politico. Ma, a metà del secolo scorso, è nato, in risposta ad una domanda sollecitata in parte dai naturalisti e in parte da una nuova attenzione civile, un movimento per la conservazione della natura e sono stati creati i primi parchi nazionali. E poi il dibattito sulla rivoluzione delle conoscenze biologiche, nell’Ottocento prese a diffondersi rapidamente non solo fra gli studiosi, ma a livello delle masse popolari. Il fascicolo del 15 giugno 1882 del giornale operaio e socialista “La Plebe” conteneva un lungo necrologio di Darwin e una interessante interpretazione “politica” del suo pensiero:

«La solidarietà, e il lavoro solidale, sono ciò che protegge le specie nella lotta che esse hanno a sostenere contro le forze ostili della natura per mantenere la loro esistenza… [secondo le ricerche di Darwin] il miglior modo d’organizzazione d’una società animale è quella del comunismo anarchico».

Anche il problema della scarsità delle risorse naturali e del loro possibile esaurimento futuro era ben presente agli studiosi del secolo scorso. Stanley Jevons scrisse uno studio in cui avvertiva che lo sfruttamento delle miniere di carbone avrebbe portato ad un loro impoverimento e poi esaurimento. Previsione sbagliata, ma tale da sollecitare la ricerca capitalista che scoprì le riserve di petrolio e di gas naturale. Gli Stati Uniti realizzeranno il loro avanzato capitalismo prima con le proprie risorse petrolifere nazionali e poi importando petrolio, Nebbia dice «con adatte operazioni di imperialismo» in Persia, nella penisola arabica, in Africa, nell’America Latina.

 

3.1 La contestazione ecologica

 

Fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del secolo scorso, l’opinione pubblica e i grandi mezzi di comunicazione “scoprono” l’ecologia. Che diventa presto la bandiera di una nuova ondata di contestazione nei confronti delle alterazioni provocate all’ambiente naturale dagli inquinamenti, dalla guerra, dalla congestione urbana, dal traffico automobilistico, dall’espansione dei consumi, dalla speculazione edilizia, e della speranza nel cambiamento verso condizioni di vita più umane, più in armonia con la natura.

In pochi anni, le parole “ecologia” e “ambiente” diventano di pubblico dominio, e di moda. Intanto, sempre a partire dai primi anni settanta, un crescente numero di associazioni e gruppi di persone si organizzarono per condurre battaglie ‘ecologiche’, per la difesa della natura e dell’ambiente, dalla costituzione delle zone protette, alla difesa dei litorali e dei fiumi, alla lotta contro i pesticidi e l’energia nucleare, contro le fabbriche inquinanti, contro la speculazione edilizia, eccetera.

Con l’esplosione dell’attenzione per l’ambiente degli anni 1968-70 si moltiplicarono le conferenze delle Nazioni Unite sui problemi ambientali. Ma di queste ci occuperemo più avanti. A questo punto comincia un vasto e largamente inesplorato territorio che Giorgio Nebbia ha proposto di chiamare «la contestazione ecologica», definita come ogni intervento di persone o di gruppi di persone contro azioni o opere o violenze che arrecano danno alla salute umana e alle risorse naturali. E di assorbire in questa definizione numerosi termini come ecologismo, ambientalismo, ambientalismo scientifico e simili in circolazione.

Benché la contestazione ecologica sia nata con carattere popolare e di base, in genere come protesta contro offese arrecate ad una comunità, spesso essa è stata guidata e aiutata dagli specialisti di varie discipline. Fisici che hanno organizzato i movimenti di protesta – poi divenuti movimenti popolari – contro le armi atomiche, le esplosioni delle bombe atomiche nell’atmosfera e gli effetti sulla salute e sulla vita della ricaduta radioattiva seguita a tali esperimenti.

L’americano Barry Commoner ha cominciato la sua attività politica con una rivista di base contro le esplosioni nucleari, poi divenuta Environment. Il Bulletin of the Atomic Scientists, pubblicato a partire dal 1945 per denunciare i pericoli delle armi nucleari, ha sempre dedicato molto spazio ai problemi ambientali. La biologa americana Rachel Carson (1907-1964), partendo dalle sue osservazioni biologiche e naturalistiche, con i suoi scritti anche di grande divulgazione ha dato vita al movimento di protesta contro l’uso dei pesticidi clorurati persistenti e da qui, di fatto, alla contestazione ecologica in senso moderno. Questa, una volta avviata, sarà particolarmente attiva negli anni 1970-1985, coinvolgendo milioni di persone in tutti i paesi, soprattutto in quelli industriali più esposti a inquinamenti.

Tale contestazione è stata molto vivace anche in Italia, ha dato vita a movimenti spontanei e ha generato una diffusa voglia di conoscenze scientifiche, di cultura. In tale periodo molti studiosi e specialisti si sono impegnati in una alfabetizzazione diffusa sui pericoli associati agli inquinamenti industriali, alla radioattività, alle diossine, ai mutamenti climatici, ai rapporti fra l’ambiente e la produzione e consumo delle merci.

Il primo vero e proprio “movimento” di contestazione ecologica in senso moderno è cominciato realmente negli anni Cinquanta del Novecento, con la protesta contro le esplosioni delle bombe atomiche nell’atmosfera; si sono così intrecciate la domanda di pace e disarmo con quella di un ambiente non contaminato dai sottoprodotti radioattivi delle attività nucleari, e poi dai pesticidi, e dagli agenti tossici industriali. Il movimento, che ha cercato nell’ecologia un nuovo modo di pensare, è cresciuto nel corso degli anni Sessanta, sull’onda della contestazione operaia e giovanile e della protesta contro la guerra nel Vietnam. Il 1970 fu proclamato anno europeo della conservazione della natura; il 22 aprile 1970 fu proclamato in tutto il mondo “giornata della Terra”.

La contestazione ecologica aveva una matrice borghese, come del resto era nata in ambiente borghese la protesta contro le condizioni di lavoro e lo stesso movimento socialista. In Italia il movimento di contestazione ha trovato il sostegno di gruppi di intellettuali, insegnanti, studenti, borghesi, anche se di matrice radical-socialista.

È questo il tessuto culturale in cui era nata, nella metà degli anni Cinquanta, Italia Nostra, la prima associazione per la difesa del patrimonio storico, artistico e naturale del paese. Borghese era la matrice della proposta di porre dei “limiti alla crescita”, formulata dal Club di Roma agli inizi degli anni Settanta. Questa situazione ha fatto sì che il movimento di contestazione di estrema sinistra, in Italia e altrove, abbia guardato con sospetto all’ecologia che alcuni chiamarono «la scienza delle contesse», posizione del resto ben interpretata dal celebre libro di Dario Paccino, L’imbroglio ecologico, del 1972. La tesi sostenuta era che l’ecologia era un ennesimo imbroglio architettato dal capitale per polarizzare l’attenzione verso la salvezza della “natura” dimenticando che l’«animale operaio» è esposto, ben più dei 95 uccelli, a violenza e pericolo di estinzione.

«Una critica in parte ingenerosa: l’ecologia e la contestazione ecologica avrebbero potuto offrire – e hanno anche offerto – l’occasione per riconoscere che le radici della violenza contro la natura e l’ambiente andavano cercate nella proprietà privata, nelle leggi del massimo profitto, nelle ragioni e regole della società capitalistica».

Dedicherò qualche considerazione alla tesi di Paccino, che aveva molte ragioni per diffidare, dal momento che Nixon presidente degli Stati Uniti, coinvolto nella guerra in Vietnam, si era improvvisamente convertito all’ecologismo!

 

3.2 Capitalismo e ecologia

 

Il capitalismo ha rapidamente preso le misure alla contestazione ecologica, avviando la protesta nell’alveo della propria logica. Dice Nebbia: «Volete merci ecologiche? ecco che siamo pronti a produrle; volete acque pulite? ecco che il capitalismo vi offre depuratori e inceneritori. Molti ‘ambientalisti’, soprattutto quelli del filone tecnocratico, detto ‘ambientalismo scientifico’, sono stati tutti contenti, senza rendersi conto che ogni soluzione proposta dal sistema capitalistico non solo non risolveva il problema, ma spostava l’inquinamento dai fiumi, ai fanghi immessi nel suolo; dalle discariche, alle diossine prodotte dagli inceneritori; dall’inquinamento del traffico alle montagne di rottami di automobili; dai paesi industrializzati al Sud del mondo».

Sapreste dirlo meglio?

Negli anni Settanta le prime associazioni ambientaliste borghesi hanno ridicolizzato Marx ed Engels accusandoli di essere “industrialisti”, di non aver capito l’ecologia. All’infuori di poche voci – il libro di Dario Paccino ad esempio – l’analisi marxiana della società capitalistica è stata rifiutata o accantonata. Fino ai trionfali giorni di oggi, in cui gli scritti dei padri del marxismo sono stati sepolti. Alla freddezza della sinistra e dei sindacati nei confronti dell’«ecologia», considerata un lusso borghese, alcuni, nelle frange moderate delle associazioni ambientaliste, replicarono che non c’era da meravigliarsi, dal momento che la cultura dell’ambiente e della conservazione della natura era estranea alla cultura socialista e comunista, che Marx ed Engels parlavano solo di espansione della produzione e non si sono mai occupati di ecologia. Quanto a Lenin aveva riassunto il comunismo nei soviet più l’elettrificazione! Vedremo più avanti quanto fossero strumentali le accuse al marxismo e con l’aiuto di Bevilacqua e di Immler, cercherò di aprire un fronte di estrema attualità.

In realtà, il potere politico aveva colto quali fossero i pericoli di una analisi “di sinistra” dell’ecologia, cosciente che le proposte di cambiamento avanzate dal “movimento ecologico”, avrebbero comportato mutamenti nel modo di produzione e nei modelli di consumo, avrebbero richiesto nuovi processi, nuovi depuratori, e quindi costi per le imprese, maggiori vincoli all’uso del territorio e quindi minori profitti. E finì col trovare, grazie al ricatto occupazionale, anche la solidarietà dei lavoratori: guai a dar retta agli “ecologisti”: le imprese avrebbero dovuto licenziare gli operai, ci sarebbe stata una ondata di miseria.

Il mantra capitalistico, l’occupazione avrebbe potuto essere assicurata soltanto dall’espansione della produzione e dei consumi, fu agitato ad libitum. Gli ipotetici disastri ambientali potevano stare a cuore a chi aveva già il lavoro e la pancia piena. Per agitarlo, «il potere economico ebbe il sostegno e la complicità di numerosi “scienziati”, degni nipotini di quel dottor Andrew Ure, ricordato con ironia da Marx e da Engels, che nel suo libro La filosofia delle manifatture (1835) contestava le proposte di riduzione dell’orario di lavoro dei ragazzi, dimostrando ‘scientificamente’ che i bambini che lavoravano dodici ore al giorno nelle filande stavano meglio di salute ed erano più alti di statura dei ragazzacci coetanei che ‘perdevano tempo’ a giocare e a non far nulla!».

 

3.3 Quale alternativa?

 

Sono passati tre anni da quando Giorgio Nebbia ha stilato questa storia, e sono sufficienti per rendere difficili da argomentare le sue pur sagge considerazioni nel prospettare la situazione “attuale”. Cosa diceva allora:

«Ci troviamo oggi di fronte a due possibilità: la prima consiste nell’accettare o considerare buona e comunque correggibile la società capitalistica e godere senza troppi pensieri dei suoi benefici merceologici; la seconda è cercare di analizzare che tali beni merceologici non sono beni fondamentali, ma beni il cui desiderio è indotto con arti raffinate, addirittura a livello globale.

La globalizzazione non consiste nella circolazione delle merci e del lavoro, ma nella universalizzazione dei bisogni indotti e nella moltiplicazione dell’asservimento, globale, agli stessi bisogni e alle stesse merci. La gioia con cui sono stati salutati i negozi McDonald sulla Piazza Rossa o a Pechino, in Corea o a Cuba, come a Stoccolma o a Roma, dimostra come il capitalismo svolga in maniera perfetta la sua funzione di asservimento planetario degli umani e della natura».

È vero che alla prima soluzione, ancora ampiamente accettata in Occidente, Nebbia non attribuisce valore, ma occorre dire che si è notevolmente ridotto il campo di chi possa accettarla, di fatto non è più una “ragionevole” alternativa. C’è da affrettarsi verso la seconda soluzione: occorre cominciare a pensare che questo non è il migliore dei mondi possibili. I bisogni merceologici indotti mortificano e annullano i veri bisogni umani: il bisogno di salute e di comunicare, di conoscere e di avere acqua e cibo di buona qualità; il bisogno di abitare e di lavorare; il bisogno di sicurezza sul lavoro. Molti di questi bisogni non richiedono merci o richiedono meno merci e meno beni materiali o merci e beni diversi dagli attuali; altri, come la ricerca del silenzio, della capacità di guardare il cielo, l’amore e la dignità, sono addirittura sovversivi perché non richiedono merci.

Anche se vasti settori dell’opinione pubblica, con l’implosione dell’Unione Sovietica, con l’ondata di frenesia per il libero mercato che ha invaso il mondo, considerano definitivamente sepolti Marx e Engels e la storia comunista, c’è da chiedersi se non sia il caso di rimettersi a leggere le loro opere per riscoprire dimenticate fonti di ispirazione di comportamenti per un diverso rapporto fra uomo e natura. A molti appare chiaro che non si può ridurre tutto a soldi, alle regole del profitto, che esistono altri valori, fra cui la solidarietà, la libertà, la bellezza, che non si possono esprimere con l’unità “denaro”; che le regole della “economia” portano alla distruzione di materiali, di monumenti naturali e umani, alla cui sopravvivenza è legata la stessa sopravvivenza degli esseri umani, in quanto animali speciali.

Si parla tanto, per esempio, di una società del futuro “sostenibile”, capace di soddisfare i bisogni umani dell’attuale generazione senza compromettere il diritto delle future generazioni a soddisfare in modo decente gli stessi bisogni, una società compatibile con i problemi di scarsità delle risorse naturali, della capacità dell’aria, delle acque, del suolo, di funzionare come ricettori dei crescenti rifiuti della vita umana. A parole, sembra che l’edificazione di questa società “sostenibile” sia uno degli imperativi delle azioni politiche nazionali e internazionali. Ma ad una analisi più attenta appare che una società sostenibile (secondo la definizione precedente) o a “emissioni zero” è di fatto impossibile. In una società capitalista, le regole del libero mercato, accelerano la insostenibilità, la insopportabilità degli attuali modi di produzione e di consumo da parte della natura, accelerano la violenza e l’impoverimento delle riserve delle risorse naturali e l’avvio verso conflitti per la conquista delle risorse naturali scarse. La insostenibilità è infatti figlia dell’appropriazione privata dei beni collettivi che sta alle basi del capitalismo e del libero mercato.

 

3.4 Le conclusioni di Nebbia

 

La rilettura di Marx ed Engels è particolarmente importante proprio in questo momento in cui la favola della società informatica, virtuale, biotronica, dematerializzata, sta staccando le masse dalla realtà delle cose fisiche, naturali, materiali, dalla realtà delle pietre, delle acque, delle piante e degli altri animali. Un momento in cui anche il movimento ambientalista e “verde” è travolto dalla società delle immagini, si presta a fare il consulente del principe e anche le forze più reazionarie organizzano proprie associazioni ambientaliste e dunque massima è la confusione sotto il sole. La salvezza va cercata riprendendo il gusto di leggere e studiare le pagine dimenticate, a cominciare da quelle di Marx ed Engels e Lenin.

Va cercata nel gusto di ricominciare a guardare al futuro, che necessariamente non può essere quello della pubblicità melensa e degli spot televisivi, ma quello della conoscenza, della riappropriazione critica del lavoro, di una nuova attitudine, di una austerità nei confronti dei consumi indifferenziati, proposti come unici possibili dalla propaganda. Occorre ricordare che le merci non sono neutrali. E Nebbia rammenta che nel febbraio del 1848 Marx ed Engels pubblicarono a Londra il celebre Manifesto del partito comunista, dove è vero che non si si parla di ecologia, ma si sottolinea che il capitalismo crea le condizioni per una comune rovina, ma anche per la propria distruzione. E la violenza contro la natura e l’ambiente è proprio una delle condizioni che distrugge la possibilità di moltiplicare le merci di cui il capitalismo si nutre.

In Italia, dove questi problemi sono tenuti accuratamente sotto controllo, con la droga della pubblicità e della banalità, può essere utile che almeno alcuni, delle giovani generazioni, ricomincino a leggere i classici del marxismo, si informino sugli studi marxiani che fortunatamente, continuano, anzi stanno risorgendo, nel mondo. Così come due secoli fa l’illuminazione a gas, figlia del capitalismo, offrì la luce nelle stanze in cui i proletari potevano riunirsi a discutere e leggere, oggi uno strumento come Internet, figlio supremo della tecnica capitalistica, offre gli strumenti per la liberazione dal buio in cui si è costretti dalla borghesia capitalistica e per unirsi, con modesta spesa, a tanti altri che nel mondo analizzano le radici della crisi e cercano le strade per uscirne.

Vorrei aggiungere una considerazione che solo indirettamente ha a che fare con l’ecologia. Si parla tanto di moltiplicazione della criminalità, cioè delle azioni che assicurano denaro violando la legge. Ma in una società in cui l’unico dio è il denaro, i mezzi criminali rappresentano la strada più semplice e meno faticosa per procurarselo. Nel momento in cui il valore delle persone non fosse più misurato sulla base del possesso delle merci, in cui cessasse la pubblicità che costringe, soprattutto le classi più fragili, a sognare il possesso del denaro e delle merci, in una tale società le motivazioni della criminalità sarebbero grandemente ridotte. I problemi dell’ecologia mostrano che, contrariamente a quanto sosteneva de Mandeville (1670-1733) nella Favola delle api, i “vizi privati” dell’egoismo non generano il progresso e i “pubblici benefici”, ma le condizioni per una pubblica, continua e crescente catastrofe.

Una sola, piccola ma assai ferma considerazione sulle conclusioni di Nebbia. Ovviamente Internet è uno strumento potentissimo, ma lo credo più capace di favorire la distruzione delle comunità che non ad agevolarne la ricostruzione. Il mondo virtuale tende a prendere il sopravvento sul mondo reale. Guai a rinunciare a guardare negli occhi i nostri sodali!

 

4. Il mito del progresso e della modernità

 

Ci avviamo verso le conclusioni, che saranno precedute da una quarta parte relativa alla deludente “storia” delle attività delle istituzioni internazionali con riferimento all’ambiente a partire da Stoccolma (1972) fino a Marrakesh (2016). Ma, penso di dover ancora dire qualcosa contro il mito del progresso e quello della modernità, entrambi legati alla nascita della dea Ragione. Com’è consuetudine, mi farò aiutare da chi ne sa più di me. Il bersaglio da colpire resta prevalentemente la “scienza” economica anche se il pensiero ossificato dell’Illuminismo sarà più volte sottoposto a critica.

 

4.1 Il paradiso in terra

 

Nella prefazione al suo libro del 1991, che ha per titolo il nome del paragrafo e come sottotitolo “Il progresso e la sua critica”, Christopher Larsch esordisce così:

«Questa indagine ha preso l’avvio da un interrogativo solo apparentemente semplice. Come può accadere che delle persone serie continuino a credere nel progresso, malgrado le importanti confutazioni che parevano aver liquidato una volta per tutte la validità di questa idea? Il tentativo di spiegare questa anomalia – il persistere della fede nel progresso in un secolo pieno di calamità – mi ha riportato indietro al diciottesimo secolo, quando i fondatori del moderno liberalismo cominciarono a sostenere che i bisogni umani, essendo insaziabili, richiedevano un’espansione indefinita delle forze produttive necessarie per soddisfarli. Il desiderio insaziabile, precedentemente condannato come fonte di frustrazione, infelicità e instabilità spirituale, veniva ora visto come un potente stimolo allo sviluppo economico. Invece di condannare la tendenza a volere di più di quello che ci serve, i liberali come Adam Smith argomentarono che i bisogni variavano da una società all’altra, che agli uomini e alle donne civilizzati occorreva di più di quello che bastava ai selvaggi per star bene, e che una continua ridefinizione degli standard di benessere e di agio avrebbe portato a miglioramenti nella produzione e a un generale aumento della ricchezza. Non sembrava prevedibile che il processo di trasformazione dei lussi in necessità potesse aver fine. Quanto più la gente godeva di agi, tanto più ne avrebbe pretesi. L’elasticità della domanda sembrava fornire solide basi all’idea angloamericana di progresso, basi che gli eventi successivi, fra cui le due guerre mondiali, non riuscirono a scuotere. Quelle guerre, anzi, diedero allo sviluppo economico un rinnovato vigore».

Forse potrebbe bastare, ma vale la pena di dare più spazio a questo filosofo americano, autore anche di un altro straordinario libro sul narcisismo. Ai lettori ricordo che il testo di Larsch è stato scritto all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.

«La nostra visione del passato e del futuro è caratterizzata dalla convinzione che il nostro standard di vita (nel significato più ampio del termine) sia destinato a un costante miglioramento, da cui trae origine una struggente nostalgia per la semplicità passata – che è l’altra faccia dell’ideologia del progresso. La nostalgia, che non deve essere ridotta al semplice ricordo delle cose passate, può essere meglio definita come un’abdicazione della memoria. Come dice David Lowenthal, fa del passato un paese straniero e confonde le connessioni fra passato e presente. Profondamente radicato nella cultura popolare come nella sociologia accademica, l’atteggiamento nostalgico tende a sostituire l’analisi storica con le tipologie astratte – società “tradizionale” e “moderna”, Gemeinschaft e Gesellschaft – che interferiscono sia con una ricostruzione intelligente del nostro passato che con una valutazione equilibrata delle nostre prospettive future. Adesso che abbiamo cominciato a renderci conto dei limiti ambientali della crescita economica, dobbiamo sottoporre l’idea di progresso a una critica rigorosa: ma una visione nostalgica del passato non fornisce i materiali per questa critica. Ci dà solo un’immagine riflessa del progresso, una visione unidimensionale della storia, in cui gli unici punti di riferimento sono un pessimismo malinconico e una sorta di ottimismo fatalistico, una critica del progresso che trae origine dal contrasto fra le complesse società moderne e le comunità compatte che consideriamo tipiche del “mondo che abbiamo perduto”, come lo chiama Peter Lailett nel suo studio dell’Inghilterra del diciassettesimo secolo.

L’idea di progresso e il contrappunto comunitario che l’accompagna incoraggiano un tipo di speculazione che cerca di equilibrare i vantaggi del progresso con i suoi svantaggi e rimane comprensibilmente ambivalente riguardo all’intera faccenda. È necessario un punto di vista che tagli corto con questo dibattito inconcludente, ponendo in discussione le categorie dominanti e mettendoci in grado di capire la differenza tra nostalgia e memoria, ottimismo e speranza.

[…] La mia analisi del populismo o della democrazia proprietaria del diciannovesimo secolo – intesa in senso lato come un corpo di pensiero sociale che condannava la brama sconfinata di beni in sempre maggiori quantità e di qualità sempre migliori e diffidava dei ‘miglioramenti’ se davano origine solo a una divisione del lavoro sempre più elaborata – si basa sull’opera di J .G.A. Pocock, di Gordon Wood e di altri storici appartenenti alla tradizione repubblicana. La mia tesi, tuttavia, è che il concetto di virtù, che, nel diciannovesimo secolo, svolse una parte così importante nella critica al “miglioramento”, non derivasse esclusivamente da fonti repubblicane. Gli studi recenti, in buona parte ispirati dalla speranza di far rinascere un senso del dovere civico e di contrastare l’individualismo avido promosso dal liberalismo, non hanno preso in considerazione il più vigoroso concetto di virtù che venne formulato in certe varietà di protestantesimo radicale. Per un puritano come John Milton, la parola “virtù” si riferiva non al servizio disinteressato del bene pubblico, ma al coraggio, alla vitalità e alla forza vivificante che emana, in ultima analisi, dal creatore dell’universo. Milton associava la virtù sia con i doni conferiti da Dio all’umanità, sia con la gratitudine di chi intende la vita come un dono, e non come una sfida alla nostra capacità di plasmarla a nostro piacimento. Analogamente, Jonathan Edwards pensava che la gratitudine implicasse il riconoscere la dipendenza dell’uomo da un potere superiore. Per Edwards l’ingratitudine – il rifiuto di ammettere dei limiti ai poteri umani, il desiderio di conseguire conoscenza e capacità divine – divenne l’antitesi della virtù e l’essenza del peccato originale.

Nel diciannovesimo secolo, un’epoca in cui il progresso dell’ingegnosità umana sembrava promettere una vittoria decisiva sul fato, Thomas Carlyle e Ralph Waldo Emerson, moderni calvinisti senza una teologia calvinista, ricordavano ai loro lettori che gli esseri umani non sono padroni del proprio destino. Sostenevano, infatti, che il fato può essere vinto solo con la “meraviglia” e la virtù – con l’accettazione grata di un mondo che non è fatto soltanto per il piacere umano. La loro insistenza sui limiti dell’uomo, a mio avviso, aveva molto in comune con la critica populista del “miglioramento”, pur essendo espressa in un linguaggio filosofico piuttosto che politico. Il principio di “compensazione” di Emerson può essere inteso come un’esplorazione delle implicazioni morali dell’“incremento congiunturale”. Sfidare il fato, nella mente di Emerson, equivaleva a una forma di evasione fiscale, al tentativo di ottenere qualcosa per niente – di sottrarsi all’imposta sul desiderio. Gli economisti politici del progresso speravano di liberare il desiderio creatore di ricchezza; Emerson e Carlyle riaffermarono l’antica saggezza popolare secondo cui un desiderio arrogante sollecita il giusto castigo, la forza correttrice e compensatrice della nemesi.

[…] All’inizio del ventesimo secolo, ormai, molti altri erano ossessionati dai timori espressi così chiaramente da Carlyle, Emerson e James a proposito del progresso. Così George Sorel, che riconosceva il suo debito intellettuale nei confronti di James, concepiva il sindacalismo non solo come l’equivalente morale di una forma precedente di proprietà, ma come l’unica forma di azione politica che potesse sostenere una concezione eroica della vita.

Il tipo di opposizione all’ideologia progressista che ho cercato di recuperare e di distinguere dal più familiare rammarico per il declino della “comunità” era caratterizzato da un certo numero di temi ricorrenti. La consuetudine alla responsabilità associata con il fatto di possedere dei beni; la dimenticanza di sé che deriva dall’immergersi in un lavoro che assorbe tutta l’attenzione; il pericolo che le comodità materiali estinguano un ideale più esigente della buona vita; il far dipendere la felicità dalla consapevolezza che gli esseri umani non sono nati per essere felici – queste preoccupazioni, separatamente o in varie combinazioni, riapparvero nella versione di Sorel del sindacalismo, nel socialismo corporativo propugnato da G.D.H. Cole e da altri, nella “filosofia della lealtà” di Josiah Royce, nella versione di Reinhold Niebuhr e nella “disciplina spirituale contro il risentimento” e nella pratica della resistenza non violenta di Martin Luther King. Quello che questi pensatori avevano in comune gli uni con gli altri e con i loro predecessori era un senso dei limiti – che è il filo conduttore della narrazione che segue. Un’esplorazione dell’idea dei limiti, in varie guise, ci consente di ricostruire non tanto una tradizione intellettuale quanto una sensibilità che, pur andando contro le correnti dominanti della vita moderna, esercita ancor oggi una forza considerevole.

Il modo più semplice per descriverla è forse chiamarla la sensibilità della piccola borghesia – difficile da riconoscere in quanto tale, nei pensatori maggiori, solo perché ci aspettiamo che anch’essi condividano il rifiuto generale dello stile di vita, piccolo-borghese. Questi particolari pensatori, a mio avviso, rappresentarono la coscienza degli strati inferiori dei ceti medi, dando voce alle loro caratteristiche preoccupazioni e criticando i loro vizi tipici – invidia, risentimento e servilismo. Malgrado questi vizi, il conservatorismo morale della piccola borghesia, il suo egualitarismo, il suo rispetto per il lavoro, il valore che attribuiva alla lealtà e la sua lotta contro la tentazione morale del risentimento sono i materiali su cui i critici del progresso hanno sempre dovuto basarsi se volevano mettere insieme una sfida coerente all’ortodossia dominante. Non ho intenzione di minimizzare la meschinità e il provincialismo della cultura piccolo-borghese; né intendo negare che abbia prodotto il razzismo, lo sciovinismo, l’anti-intellettualismo e tutti gli altri mali così spesso citati dai critici liberali. Ma, nell’ansia di condannare quanto vi è di reprensibile nella cultura piccolo-borghese, i liberali hanno perso di vista quanto vi è di valido. […] Qualunque cosa si possa dire contro di loro, è però improbabile che i piccoli proprietari, gli artigiani, i commercianti e gli agricoltori – più spesso vittime del ‘miglioramento’ che non beneficiari – prendano la terra promessa del progresso per il paradiso in terra».

Nelle pagine conclusive dell’opera, il paragrafo “Il populismo contro il progresso”, Larsch così si esprime:

«Gli stessi sviluppi che impediscono a chi crede nel progresso di parlare con fiducia e con autorità morale, ci spingono a prestare maggior attenzione a chi al progresso si è sempre opposto. Se le ideologie progressiste si sono ridotte alla malinconica, disperata speranza che tutto, in qualche modo, si aggiusterà, dobbiamo recuperare una forma più vigorosa di speranza, che ci permetta di credere nella vita senza negare il suo carattere tragico e senza cercare di spiegare la sua tragicità come una forma di “ritardo culturale”. Forse possiamo apprezzare pienamente questo tipo di speranza soltanto oggi, quando l’altro tipo, meglio noto come “ottimismo”, s’è rivelato una forma elaborata di pio desiderio. L’ottimismo progressista si basa, in definitiva, sulla negazione dei limiti che la natura pone al potere e alla libertà dell’uomo, e non può sopravvivere a lungo in un mondo in cui è ormai impossibile sfuggire alla consapevolezza di quei limiti. Invece, quella disposizione di spirito propriamente definita come speranza, fiducia o meraviglia – tre nomi per lo stesso atteggiamento della mente e del cuore – afferma la bontà della vita di fronte ai suoi limiti. Non può essere abbattuta dalle avversità. Nell’epoca tormentata che ci attende, ne avremo bisogno più ancora di quanto ne abbiamo avuto in passato.

Limite e speranza: queste parole assommano le due linee di argomentazione che ho cercato di svolgere congiuntamente. Una è quella che cerca di distinguere tra speranza e ottimismo, e di analizzare le implicazioni di questa distinzione. L’altra studia alcune delle manifestazioni politiche e ideologiche del senso del limite. È la loro comune accettazione dell’esistenza di un limite che ci ha permesso di prendere in considerazione una tale varietà di movimenti politici e scuole di pensiero e di ricondurla, in parte, alla stessa tradizione, o almeno alla stessa sensibilità. Questa sensibilità – che in mancanza di un termine migliore possiamo continuare a chiamare populista, o piccolo-borghese – è definita, in primo luogo, da una profonda diffidenza per lo schema della storia in quanto progresso. L’idea che la storia, come la scienza, rappresenti il dispiegarsi per accumulazione delle capacita umane e che la civiltà moderna sia l’erede di tutte le conquiste del passato, va contro il senso comune, cioè a quell’esperienza di fallimento e sconfitta ineliminabile dalla vita di tutti i giorni. “Non ci sono calamità nella storia?” chiedeva Orestes Brownson. “Non c’è nulla di tragico?” Brownson e gli altri oppositori del ‘miglioramento’ avevano trovato ben poche prove di illuminazione cumulativa. Concetti ufficialmente screditati come quelli di fato, nemesi, provvidenza e fortuna, a loro avviso, parlavano all’esperienza umana più direttamente di quello di progresso. La loro sensibilità politica, inoltre, era dettata da una valutazione delle aspirazioni economiche appropriate agli esseri umani più modesta di quella del progressismo. Coloro che credevano nel progresso ammiravano il trionfo della tecnologia sulla scarsità e il controllo collettivo sulla natura che la struttura produttiva della società moderna sembrava garantire.

L’abbondanza, dal loro punto di vista, presto o tardi avrebbe dato a tutti accesso al benessere, alla cultura, alla raffinatezza, a quei vantaggi che un tempo erano riservati ai ricchi. Per i populisti, invece, quello che chiamavano competence, come a dire un mezzo di sussistenza – un pezzo di terra, una piccola bottega, una professione utile – rappresentava un’ambizione molto più degna. Competence era un termine dalla ricca connotazione morale: si riferiva alle possibilità di sostentamento offerte dalla proprietà, ma anche alle abilità necessarie per sostenerla. L’ideale della proprietà universale esprimeva un sistema di aspettative più modesto di quello del consumo universale, dell’accesso universale a una disponibilità illimitata di beni. Allo stesso tempo, però, faceva propria una definizione più impegnata e moralmente più nobile della vita. La concezione progressista della storia sottintendeva una società di raffinatissimi consumatori; quella populista, un mondo di eroi.

Da un punto di vista progressista, l’ideale di una società di piccoli produttori era ristretto, provinciale e reazionario. Recava in sé tutte le stigmate delle sue origini piccolo-borghesi: rappresentava il rifiuto di guardare in faccia il futuro. Il disprezzo per l’arretratezza, la rispettabilità e gli scrupoli religiosi della piccola borghesia erano diventati il marchio della mentalità progressista. Certo, la caricatura illuminista della cultura della classe medio-bassa conteneva degli elementi di verità innegabili: altrimenti non sarebbe neanche stata riconoscibile come caricatura. Con l’andar del tempo, man mano che le grandi imprese toglievano spazio ai piccoli produttori, i movimenti piccolo-borghesi hanno assunto un carattere sempre più difensivo, e hanno fatto proprie le peggiori tendenze della vita moderna: l’antintellettualismo, la xenofobia, il razzismo. Ma la stessa tradizione di radicalismo plebeo ha anche prodotto l’unico tentativo serio di risolvere il grande problema politico del ventesimo secolo: che cosa può sostituire la proprietà come fondamento materiale della virtù civica? Ha anche dato origine al tentativo più notevole di organizzare una forma d’azione politica capace di tener sotto controllo il risentimento, e rompere così il ‘circolo vizioso senza fine’ di coercizione e ingiustizia di cui parlava Reinhold Niebuhr. Proprio perché le classi inferiori si sono lasciate spesso tentare da una politica d’invidia e di risentimento, capiscono l’importanza di una ‘disciplina spirituale’ contro questi atteggiamenti. La tradizione progressista, invece, non ha neanche intuito il problema della proprietà e della virtù, per non dire della domanda posta da Niebuhr già nel 1932: “Se la coesione sociale è impossibile senza coercizione, e la coercizione è impossibile senza la creazione di ingiustizia sociale, e la distruzione dell’ingiustizia è impossibile a sua volta senza l’uso di una coercizione ulteriore, il conflitto sociale non rappresenta forse un circolo vizioso?”.

L’esaurimento della tradizione progressista – e questa tradizione, nel suo senso più ampio, comprende tanto la sinistra quanto la destra reaganiana, che non è affatto immune dall’idea di espansione economica illimitata – si rivela soprattutto nella sua incapacità di affrontare questi problemi fondamentali della politica moderna, o quello, altrettanto fondamentale, di come estendere ai poveri il livello di vita dei ricchi su scala globale senza sottoporre le risorse economiche della terra a uno sforzo insopportabile. La necessità di una distribuzione più equa della ricchezza dovrebbe essere ovvia, tanto da un punto di vista economico quanto da uno morale, e dovrebbe essere altrettanto ovvio che l’uguaglianza economica non è compatibile con il nostro sistema avanzato di produzione capitalistica. Quello che non è così ovvio è che l’uguaglianza implica un livello di vita più modesto per tutti, non l’estensione al resto del mondo della condizione degli strati privilegiati della popolazione dei paesi industriali. Nel ventunesimo secolo, l’uguaglianza implicherà un riconoscimento dei propri limiti, morali e materiali, affatto estraneo alla tradizione del progressismo.

La tradizione populista non offre una panacea a tutti i mali che affliggono il mondo moderno. Pone le domande giuste, ma non ha le risposte già pronte. Non ha prodotto molto in termini di teoria economica e politica, il che rappresenta la sua debolezza maggiore. I suoi fautori propugnano la produzione su piccola scala e la decentralizzazione politica, ma non spiegano come questi obiettivi si possano realizzare in un sistema economico moderno. Mancando di una teoria della produzione ben definita, i populisti hanno sempre avuto la tendenza a credere nella valuta cartacea o nei toccasana più vari, come in politica tendono a farsi intrappolare dal risentimento sociale così efficacemente sfruttato dalla nuova destra. Ma un populismo adatto al ventunesimo secolo avrebbe ben poco in comune con la nuova destra, e, quanto a questo, con i movimenti populisti del passato. In compenso, troverebbe gran parte della sua ispirazione morale nel radicalismo popolare del passato e, più in generale, in quella varietà di critiche del progresso, dell’Illuminismo e dell’ambizione illimitata portata avanti da quei moralisti la cui sensibilità è stata orientata dalla concezione del mondo dei produttori. Il problema del “guadagno non meritato” ha dato vita a una ben precisa tradizione politica e a una tradizione ben precisa di speculazione morale fondata sull’esperienza della vita di tutti i giorni (oltre che sull’esperienza più alta del fervore spirituale): non sembra probabile che entrambe passino di moda».

 

4.1.1 Cosmopolitismo e Illuminismo

 

Propongo di seguito due paragrafi del libro in questione che costituiscono materia di discussione sulla svolta nel pensiero europeo con l’avvento dell’industrializzazione.

«Nel diciottesimo secolo, una generazione di uomini e donne illuminati accettò il nuovo ordine – reprimendo i propri dubbi sulla bontà dell’impulso ad accumulare e sulla probabilità che esso avrebbe distrutto le virtù della forza d’animo e del sacrificio di sé – in base alla considerazione che l’abbondanza economica avrebbe permesso al genere umano d’essere padrone del proprio destino e avrebbe rotto la vecchia spirale dello sviluppo e della decadenza, cui, in precedenza, nessun paese era riuscito a sottrarsi. Essi avevano anche altre ragioni per celebrare lo sviluppo del commercio. Se i commercianti erano “la razza di uomini più utile dell’intera società”, come li definì Hume, era perché le loro attività rompevano “la gretta malignità e l’invidia tra le nazioni, che non permettono mai di veder prosperare i propri vicini, ma sempre ci spingono a lamentarci a ogni nuovo sforzo verso l’industrializzazione compiuto da un altro paese”. Il commercio internazionale avrebbe promosso la pace internazionale, se appena si fosse capito che tutte le nazioni ne avrebbero condiviso i frutti. L’abbondanza avrebbe annullato quella che è la prima legge della vita sociale in un regime di povertà, il principio per cui gli individui o le nazioni prosperano soltanto a spese dei propri vicini. “Le nazioni ignoranti”, diceva il Bentham, “si trattavano vicendevolmente come rivali, in quanto ritenevano che avrebbero potuto crescere soltanto sulle rovine l’una dell’altra”. Fortunatamente, aggiungeva, l’opera di Adam Smith aveva chiarito che “il commercio è ugualmente vantaggioso per tutte le nazioni, perché tutte ne traggono profitto in modo differente, in linea con le proprie naturali possibilità”. La ricchezza delle nazioni aveva dimostrato che “le nazioni sono alleate, non rivali, nella grande impresa sociale”.

Gli argomenti di Smith a favore del libero mercato rappresentavano un’applicazione particolare del principio generale per cui “gli interessi degli uomini” come diceva Bentham, “coincidono sotto molti più aspetti di quanto non siano opposti l’un l’altro”. Non appena gli uomini avessero compreso questo principio in tutte le sue applicazioni, avrebbero cominciato ad agire di conseguenza, lasciando da parte la loro naturale tendenza alla gelosia e al sospetto. “Più saremo illuminati, più saremo benevolenti”.

La speranza che “l’interesse del genere umano” avrebbe prevalso sullo “spirito della rivalità e dell’ambizione, comune un tempo fra le nazioni”, per citare le parole di Richard Price, sembrava fondarsi ormai su fatti solidi, non solo su un pio desiderio. Soltanto una politica economica non illuminata, e gli effetti residui del pregiudizio popolare, ostacolavano la via della comprensione internazionale. “Se al commercio fosse permesso d’agire in tutta l’estensione che è in grado di abbracciare”, affermava Tom Paine ne I diritti dell’uomo, “esso estirperà il sistema della guerra, e produrrà una rivoluzione nella condizione incivile dei governi”. I filosofi del diciottesimo secolo andavano orgogliosi della propria superiorità rispetto al meschino patriottismo che era stato causa di tante ostilità tra le nazioni. “Lo troverai più forte e più violento, ove più basso è il livello di cultura”, diceva Goethe. Lessing riteneva che il patriottismo fosse il “pregiudizio del popolo”. Si cita ancor oggi il punto di vista di Samuel Johnson, per cui il patriottismo è “l’ultimo rifugio dei bricconi”, ma la stessa concezione è stata espressa, anche se in forma meno sintetica, da tutti coloro i cui scritti hanno fatto del diciottesimo secolo l’“Età della Ragione” per eccellenza. Hume affermava che “le persone volgari sono portate a spingere all’estremo i caratteri nazionali: e una volta stabilito come principio che la maggior parte dei cittadini di un dato paese sono disonesti, vili o ignoranti, non ammetteranno alcuna eccezione, ma applicheranno a ogni individuo le stesse critiche”.

La pretesa che il commercio potesse distruggere le abitudini mentali più meschine, costituì l’argomento più importante in suo favore. Nel diciottesimo secolo, gli esponenti del nuovo ordine non sostenevano, come tendono a fare i liberali di oggi, che gli incentivi economici sono abbastanza forti per incoraggiare gli uomini e le donne a mettere da parte i pregiudizi etnici, razziali e religiosi solo nelle ore di ufficio, mentre possono indulgervi nell’inoffensiva intimità della propria casa e del proprio club. L’esperienza del ventesimo secolo ha reso evidente a tutti quanto sia tenace la solidarietà nazionale ed etnica, anche se è esposta al solvente delle moderne megalopoli. Il diciottesimo secolo credeva, al contrario, che il commercio avrebbe distrutto il particolarismo e promosso una prospettiva cosmopolita. “Nelle Borse valori di Amsterdam, Londra, Surat o Bassora” scriveva Voltaire, “lo zoroastriano, l’ebreo, il maomettano, il deista cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il protestante, il quacchero commerciano insieme: non sollevano il pugnale l’uno contro l’altro per conquistare anime alla propria religione”. Addison espresse il concetto anche più vigorosamente descrivendo una visita alla Borsa: “A volte mi trovo in un gruppo di americani, a volte mi perdo tra una folla di ebrei, a volte in un gruppo di tedeschi. Sono, a seconda del momento, danese, svedese o francese, o piuttosto mi sento come l’antico filosofo, il quale, alla domanda di quale paese fosse, rispose di essere un cittadino del mondo”.

Ora, nel ventesimo secolo, la nostra esperienza degli antagonismi imperialistici, della competizione internazionale per la conquista del mercato, e delle guerre globali, ci rende piuttosto difficile condividere la convinzione illuminista che il capitalismo possa promuovere la pace mondiale. L’ideale cosmopolita dell’Illuminismo, anche se resta un ingrediente fondamentale del liberalismo moderno, ci colpisce soprattutto per la sua arroganza, per il disprezzo che ostenta verso le masse non illuminate, e, allo stesso tempo, per la sua ingenuità. Inoltre la “benevolenza” – quell’amore per l’umanità che avrebbe dovuto imporsi con il superamento dei pregiudizi nazionali – ci appare come una forma di bontà piuttosto debole, fondata più sull’indifferenza che sulla dedizione. Possiamo apprezzare l’atteggiamento derisorio di Rousseau nei confronti di “quei pretesi cosmopoliti che nel giustificare l’amore per il genere umano, si vantano di amare tutto il mondo per godere del privilegio di non amare nessuno”. D’altra parte, l’umanitarismo auto-gratificante di Paine, – “il mio paese è il mondo, mia religione è il fare del bene al genere umano” – ci lascia un po’ freddi.

È importante ricordare, tuttavia, che il cosmopolitismo e la “benevolenza” nel diciottesimo secolo si proponevano come alternativa al feroce particolarismo di duecento anni di guerre di religione. La tolleranza religiosa, se può aver avuto tra le sue conseguenze quella di una crescente indifferenza per la religione, offriva tuttavia una speranza di pace. Visto che il patriottismo si accompagnava così spesso al fanatismo religioso, non c’è da stupirsi se i filosofi, allora, preferissero pensare a se stessi come a cittadini della “cosmopoli”, della “città mondiale”, o sostenere, come diceva Diderot, di non essere “in nessun luogo del mondo stranieri”. Il consiglio di Pierre Bayle agli storici, “sacrificare il risentimento per le ingiurie, il ricordo dei favori ricevuti, persino l’amore per il proprio paese nell’’interesse della verità” – è comprensibile solo nel contesto di un aspro dissidio religioso, nel quale le opposte concezioni storiche del passato, ognuna delle quali pretendeva di mostrare la mano di Dio negli eventi storici, servivano come strumento di propaganda nella lotta tra il protestantesimo e Roma. Noi potremmo obiettare che l’immagine dello storico che Bayle ci propone, quella di un uomo “senza padre, senza madre, senza genealogia”, sembra mettere la storia al servizio più dell’oblio che del ricordo, specialmente quando si accompagna all’appello a “dimenticare che apparteniamo a un paese, siamo stati educati in una particolare fede, dobbiamo la propria fortuna a questo o a quello, questi sono nostri parenti, questi altri nostri amici”. Dimenticare, comunque, significa anche perdonare: dal momento che la memoria delle offese recenti mantiene vive le inimicizie che altrimenti potrebbero esser lasciate morire, anche questa curiosa esortazione a costituire una scuola di storici afflitti da amnesia ha un suo significato».

 

4.1.2 La critica illuministica del particolarismo

 

«Dal momento che il ricordo dei tempi passati ha evidentemente contribuito più a dividere i popoli che a unirli, non c’è da stupirsi se i filosofi cosmopoliti facevano così scarso uso di discipline considerate in passato particolarmente prestigiose, come la giurisprudenza e la teologia, due attività notoriamente propense ai cavilli, che danno spesso luogo a baruffe inconcludenti sui precedenti, le interpretazioni dei documenti storici, e il significato del passato. L’Illuminismo sperava di riuscire a fondare la teoria etica e politica, non su una qualche comprensione storica degli eventi, ma sul metodo della scienza, che prometteva di fondarsi su principi assiomatici indubitabili e di permettere ai filosofi di distinguere, senza rischio di fallire, il bene dal male, la verità dall’opinione. A cominciare da Cartesio i filosofi si proponevano un nuovo compito: quello di analizzare ed esplicitare le procedure che governano il pensiero chiaro e distinto. Una volta che l’analisi critica avesse ridotto i fenomeni alle loro componenti più semplici, credevano, si sarebbero potute ricomporre queste unità elementari in forma di leggi dotate di validità universale.

Una fantasia molto caratteristica e rivelatrice, associata a questa nuova concezione della conoscenza, era quella per cui anche il linguaggio poteva essere riformulato sul modello della matematica, un progetto che, secondo Cartesio, avrebbe gettato le basi per una lingua universale. Le connessioni storiche che si ritrovano nel linguaggio e che i giuristi, i teologi, i grammatici e i retori hanno cercato di districare e di decifrare, ai nuovi filosofi apparivano una fonte di contaminazione. Il linguaggio ordinario, per loro, era la manifestazione concreta dei pregiudizi culturali contro cui la ragione combatteva per liberare se stessa.

“Quasi tutte le nostre parole”, si rammarica Cartesio, hanno un significato confuso, e le menti umane vi sono così abituate che difficilmente si trova qualcosa che possa essere perfettamente compreso”. La conoscenza, per Cartesio, è costituita da proposizioni incontrovertibili, che si possono raggiungere solo eliminando le emozioni e gli interessi che fanno parte integrante del linguaggio ordinario. Era necessario inventare un nuovo linguaggio di simboli semplici e chiari, ognuno dotato di un proprio unico e univoco significato, o meglio ancora tradurre l’intera esperienza in forme numeriche. “Nella nostra ricerca della via che conduce direttamente alla verità”, diceva Cartesio, “non dovremmo occuparci di alcun oggetto per il quale siamo incapaci di ottenere una certezza uguale a quella delle dimostrazioni aritmetiche e geometriche”. L’idea di una lingua universale fu sostenuta anche da Leibniz, da Voltaire, da d’Alembert, da Condorcet e da Benjamin Franklin, che in particolare richiamò l’attenzione su un alfabeto universale ideato da John Wilkins, segretario della Royal Society, un alfabeto che “potrebbe essere appreso in un decimo del tempo necessario ad apprendere quello latino”.

L’equazione tra verità e princìpi assiomatici e universalmente applicabili può condurre allo scetticismo come alla certezza. Hume rileva che le procedure scientifiche non potrebbero mai rispondere alle domande riguardanti “il fine dell’uomo” e ne conclude che a tali domande non è possibile dare una risposta valida, dal momento che esse producono soltanto pensieri “gradevoli, incerti e non filosofici”. Come Cartesio, anch’egli cerca di fondare la filosofia su princìpi intellettuali certi e inattaccabili dal dubbio, “princìpi permanenti, necessari e universali”. Questi principi, che possono essere derivati soltanto dall’ambito delle scienze naturali, rappresentano il “fondamento dei nostri pensieri e delle nostre azioni”, senza cui “la natura umana immediatamente perirebbe e andrebbe in rovina”. Tutto il resto, secondo Hume, è “mutevole, debole e privo di regolarità”.

Proposte di religione universale, concepita nello stesso spirito della lingua universale, furono portate avanti da quanti trovavano lo scetticismo di Hume ripugnante, se non per sé stessi, almeno per la massa della gente comune, che presumibilmente aveva bisogno di consolazione e di norme morali stabili e sicure. Un certo numero di intellettuali del diciottesimo secolo pensava che la religione, come il linguaggio, avrebbe potuto fondarsi su princìpi scientifici che fossero, come affermava Helvétius, “eterni e immutabili, tratti dalla natura dell’uomo e delle cose, e, come le proposizioni della geometria, rigorosamente dimostrabili”.

La ricerca kantiana di una morale universale, che rappresenta una versione meno pretenziosa dello stesso progetto, si fondava parimenti sull’assunto per cui l’incontrovertibilità rappresenta la sola prova possibile dell’utilizzabilità sociale delle dottrine. Ma Kant, certamente, non avrebbe sottoscritto la convinzione che informava il lavoro di pensatori utilitaristici come Helvétius e Bentham, per cui “la morale dovrebbe essere trattata come tutte le altre scienze” – sono parole di Helvétius – “e fondata sull’esperienza, come la filosofia naturale”.

Nell’istituire l’universalità come condizione essenziale degli imperativi etici, egli non separa per questo la moralità dal proprio contesto sociale, come faceva Cartesio quando distingueva la comunicazione dal parlare comune. Il dovere morale non si riferisce alle prescrizioni di una funzione o di un ruolo sociale specifico, ma all’imperativo categorico di non seguire alcune regola che non potrebbe essere considerata come una regola generale per tutti.

Concepita in parte come risposta allo scetticismo morale ed epistemologico di Hume, la filosofia morale di Kant, pur nella sua minuziosa elaborazione, resta stranamente silenziosa sulla natura della vita virtuosa o sui fini ultimi propri dell’uomo. Kant accettava l’opinione di Hume per cui queste “domande astruse” erano oggetti impropri della ricerca filosofica. “Qual è il fine dell’uomo? L’uomo è stato creato per la felicita? O per la virtù? Per questa vita o per quella futura? Per se stesso o per il suo creatore?”. Secondo Hume, questi argomenti rimangono “inaccessibili alla comprensione” e Kant, nonostante tutti i suoi sforzi di fondare la moralità su principi certi, non ha molto più da dire in merito. Come altri filosofi dell’Illuminismo, preferiva lasciare la risposta al giudizio individuale, in base all’assunto che l’individuo è il miglior curatore dei propri interessi e comunque ogni tentativo di fornire a una particolare visione della vita virtuosa un qualche tipo di sanzione sociale può dare origine soltanto ad aspre controversie di cui il mondo può fare benissimo a meno. Il contributo principale dell’ontologia alla vita pubblica, dopotutto, è quello di trasformare ogni piccola scaramuccia in una guerra totale contro l’eresia. I politici sono “vergognosamente corrotti” dalle “idee sovrannaturali”, come spiegava d’Holbach. Dal momento che nella natura stessa delle dispute sui fini ultimi è insita l’impossibilità di giungere a una soluzione, esse non possono che dividere il genere umano in comunità reciprocamente ostili, ognuna con i suoi dogmi, i suoi dialetti, il suo radicato sospetto verso gli estranei.

 

4.2 Il vicolo cieco dell’economia

 

Il saggio di Jean-Claude Michéa, che dà nome al paragrafo, mette in correlazione sinistra e capitalismo per porsi poi la domanda che nel 1936, alla conclusione della sua inchiesta tra gli operai di Wigan Pier, George Orwell poneva in questi termini: «Il fatto è che il socialismo perde terreno proprio dove dovrebbe guadagnarlo. Con tanti argomenti a suo favore – perché ogni pancia vuota è un argomento a favore del socialismo – la sua idea è meno largamente accettata di quanto non lo fosse dieci anni fa. Oggi l’uomo medio che pensa non solo non è socialista, ma è attivamente ostile al socialismo. Ciò è soprattutto dovuto a una propaganda sbagliata: il socialismo, nella versione che proponiamo oggi, ha qualche cosa di intrinsecamente sgradevole».

Per poi riassumere, è sempre Orwell a parlare, così i principi di quella “propaganda sbagliata”:

«Le persone che sono ormai più disposte ad accettare il socialismo sono del tipo che considera con entusiasmo il progresso meccanico in quanto tale. E ciò è talmente vero che i socialisti sono in genere incapaci di capire che esiste anche un’opinione opposta. In genere l’argomento più convincente che viene loro in mente consiste nel dirvi che l’attuale meccanizzazione del mondo non è niente in confronto a quella che ci prepara il socialismo. La dove oggi c’è un aereo, ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che oggi è svolto manualmente sarà allora fatto da macchine. Tutto quello che oggi è di cuoio, di legno o di pietra sarà di plastica, di vetro o di acciaio. Non ci saranno più disordini, imperfezioni, deserti, animali selvaggi, erbacce, malattie, povertà, sofferenze. Il mondo socialista è soprattutto un mondo ordinato ed efficace. E però proprio questa visione del futuro, concepito come un mondo scintillante alla Wells, che ripugna agli spiriti dotati di sensibilità. Va notato che questa rappresentazione del “progresso”, concepita da pance piene, non appartiene alla dottrina socialista. Si è finito per credere che lo fosse, e questo spiega come un certo conservatorismo di fondo di tanta gente d’ogni categoria abbia potuto così facilmente essere utilizzato contro il socialismo».

Michéa formula così la sua domanda:

«Da oltre un secolo tutti, avversari e partigiani, concordano nel classificare con il nome di sinistra il vasto movimento politico e intellettuale che si oppone ufficialmente al sistema capitalista e a tutte le sue malefatte. Come può essere, allora, che un movimento storico di tale portata (e le cui idee sono diventate dominanti nella cultura contemporanea) non sia mai riuscito a rompere nella pratica l’organizzazione capitalista dell’esistenza, sostituendola con una società autenticamente umana, libera, ugualitaria e dignitosa?».

Ricordando la domanda di Orwell, Michéa evidenzia che si tratta di una domanda non nuova. Ma è la sua risposta ad essere nuova.

Ed ora diamo la parola a Michéa che alle considerazioni di Orwell si affida:

«La propaganda che appare ogni giorno sui teleschermi del mondo moderno si fonda invariabilmente su due idee-forza assai difficili da conciliare tra loro».

La prima: «Per un verso, come sempre in tempo di guerra, si succedono a ritmo ipnotico i bollettini di vittoria. I progressi prodigiosi della moderna tecnologia, come proclama il Ministero della Verità, hanno permesso di creare, per la prima volta nella storia, le basi materiali per un Avvenire Radioso e per l’imminente avvento del suo Regno. Questo Grande Balzo in avanti (dovuto indubbiamente allo spirito d’intraprendenza e d’innovazione che caratterizza la nostra incomparabile società liberale) non prelude solamente a un’era di abbondanza e di ricchezza illimitate. Come ricorda in ogni momento questa propaganda così accattivante, esso conferisce oltretutto agli uomini moderni un inedito potere sulle proprie condizioni di vita, tale che coloro che hanno avuto la sventura di vivere prima di loro avrebbero faticato anche solo a immaginare. Tanto la produzione industriale di tutti gli oggetti concepibili quanto gli orizzonti illimitati aperti dalle “nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione” costituiscono, a tutti gli effetti, i mezzi pratici in grado di cambiare l’esistenza e renderla felice per tutti, grazie anche al fatto di accumularsi in una quantità e a una velocità sconosciute a qualsiasi società precedente. Sembra, in poche parole, che si sia finalmente raggiunto quel momento della storia (che ne è contemporaneamente la fine) in cui tutto ciò che gli esseri umani hanno sognato, una Sony qualunque l’ha realizzato o lo realizzerà di qui a poco».

La seconda: «Tuttavia, quando si arriva alle faccende serie – cioè, in generale, quando il Popolo, logicamente sedotto da sermoni tanto promettenti, pone non meno logicamente la questione dei benefici concreti che potrebbe ricavare effettivamente da tutti questi stupefacenti progressi – il tono del Ministero della Verità si fa di colpo cupo e la retorica entusiasta alla Victor Hugo lascia il posto agli accenti raggelanti di un Malthus. Il fatto è che la sapienza infallibile degli economisti – diamola al momento per accettata – è in grado di dimostrare in modo indiscutibile che l’umanità ha esaurito le sue scorte di pane bianco, che gli anni gloriosi sono ormai alle nostre spalle e che è tempo di ficcarci in testa che abbiamo finora vissuto al di sopra dei nostri mezzi. In quest’ora che prelude a tempeste ineluttabili (considerando – ci viene detto per esempio – quei tassi di natalità sempre nefasti, perché troppo elevati o troppo bassi), le più modeste rivendicazioni assumono l’aspetto di lussi ormai inaccessibili. La semplice esigenza di conservare un lavoro relativamente stabile e degno all’interno di una situazione minimamente umana, di disporre di un reddito quasi dignitoso, di una vecchiaia tutelata, di qualche cura gratuita, addirittura di qualche spazio di meritato riposo – tutto questo, ci viene detto oggi, rappresenta una sfilza di capricci inaccettabili, perché contrari alle leggi dell’economia. Come sintetizza l’ex padrone dell’AXA (uno dei più grandi gruppi assicurativi del mondo), Claude Bébéar, con l’abituale franchezza di chi è nato per comandare i suoi simili, la straordinaria accumulazione di progressi materiali e tecnologici può avere soltanto, per la maggioranza, un unico effetto: “È evidente che si dovrà lavorare di più e più a lungo”.

Insomma, se capiamo bene, la propaganda ufficiale ha il compito di farci credere questo: quanto più, grazie alla sua tecnologia prometeica e a un illimitato spirito d’inventiva, l’umanità espande le possibilità di alleviare le pene degli esseri umani e di modificare il corso delle cose, tanto più deve rassegnarsi ad ammettere di non avere più il controllo sul proprio destino storico; è dunque la portata stessa dei mezzi di cui dispone attualmente a spiegare l’esiguità dei risultati concreti che può sperare di raggiungere.

Suppongo che non sia necessario avere un carattere particolarmente ombroso o incontentabile per arrivare alla conclusione che un sistema sociale che ha bisogno di favole di questo genere per legittimare le proprie modalità di funzionamento reali sia ingiusto e inefficace nel principio stesso, e che proprio per questo imponga una critica radicale, cioè, rispettando l’etimologia del termine, una critica che ne analizzi il male alla radice e che intenda trattarlo per quello che è.

In queste condizioni, il problema nel suo complesso consiste nel capire per quale misterioso meccanismo un sistema così evidentemente privo di razionalità sia riuscito, nel corso dei decenni, a stendere la sua ombra sull’intero pianeta, senza incontrare una seria opposizione da parte di coloro ai quali destabilizza l’esistenza e mutila la potenzialità di vita, senza suscitare, cioè, una resistenza collettiva commisurata ai guasti che produce e ai suoi effetti reali. Il problema può essere formulato in altro modo».

L’autore ci tiene a sottolineare sia la sua volontà di sviluppare le considerazioni di Orwell sia di evidenziare in cosa si discosti da esse:

«Il breve saggio che segue ha l’unico scopo di sviluppare nel modo più metodico possibile le osservazioni di Orwell. Me ne sono però discostato in due punti importanti. Per un verso, come cercherò di chiarire e come lo stesso Orwell riconosce alla fine del suo scritto, il culto del progresso e della modernità, che è il centro di gravità di tutta la propaganda di sinistra, è profondamente estraneo alle versioni originali del socialismo, come sono venute costituendosi in Inghilterra e in Francia all’inizio del XIX secolo. Per l’altro, e questa è una critica assai più grave, è diventato impossibile continuare a credere che i discorsi di questo tipo riguardino solo la “propaganda sbagliata” che un partito della sinistra (o, a maggior ragione, dell’estrema sinistra) potrebbe abbandonare o modificare a piacimento, a seconda, per esempio, delle fluttuazioni del suo elettorato. Mi sembra invece che l’elogio meccanico del “progresso” e della “modernizzazione” appartengano al nocciolo duro del programma metafisico di qualsiasi sinistra possibile, un programma al quale essa non potrebbe rinunciare, nemmeno in parte, senza negare del tutto sé stessa. La ragione non è difficile da comprendere. La sinistra, fin dai suoi esordi storici, si è sempre presentata, e a ragione, come l’unica erede legittima dell’Illuminismo, cioè, per attenersi alle definizioni più classiche, come il partito del Movimento (nettamente opposto a tutti i partigiani dell’Ordine) e il luogo di incontro naturale di tutte le forze del Progresso e di tutti i fautori del Cambiamento. A questo titolo, chiaramente, essa ha saputo condurre o far proprie, nel corso degli ultimi due se coli, un numero incalcolabile di lotte per l’emancipazione, tanto legittime quanto indispensabili, contro le diverse potenze dell’Ancien Régime (in prima fila la Chiesa e il grande latifondo) e contro gli inaccettabili privilegi e pregiudizi sui quali i poteri tradizionali fondavano il proprio dominio.

Il problema è che nella storia delle idee una realtà ne maschera quasi sempre un’altra e gli esseri umani si trovano regolarmente davanti a conseguenze che non avevano nemmeno immaginato possibili, mentre ne sostenevano con il massimo ardore i presupposti. Questa griglia interpretativa, applicata alla filosofia illuminista, cioè al punto di avvio intellettuale della modernità, mi ha gradualmente portato a elaborare l’ipotesi seguente: non esiste, secondo me, che un’unica possibilità di sviluppare integralmente l’ambigua assiomatica dell’Illuminismo, ed è quella dell’individualismo liberale. La traduzione politica più radicale e più conseguentemente logica di quest’ultimo si trova nel discorso sull’economia politica che ha la sua prima Versione compiuta nella Ricchezza delle nazioni di Adam Smith.

Questo equivale a dire che quella che ancor oggi viene chiamata la sinistra si alimenta esattamente alla stessa fonte filosofica del liberalismo moderno (dopotutto non è affatto assurdo, in linea di principio, affermare che Turgot e Adam Smith fossero, ai loro tempi, uomini di sinistra). L’esistenza di questa matrice originale, comune al pensiero della sinistra e al liberalismo illuminista, spiega secondo me le ragioni che hanno sempre indotto la prima ad avallare lo spirito del secondo sull’essenziale, quantunque le sia capitato spesso (e le capiterà ancora) di volerlo correggere (o regolare) su questo o quel dettaglio specifico. Queste ragioni non riguardano dunque in prima istanza la particolare psicologia della maggior parte dei capi di quel movimento (l’amore per il potere e il senso di tradimento che questo implica), ma sono fondamentalmente ontologiche, cioè attengono alla natura stessa della sinistra. Vista in questa prospettiva, l’idea di un “anticapitalismo” di sinistra (o di estrema sinistra) parrebbe improbabile come quella di un cattolicesimo rinnovato o “rifondato” che prescinda dalla natura divina del Cristo e dall’immortalità dell’anima. Sono pertanto le esigenze stesse di una lotta coerente all’utopia liberale e al rafforzamento della società classista che essa genera inevitabilmente (e con questo intendo semplicemente un tipo di società in cui la ricchezza e il potere indecenti degli uni hanno come condizione principale lo sfruttamento e il disprezzo degli altri) a rendere oggi politicamente necessaria una rottura radicale con l’immaginario intellettuale della sinistra. Capisco benissimo che l’idea di una rottura del genere ponga a molti seri problemi psicologici, perché la sinistra, da due secoli, ha soprattutto funzionato come un surrogato della religione (la religione del “progresso”); e si sa bene che qualsiasi religione ha come funzione principale quella di conferire un’identità ai suoi fedeli e di assicurare loro una pace interiore. Non faccio nemmeno fatica a immaginarmi che numerosi lettori considereranno un inutile paradosso questo modo di contrapporre radicalmente il progetto filosofico del socialismo originale ai diversi programmi della sinistra e dell’estrema sinistra esistenti; penseranno cioè che sia una provocazione aberrante e pericolosa, tale da fare il gioco di tutti i nemici del genere umano. Io credo invece che questo modo di vedere sia l’unico che dia un senso logico alla spirale di fallimenti e di sconfitte storiche a ripetizione che ha caratterizzato il secolo scorso, e la cui comprensione resta evidentemente oscura per molti nella strana situazione che è oggi la nostra. In ogni modo, è più o meno questa l’unica possibilità non esplorata che ci rimane, se vogliamo davvero aiutare l’umanità a uscire, finché siamo in tempo, dall’ “impasse Adam Smith”, dal vicolo cieco dell’economia».

 

4.2.1 L’arrivo della razionalità scientifica

 

«La genesi del progetto capitalista (o liberale, o economico, poiché questi termini, come li intendo io, coincidono perfettamente) è del tutto impossibile da comprendere se non la si riferisce alla questione centrale che ha sempre definito la modernità europea dalla fine delle drammatiche guerre civili del XVI secolo: su che basi è possibile ricostruire una società pacificata, visto che è universalmente ammesso che nessuna rivelazione religiosa è più in grado di dare regole a un mondo comune? La risposta che alla fine prevarrà, e che non era certo l’unica possibile (basta leggere Pascal), è che la ragione, la “luce naturale”, costituisce la condizione necessaria (un postulato che si accetta senza difficoltà) e sufficiente (e qui si tratta di un altro problema) per portare a termine la totale riorganizzazione dell’ordine umano. Conviene integrare questa ipotesi con un postulato aggiuntivo che, a buon diritto, è del tutto indipendente dai due precedenti. È l’idea per cui la forma più alta e perfetta di ragione è rappresentata dalla razionalità scientifica, il cui modello privilegiato era offerto dalla nascente fisica sperimentale, con Galileo e Newton, e la cui serie infinita di applicazioni previste, come si supponeva, avrebbe innescato l’avvio non solo del progresso tecnico e industriale, ma anche, di conseguenza, del progresso del genere umano stesso (ed è proprio questo nesso ‘logico’ a essere all’origine di tanti problemi).

Sulla scorta di questi tre postulati che definiranno la base intellettuale delle correnti più radicali della “filosofia dell’Illuminismo”, non è difficile ricavare i principi della reazione modernista al problema della modernità. Per costruire il migliore dei mondi, un secondo paradiso terrestre per sempre liberato dal pregiudizio, dalla superstizione e dalle passioni corrispondenti, basterà insomma organizzare scientificamente l’umanità (sarà questa la formula di Renan) o, almeno, proporre un modello di funzionamento del tutto compatibile con le presunte esigenze della ragione. Per questo, dalla fine del XVII secolo, la maggioranza dei fautori del “progresso” s’impegna instancabilmente per scoprire i principi fondamentali di una “scienza della natura umana”, ovvero di una “fisica sociale” che si ritiene capace di formulare l’insieme delle leggi della meccanica umana sul modello indiscutibile del sistema della natura fondato da Newton. Per quest’ultimo, com’è noto, era stata una forza dagli effetti misurabili, la gravitazione universale, quella che aveva permesso di ricollegare i movimenti in apparenza disordinati dei corpi naturali a un fondamento razionale, cioè verificabile sperimentalmente. Per la meccanica sociale era pertanto indispensabile individuare una forza con proprietà equivalenti. La maggioranza degli illuministi si trovò a poco a poco d’accordo nell’individuarla nell’interesse.

Il che equivaleva a dire che un uomo si comporta ‘razionalmente’ quando, sgombro da qualsiasi pregiudizio, da qualsiasi superstizione e da qualsiasi passione negativa, prende ad agire in conformità al proprio interesse ben inteso, mentre ogni altro criterio di razionalità nei comportamenti umani sarebbe privo di senso. Le conseguenze di tale ipotesi – che i filosofi chiamano in genere “utilitarismo” – sono fondamentali per capire il mondo che è il nostro. Per un verso, essa permette di spiegare in modo plausibile il fallimento dei precedenti sistemi politici, che per funzionare in modo ottimale pretendevano, in effetti, che gli uomini si comportassero come i santi del Vangelo o gli eroi dell’antichità. Ma esigenze di questo tipo erano impossibili da soddisfare, hanno poi ribattuto i “modernisti”, dato che gli uomini, se si accetta di considerarli in quanto tali, cioè in modo scientifico, tendono per natura a comportarsi come calcolatori egoisti e sarebbe utopistico contare sulla loro virtù. Per altro verso, questa concezione mette fine definitivamente al disprezzo di cui erano oggetto le attività mercantili. Infatti, se ammettiamo che ogni essere umano è determinato per natura a ricercare esclusivamente ciò che è utile per lui, lo scambio economico (il cash nexus di Carlyle) diventa l’esempio più nitido di una relazione umana razionale, perché ogni partecipante, al termine di una negoziazione che si suppone pacifica, finisce sempre per trovarvi il proprio utile. Se accettiamo questi presupposti nel loro insieme, si possono ricostituire facilmente le articolazioni intellettuali del progetto capitalista.

Basta postulare l’esistenza di “un’armonia naturale” degli interessi umani – ovvero la funzione teologica della famosa ‘mano invisibile’ del mercato – per arrivare all’idea centrale di quella “scienza” economica di cui la metafisica capitalista si è sempre sentita la semplice traduzione politica: l’esigenza di abolire tutto ciò che nelle leggi, nei costumi, nei comportamenti ereditati dalla storia ostacola ancora l’azione razionale degli individui, il libero perseguimento dei loro interessi ben intesi. Si trova così postulato che una volta fatta tabula rasa del proprio assurdo passato (il liberalismo si fonda sempre sulla mistica dell’anno zero), la società diventerà inevitabilmente pacifica, prospera e felice. Se la generalizzazione sistematica della logica mercantile e della concorrenza integralmente libera che le deve corrispondere costituisce per i liberali del XVIII secolo l’enigma finalmente risolto della storia, ciò avviene perché ai loro occhi essa rappresenta l’unico fondamento possibile per i progressi della civiltà e la base indispensabile per l’emancipazione del genere umano.

[…] Se c’è una cosa che l’antropologia oggi è in grado di stabilire con ogni certezza possibile in questo campo, è il fatto che l’individuo “razionale” (calcolatore ed egoista) ipotizzato dalla teoria liberale altro non è che un mito filosofico, una semplice “robinsonata” come la definiva Marx.

L’inconscio, per esempio, senza nemmeno considerare la sua struttura transgenerazionale ci ricorda continuamente che altri da me – e prima di tutto un ‘padre’ e una ‘madre’, quale che ne sia la modalità di presenza immaginaria o simbolica – sono lo specchio perennemente teso in cui ognuno di noi deve arrangiarsi come può per mettere insieme i contorni insieme stabili e continuamente mobili della propria identità. D’altronde la lingua materna e, quindi, l’universo culturale che le è necessariamente collegato inscrivono ogni soggetto in una tradizione costitutiva che nessuno, nemmeno il grande scrittore, riesce a modificare in profondità come gli pare.

Sulla scorta degli studi di Marcel Mauss e di chi ne continua oggi l’opera (penso al lavoro fondamentale di Alain Caillé e del MAUSS, Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales), noi oggi disponiamo di sequenze teoriche abbastanza precise che chiariscono il senso reale di una parte degli scambi che sostengono lo stesso ordine umano. Alla luce di quegli studi, si può considerare acquisito il fatto che la strategia utilitarista rappresenta solo una delle figure possibili della condotta umana, la cui convalida filosofica è, tutto sommato, abbastanza recente. Si può infatti constatare come alla base della nostra esistenza in buona parte i beni tendano a circolare, e i servizi tendano a essere erogati, seguendo quello che Mauss definiva il ciclo del dono, ovvero il triplice obbligo, insieme imperativo e facoltativo, interessato e disinteressato, di “dare, ricevere e rendere”.

È proprio questa logica del dono, non riducibile a nessun calcolo puramente economico, che spiega come e perché (Serge Latouche lo ha messo bene in luce con l’esempio africano), vasti settori dell’umanità continuino a condurre una vita reale, benché invisibile agli “esperti”, sotto la scorza ufficiale dei rapporti capitalisti. Certo non si tratta di una caratteristica esclusiva delle società tradizionali che da noi sopravvivrebbe solo in forme marginali o folcloristiche. Basta osservare l’esistenza quotidiana reale degli esseri umani nel corso delle ventiquattro ore, nella vita in famiglia, nei giochi di amore e di amicizia come nelle relazioni di vicinato (base essenziale di qualsiasi autentica socialità, soprattutto nei quartieri popolari), per scoprire che il dono, l’aiuto reciproco e il senso civico continuano a segnare una parte non trascurabile dei rapporti concreti tra gli individui. Eppure, essendo il momento del dono il rimosso per eccellenza dell’ideologia modernista, le nostre esistenze tendono a presentarsi sotto il segno di una schizofrenia costitutiva. L’immaginario dominante ci impone infatti di ripetere continuamente “homo homini lupus” anche se il nostro reale modo di agire quotidiano smentisce in misura ancora rilevante questa credenza imposta. E ciò è vero nonostante che sia del tutto evidente che quelle forme di civismo tendono gradualmente a ridursi perché l’attivazione delle logiche liberali è anche e necessariamente l’attivazione della guerra di tutti contro tutti; e nonostante che la storia ci insegni che nessuna comunità resta mai al riparo da una barbarie, che non è altro se non il rovescio speculare della sua umanità. Del resto, una prova concreta di questo fatto si trova proprio all’interno dello stesso discorso liberale. All’inizio, come abbiamo visto, l’economia politica pretendeva di fondare le proprie leggi sulla constatazione ‘empirica’ che gli uomini “in quanto tali” sono indotti dalla propria natura ad agire solo secondo un calcolo d’interesse. Ma tutte le lamentazioni dei liberali moderni si riassumono in realtà nel dire che se la generalizzazione del libero scambio non produce sempre gli effetti meravigliosi vaticinati dalla teoria, questo succede perché gli uomini realmente esistenti (spinti da abitudini irrazionali o sentimentali) si ostinano ad agire in modo diverso da come dovrebbero se fossero quello che sono. Questo paradosso logico spiega bene come mai l’adozione di una politica liberale presupponga necessariamente – fingendo di “adattare la mentalità dei singoli al cambiamento” – la costante volontà di costruire un uomo nuovo, la cui giovinezza sarà sempre il campo privilegiato di sperimentazione e verso il quale la propaganda pubblicitaria sarà uno degli strumenti più efficaci.

Lo stesso paradosso svela anche fino a che punto il sedicente “realismo” della “scienza” economica si puntelli su una rappresentazione dell’uomo del tutto metafisica (particolarmente pessimista e puritana) che, se messa acriticamente in pratica, nel tempo non può che rivelarsi terribilmente devastante per l’umanità reale. È appunto questo il rischio insensato che tutti i politici moderni (cioè quelli il cui orizzonte di pensiero non s’innalza mai oltre il breve termine) stanno assumendosi tranquillamente sotto i magici nomi di “modernizzazione” e di “globalizzazione”».

 

4.2.2 L’individuo integralmente flessibile

 

«La peggiore delle illusioni in cui oggi può cullarsi un militante di sinistra è quindi quella di continuare a credere che quel sistema capitalista che egli afferma di combattere costituisca in sé un ordine conservatore, autoritario e patriarcale, i cui pilastri fondamentali sarebbero la Chiesa, l’Esercito e la Famiglia. Se si confronta questa prospettiva delirante con ciò che abbiamo realmente sotto gli occhi, ci si rende conto che poggia su una confusione micidiale tra le differenti figure proprie allo spirito borghese, che varia a seconda del luogo e dell’epoca (armatore bordolese sotto la Restaurazione, banchiere nel Secondo Impero, imprenditore industriale negli anni Sessanta), e allo spirito del capitalismo, che è per definizione l’immaginario indispensabile per far funzionare nel modo ideale il dispositivo inventato da Turgot e da Adam Smith e così portare a maturazione tutti i suoi frutti.

A quali condizioni antropologiche è concepibile uno schema di funzionamento del genere (mettendo al momento da parte il problema chiaramente cruciale dei limiti ecologici)? La risposta è evidentissima: perché siano soddisfatti gli equilibri preconizzati da Adam Smith è indispensabile che ogni operatore umano (quale ne sia la posizione sul mercato unico ove si suppone esista la concorrenza perfetta) sia disposto, in qualsiasi istante della sua esistenza e senza la minima esitazione psicologica, a cambiare all’istante, quando l’economia glielo ordina, abitudini, professione e (condizione principale) luogo di residenza. In altre parole, le profezie storiche del sistema capitalista – l’arricchimento di tutti in un mondo pacificato, sempre più libero e sempre più felice – possono compiersi solo ed esclusivamente se ogni individuo della commercial society (come la chiamava Adam Smith) ha interiorizzato in modo definitivo l’obbligo mentale di essere integralmente flessibile, di essere mobilizzabile in qualsiasi istante e pronto a vivere giorno per giorno come un atomo assoluto (una “particella elementare”) per il quale qualunque legame, qualunque impegno nei confronti degli altri, rappresenta a priori un ostacolo al perseguimento dei propri interessi ben intesi e un’inaccettabile dipendenza psicologica. Si vede subito che l’uomo senza qualità del capitalismo ideale, quest’uomo che non è a casa sua da nessuna parte e la cui esistenza va ridotta d’imperio a una serie di rotture e di traslochi, trova una realizzazione molto imperfetta nel modello del borghese balzacchiano o dell’industriale di provincia dei film di Chabrol.

Questi personaggi in realtà rappresentano solo una forma particolare e limitata dello spirito capitalista compiuto, non foss’altro che per il pregiudizio nazionalista, la tradizione patriarcale, la vecchia coscienza religiosa o, al contrario, per convinzioni più degne. La necessità di innovare a qualsiasi costo e di rimettere continuamente in discussione il proprio modo di vivere per rispondere alle incessanti sollecitazioni di un’economia divinizzata, in quei borghesi storici continua a essere potentemente controbilanciata dal peso concreto delle filiazioni, delle appartenenze e dei radicamenti. Ogni figura sociologicamente costituita della borghesia finisce così per apparire alla lunga come un ostacolo allo sviluppo dello spirito capitalista assoluto e del corrispondente immaginario di un’umanità costantemente in movimento, senza pregiudizi né attaccamenti, sospinta dalla sola ricerca del proprio interesse ben inteso. Questo immaginario rappresenta indubbiamente l’eredità più ambigua – perché è insieme emancipatore e alienante – dell’Illuminismo e del suo inflessibile progressismo.

[…] Quello che Boltanski e Chiappello hanno chiamato, non a torto, il “nuovo spirito del capitalismo”, quel momento storico in cui la mobilità degli individui diventa una forza produttiva diretta, è proprio una delle ultime forme che deve prendere lo spirito umano quando lo sviluppo effettivo del capitale tende, per usare il gergo dei filosofi, a “ricongiungersi con il suo concetto”. Inutile dire che la figura che meglio impersona questo inizio della fine della storia non è il borghese di Balzac. Il “Nomade” (uno dei cellulari più noti della Bouygues, uno dei principali operatori francesi di telefonia), surrogato patetico dell’umanità, destinato a vivere come un pesce nell’acqua in un mondo a misura di Bill Gates, mi pare un esempio molto più appropriato».

 

4.2.3 Socialismo versus modernità

 

La tesi secondo la quale la sensibilità socialista sarebbe legata sul piano filosofico alle dottrine della sinistra è un’idea indotta che in Francia risale sostanzialmente ai tempi dell’affare Dreyfus. Fino ad allora, e a partire dalla Restaurazione, il coté gauche, come lo si chiamava, si definiva soprattutto come “partito del Progresso, della Scienza e della Ragione” (riprendo questa recente definizione fatta, in senso positivo, dal compianto Jean Glavany). Ciò vuol dire che la sinistra si è sempre presentata, nella storia, come l’unica erede legittima dell’Illuminismo e, a questo titolo, come l’avanguardia più decisa di tutte le modernizzazioni concepibili, di carattere tecnologico, politico o morale. La sensibilità socialista, invece, ha origini diverse e più complesse. Si forma veramente solo all’inizio del XIX secolo, dapprima attraverso le molteplici lotte degli operai inglesi (e irlandesi) contro i modi di vita degradati loro imposti dalla prima modernizzazione industriale. In queste precise condizioni storiche, infatti, come scrive Engels nel 1845, “le usanze e le condizioni del buon tempo antico sono state distrutte radicalmente; qui si è giunti al punto che il nome di Old Merry England non evoca più nulla, perché la stessa Old England non la si conosce più neppure attraverso i ricordi e i racconti dei nonni”. (1)

 

(1)  Riguardo alle condizioni di vita degli operai tessili inglesi, Engels arriva a scrivere parole tali da scoraggiare qualsiasi elettore di sinistra (a meno d’essere talmente ignoranti da pensare che Engels fosse un losco agitatore populista): «In questo modo i lavoratori vegetavano abbastanza comodamente e conducevano una vita dabbene e tranquilla in tutta devozione e rispettabilità; la loro posizione materiale era di gran lunga migliore di quella dei loro successori; non avevano bisogno di affaticarsi troppo, lavoravano non piu di quanto volevano e guadagnavano tuttavia ciò di cui avevano bisogno, disponevano di tempo libero per un sano lavoro nel loro orto o campo, un lavoro che era per essi già di per sé un ristoro, e potevano inoltre prendere parte ai divertimenti e ai passatempi dei loro vicini; tutti questi passatempi, birilli, gioco della palla ecc., contribuivano a mantenerli in salute e a rinvigorirne il corpo. Per lo più erano gente di complessione regolare e robusta, nella cui struttura fisica si potevano notare poche o addirittura nessuna differenza da quella dei loro vicini campagnoli. I loro figli crescevano all’aria libera della campagna, e se pure aiutavano i genitori nel lavoro, ciò avveniva solo di tanto in tanto, né si poteva parlare di una giornata lavorativa di otto o dodici ore» (Friedrich Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 44). Questa attenzione del socialismo delle origini a distinguersi tanto dai sostenitori dell’Ancien Régime quanto da quelli della modernità industriale si traduce in Engels in indicazioni di metodo molto chiare: «Nella maggior parte delle citazioni ho indicato a quale partito appartengono gli autori citati a sostegno delle mie tesi, perché quasi a ogni pie’ sospinto i liberali cercano di mettere in rilievo la miseria delle zone agricole e di negare invece quella delle zone industriali, mentre, all’inverso, i conservatori riconoscono l’indigenza delle zone industriali, ma non vogliono sentir parlare di quella delle zone agricole. Sempre per questo motivo, là dove mi mancavano i documenti ufficiali, parlando degli operai dell’industria ho sempre preferito la testimonianza liberale, al fine di colpire la borghesia liberale con le sue stesse parole, e mi sono richiamato ai tories o ai cartisti soltanto là dove la mia esperienza confermava l’esattezza della cosa, ovvero dove la veridicità dell’affermazione mi era garantita dalla personalità morale o intellettuale dell’autore citato» (Ibid., p. 26). Ecco qua, indubbiamente, alcune sagge precauzioni, ispirandosi alle quali avrebbero molto da guadagnare i vari Dubet, Baudelot, Wievorka, Mucchielli e altri monumenti intellettuali della sociologia di Stato.

 

Il socialismo operaio si configura così fin dall’origine come un rapporto eminentemente critico verso la modernità, e soprattutto verso il suo individualismo devastante (inizialmente il termine “socialismo” è creato da Pierre Leroux appunto per indicare il contrario dell’individualismo assoluto) e verso quel curioso catechismo industriale che ne è una abituale conseguenza. Per questo le prime teorizzazioni filosofiche avanzate da Engels riguardo alle contestazioni operaie della modernità si basano, in primo luogo e molto logicamente, sulla critica radicale dell’individualismo dei Lumi. “Se questo isolamento del singolo” egli scriveva “questo angusto egoismo è dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in un modo così sfrontato e aperto, così consapevole, come qui, nella calca della grande città. La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare, il mondo degli atomi, sono stati portati qui alle loro estreme conseguenze”. Si vede così come il progetto socialista sia filosoficamente orientato, fin dalla nascita, dal desiderio che hanno i primi lavoratori moderni di proteggere, contro gli effetti disumanizzanti del liberalismo industriale, un certo numero di forme di esistenza comunitaria (tanto urbane quanto rurali) che essi intuiscono essere (e non grazie a una scienza importata “dall’esterno” da benevoli tutori) l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome. Naturalmente, questa aspirazione fondante tesa a conservare “un mondo comune”, come dice Hannah Arendt, non è riducibile in nessun modo a una nostalgia delle gerarchie sociali dell’Ancien Régime. Il socialismo operaio, essendo prima di tutto una creazione popolare, riprendeva naturalmente, per proprio conto, l’idea moderna di un’uguaglianza universale, badando però bene a darle il contenuto più concreto possibile. Il fatto stesso che il socialismo, in quanto auspicata comunità di lavoratori finalmente liberi e uguali, dovesse proprio per questo affermarsi da subito come autentica comunità – cioè come insieme storico con un’esistenza autonoma che nessuno Stato, per quanto “razionale”, potesse organizzare dal di fuori e dall’alto – immunizzava in genere i primi critici operai, pur diversissimi tra loro per natura, contro la maggior parte delle illusioni politiche del modernismo (2).

 

(2) Sui fondamenti filosofici del concetto di ‘comunità’ si rimanda all’eccellente studio di Roberto Esposito, Communitas: origine e destino della comunità (Einaudi, Torino, 1998). In particolare 1’autore ricorda che il termine deriva dal latino munus, che indica un elemento essenziale della sequenza del dono analizzata da Mauss e Benveniste. In questa etimologia si può scorgere un simbolo dei limiti antropologici dell’economia e del diritto. La funzione storica comune dello scambio commerciale e del contratto giuridico e quella di riunire soggetti in precedenza separati, ovvero costruiti per eliminazione di tutte le dimensioni che definiscono l’intersoggettività. Nessuna società, però, è antropologicamente pensabile se non riconoscendo a certe strutture intersoggettive (la lingua, l’inconscio, il ciclo del dono) una priorità trascendentale che prevale sui modi di individualizzazione e di autonomizzazione dei soggetti stessi. Per questo il diritto e l’economia, pur essendo per il resto elementi necessari di emancipazione, non possono mai rappresentare il punto di partenza filosofico o la base pratica di una comunità veramente libera, cioè di una comunità di individui la cui autonomia non trova le proprie condizioni di attivazione nella loro atomizzazione.

 

Un teorico inglese dell’epoca, Evans, ha offerto da questo punto di vista quella che secondo me è la migliore definizione di quei socialismi operai e popolari, scrivendo che i loro due nemici eterni erano “l’individualismo dell’economia politica inglese, che in nome della libertà rende gli uomini tra loro dei lupi rapaci riducendo la società in atomi, e il socialismo saint-simoniano, questo nuovo papato oppressivo, totalizzante, che trasformerebbe l’umanità in una macchina in cui le vere nature viventi, gli individui, sarebbero ridotti a materia utile invece di essere essi stessi arbitri del proprio destino”. Quella che in Francia è chiamata ‘sinistra’ ai nostri giorni in realtà non è altro che il prodotto di un compromesso storico particolarmente precario, negoziato ai tempi dell’affare Dreyfus, tra il socialismo operaio – che in Francia era peraltro più proudhoniano che marxista3 – e il campo repubblicano, cioè quello degli eredi dell’Illuminismo (e di tutte le sue ambiguità filosofiche) per i quali l’unico nemico, in qualsiasi situazione, era sempre e solo l’Ancien Régime, ovvero tutto ciò che, in un modo o in un altro, si contrapponeva agli effetti ritenuti necessariamente emancipatori del progresso scientifico, industriale e “morale”. Per comprendere le vicende della sinistra moderna basta pertanto porsi il seguente interrogativo: che cosa poteva diventare quella instabile configurazione ideologica una volta che le principali potenze dell’Ancien Régime fossero state storicamente eliminate (com’è stato dopo la Liberazione) e una volta che, con il pretesto delle leggi bronzee dell’economia, essa avesse definitivamente rinunciato a conservare nel suo programma ufficiale “l’utopia” di una critica radicale del capitalismo moderno (com’è avvenuto all’inizio degli anni Ottanta)? La risposta mi sembra evidente. Non poteva diventare altro che quello che è diventata: una semplice macchina politica destinata a legittimare culturalmente, in nome del “progresso” e della “modernizzazione”, tutte le fughe in avanti della civiltà liberale4 [R]. È chiaro che in tale ruolo la sinistra è infinitamente meglio attrezzata dal punto di vista intellettuale di tutte le destre dell’universo. Se si tratta infatti, come è appunto il caso, di fondare l’infrastruttura psicologica e immaginaria di un mondo completamente “libero” e modernizzato (cioè composto di atomi perennemente in movimento e senz’altro programma metafisico al di fuori di quello che impone di “vivere senza tempi morti e godere senza ostacoli”), allora gli eredi di Sade e dell’egoismo stirneriano saranno sempre più competitivi ed efficaci dei conservatori di qualsiasi stampo. Non è dunque il caso di stupirsi, ora che qualunque ipotesi di rottura con la logica devastante del capitalismo è presentata come “utopistica”, “totalitaria” o addirittura – sommo crimine del pensiero – “populista”,5 se questa sinistra moderna o “liberal-libertaria”,6 che detiene ormai il controllo dell’industria della buona coscienza (e domina a questo titolo quasi tutti i settori dello spettacolo e della cultura “giovanile” che ne è il principio unificante), rappresenti la forma ideologica più efficace e più atta a preparare, accompagnare e celebrare le temibili evoluzioni future di un’economia che si sviluppa per conto proprio.

Il futuro degli esseri umani è comunque nelle loro mani, perché, per quanto ne so, nessun dio, nemmeno l’onnipotente Internet, è in grado di governare il corso della storia. Se allora non vogliamo che la “causa dell’umanità” (Engels) diventi una causa persa, è necessario che chi la sostiene prenda finalmente atto, e con la massima urgenza (visto che il tempo, diventato il tempo dell’economia, lavora contro gli uomini e l’ambiente), che la critica radicale della rappresentazione economica del mondo, derivata dall’Illuminismo, è diventata un compito politico fondamentale, senza il quale tutte le altre lotte parziali a favore di una società giusta sono perdute in partenza. Solo al costo di una decolonizzazione del nostro immaginario, come dice Serge Latouche, con tutti i ripensamenti che questo comporta, sarà nuovamente possibile resistere effettivamente ai vari padroni del mondo, di “destra” o di “sinistra” che siano, ogni volta che cercano di convincere i popoli che tutte le modernizzazioni loro imposte rappresentano per principio meravigliosi passi in avanti verso la Terra Promessa, e che metterle in discussione deve essere considerato a priori criminale o insensato.

Una rivoluzione culturale del genere, se dobbiamo darle un nome, impone ovviamente che si riattivi tutto ciò che c’è stato di eccellente o, semplicemente, di ragionevole a partire dal XIX secolo nelle molteplici critiche socialiste, anarchiche e populiste della modernità, critiche oggi sepolte sotto vent’anni di fandonie mediatiche e politiche. Essa impone soprattutto di basarsi, in quest’opera che è insieme morale e intellettuale, su tutti i tesori di common decency (Orwell) che continuano ad animare l’esistenza delle persone normali, della “gente da poco”, come la chiama il sociologo Pierre Sansot, per le quali una vita compiuta non si misura dalla quantità di potere che si riesce ad accumulare sui propri simili. L’impegno a mantenere e a generalizzare quella common decency costituirebbe, secondo Orwell, una delle principali risorse di cui disporre il popolo basso (come lo chiamava Jack London) per avere un giorno la possibilità di abolire i privilegi di classe (un termine che si crederebbe d’altri tempi, mentre ciò che definisce non è mai stato così reale com’è oggi) e di costruire una società di individui liberi e uguali che si fondi per quanto è possibile sul dono, sull’aiuto reciproco e sul senso civico. 7 Una lettura che mi sembra sempre pertinente.

Miguel Amoros non ha certo torto a ricordarci che la modernità capitalista “produce insieme l’insopportabile e gli uomini capaci di sopportarlo”. Ma è plausibile pensare che ci troveremo ancora per molto tempo nelle condizioni storiche descritte dal giovane Marx, quando affermava che “1’umanità possiede il sogno di una cosa e le manca solo la coscienza di questa cosa per possederla realmente”.

E se si arriva a ipotizzare che la lotta dei popoli e degli individui per istituire una società libera, ugualitaria e decente (Orwell) possa riuscire da un lato a individuare i propri obiettivi e dall’altro a riappropriarsi dei fondamenti etici originali (la ‘collera generosa’ di cui ci parla Orwell, per distinguerla da tutte le espressioni di risentimento e dalle passioni tristi così diffuse nel mondo dei militanti), si può allora ipotizzare che anche la grande muraglia dell’economia trionfante, che cinge ogni giorno di più la vita e la libertà delle persone, possa finire per crollare di colpo, proprio come un volgare muro di Berlino, diventando a sua volta oggetto di stupore e di disprezzo per chi vivrà dopo di noi». (8)

 

(3) Tale compromesso storico tra la sinistra e il movimento socialista non è certo specifico della Francia. Alla fine del XIX secolo esso si afferma progressivamente in tutta Europa (soprattutto in Germania con il dibattito avviato da Bernstein e Schmidt nel quadro della discussione sul “revisionismo” e sul “neokantismo”). È anche necessario ricordare che una parte del movimento operaio e sempre rimasta assai critica nei confronti di questo compromesso. La preoccupazione di conservare l’autonomia dei lavoratori rispetto alla sinistra repubblicana o liberale spiega bene tanto la sopravvivenza della generosa tradizione anarco-sindacalista quanto gli sforzi infinitamente più equivoci individuabili nella “bolscevizzazione” delle sezioni nazionali del Komintern, alla metà degli anni Venti; l’obiettivo era di sostituire la strategia della “classe contro classe” ai vari progetti di “unione della sinistra”. In questo senso, l’esperienza ambigua dei fronti popolari rappresenta, dopo l’affare Dreyfus, il secondo momento decisivo nella costruzione della sinistra del XX secolo, che sopravviverà, con la sua grandezza e con i suoi difetti costitutivi, fino agli inizi degli anni Ottanta. Scrivendo questo, non mi sogno affatto di sottovalutare i numerosi risultati positivi di quel compromesso storico. È certo, per esempio, che l’inserimento del movimento di emancipazione dei lavoratori nella tematica universalista dell’Illuminismo è spesso servito a difendere i socialismi operai e populisti dalle derive perverse cui porta inevitabilmente la tendenza a separare la causa del popolo da quella dell’umanità (è questo che di sicuro aveva in mente il vecchio rivoluzionario August Bebel quando denunciava nell’antisemitismo “il socialismo degli imbecilli”). Resta il fatto che quantunque la parola sinistra, nella storia, abbia rimato più spesso con progresso che con popolo (si vedano a questo proposito i pregevoli saggi di Marc Crapez, in particolare La gauche reactionnaire. Mythes de la plebe et de la race dans le sillage des Lumieres, Berg International, Paris, 1997), quel compromesso storico era però votato a dissolversi una volta che l’alleanza difensiva contro le potenze dell’Ancien Régime (Esercito, Chiesa, Latifondo) non avesse più avuto il minimo scopo.

(4) Se accettiamo questa distinzione assai generica (la sinistra come partito dei Lumi e delle ‘forze del progresso’ contrapposto a tutte le figure dell’Ancien Régime; il socialismo come espressione filosofica delle rivolte operaie del XIX secolo contro gli effetti disegualitari e disumanizzanti della modernizzazione liberale, vista come l’evoluzione più radicale e coerente dell’assiomatica illuminista), possiamo concludere che la sinistra, rinunciando ovunque al compromesso storico che l’aveva unita alle classi popolari, si è trovata, per dir così, resa a se stessa e alla propria realtà. Ovvero affrancata dal pesante obbligo elettorale di appellarsi continuamente agli operai della LIP o ai contadini del Larzac (poi diventati, grazie all’intellighenzia illuminata, un’improbabile coalizione di ‘cafoni’) e finalmente libera di dedicare gran parte del proprio tempo agli stati d’animo dei vari emuli di Jean-Paul Gaultier, di Emmanuelle Béart o di Pierre Arditi. Per questo è particolarmente inconcludente e illogico aspettarsi la minima redenzione politica dal rituale appello a ‘ricostruire’ o a ‘rifondare’ una sinistra che sia ‘davvero di sinistra’. Innanzi tutto perché questo è esattamente ciò che si è voluto farla diventare nel corso degli ultimi vent’anni, ma soprattutto perché un appello del genere ha come principale effetto quello di rendere impossibile l’indispensabile collegamento politico con quei milioni di lavoratori che al momento si rifugiano nell’astensione o nel voto a destra. E questo perché respingono istintivamente gli effetti devastanti dell’atomizzazione del mondo e perché sono ancora abbastanza saggi da non riconoscersi in quei vigili difensori del Bene agli occhi dei quali l’emancipazione del genere umano ha finito per confondersi con la sostituzione del vecchio dispotismo dell’Avenue Foch con la tirannia, innegabilmente più presentabile dal punto di vista estetico, della Place des Vosges e del Marais [l’Avenue Foch è l’indirizzo emblematico della borghesia tradizionale (“old money”), per lo più politicamente di destra, mentre Place des Vosges (nel quartiere Marais) è viceversa diventata il luogo prediletto della borghesia di sinistra; N.d.T.]. Fatto che, sia detto tra parentesi, conferma quanto Parigi sia oggi davvero ridotta a mal partito.

(5) Non lo si ripeterà mai abbastanza, ma una delle più straordinarie manipolazioni portate a termine negli ultimi vent’anni dai professionisti della menzogna giornalistica è stata probabilmente quella di trasformare il concetto di ‘populismo’, elemento portante della tradizione rivoluzionaria del XIX secolo, in un’idea repellente, quasi sinonimo di nazismo. Perfino Pierre-André Taguieff, con la sua lucidità, ha difficoltà nel suo ultimo libro per altri versi molto documentato (L’illusione populista. Dall’arcaico al mediatico, Bruno Mondadori, Milano, 2003) a liberarsi del tutto dalla materia vischiosa abilmente sparsa dai politologi dell’ordine stabilito. Eppure basta rileggere la maggior parte dei testi della tradizione rivoluzionaria (senza nemmeno arrivare alle origini russe o americane) per misurare la portata del travisamento e la potenza dei mezzi di falsificazione che sono stati necessari per realizzarlo. Rileggiamo, per esempio, per parlare della storia del populismo, il testo classico di Fernando Mires, che fu uno dei principali dirigenti del MIR cileno (Brève histoire du populisme, “les temps modernes”, giugno 1973). Vi si trovano critiche aspre al populismo di Salvador Allende (cosa che non sorprende dalla penna di un leninista). Resta comunque il fatto che conclude così la sua analisi: «Pur nella loro diversità, i movimenti populisti presentano molti tratti in comune. Si caratterizzano prima di tutto per il rifiuto dell’ordine esistente e per un’ideologia e una conseguente pratica rivoluzionaria». Tali testi, moltiplicabili all’infinito, fanno purtroppo pensare che l’arte di cancellare il passato e tutte le tracce per recuperarlo è diventata oggi la parte essenziale del mestiere di giornalista. Il Ministero della Verità era già quasi riuscito a farci dimenticare che Pasolini aveva posto la difesa dei contadini del Friuli e dei lavoratori di Napoli sotto il vessillo, dispiegato senza equivoci, del populismo. Oggi che l’idea dell’esistenza di classi dominanti è stata metodicamente associata alle varie divagazioni sulla sinarchia, sul complotto giudaico-massonico e sulla chiesa raeliana, non c’è dubbio che spunterà presto un Kaganski [critico cinematografico della sinistra giovanil-ribelle, ma “politicamente corretta”; N.d.T.] qualunque che si renderà conto che i film di Frank Capra, di Ken Loach, di Michael Moore (o, magari, dello stesso Tati) sono sempre stati insidiose macchine da guerra destinate ad assicurare una lepenizzazione degli spiriti non traumatica, dalla quale sono protetti soltanto gli inossidabili lettori di “Libération”, di “Inrockuptibles” o di “Télérama”.

(6) Dopo la Liberazione, ovvero dopo la liquidazione politica delle ultime destre dell’Ancien Régime (ancora in parte eredi di Filmer, di Burke o di Bonald), la contrapposizione tra destra e sinistra rimanda soltanto a un’inclinazione puramente interiore rispetto alle tematiche dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. I primi partiti della “destra” moderna (democrazia cristiana, gollismo, radicali moderati eccetera) del resto hanno da tempo rifiutato in modo sintomatico di assumere il nome e il luogo loro assegnati dalla sinistra ufficiale, quella che da oltre mezzo secolo possiede il monopolio delle definizioni. Se semplifichiamo al massimo, si potrebbe dire che l’uomo moderno cosiddetto di “destra” ha la tendenza a difendere la premessa (l’economia della concorrenza assoluta), ma ancora stenta ad accettarne la conseguenza (il riconoscimento delle unioni di fatto, la delinquenza e Paris-Plage), mentre quello ufficialmente di “sinistra” tende a operare le scelte contrarie. Il primo merito del concetto di ‘liberal-libertario’ o ‘lib-lib’ (termine forgiato alla fine degli anni Settanta da Serge July per definire la nuova linea politica di “Libération”) è invece quello di rendere immediatamente visibile la complementarità dialettica dei due versanti dell’accumulazione del capitale, quello dell’economia e quello della cultura. L’era del liberalismo “libertario” (che si potrebbe chiamare il momento delanoeliano della dinamica capitalista, in omaggio ai suoi fondamenti radical-chic) costituisce così la forma integrata dell’accumulazione del capitale, quella, in altri termini, in cui tutte le determinazioni univoche (finora storicamente opposte) dell’accumulazione trovano finalmente la propria unità dialettica, oltre alla consapevolezza di tale unità. Per evitare qualsiasi equivoco sull’argomento, sarà ovviamente meglio sottolineare i limiti fondamentali di questo volto ‘libertario’ del capitalismo (il cui sviluppo indefinito costituisce, nella moderna divisione del lavoro politico, l’aspetto prioritario della sinistra ufficialmente di sinistra). Infatti, come “l’edonismo” celebrato dovunque dallo spettacolo non è che un patetico surrogato di un qualunque edonismo autentico, l’attuale trionfo dello spirito ‘libertario’ ha ben poco a che vedere con quello che un tempo si intendeva con quel nome. Per capire questo aspetto, basta non confondere più i progressi dell’autonomia individuale con quelli dell’atomizzazione dell’individuo, o l’effettiva liberazione dei costumi con quello che ne ha rappresentato finora una semplice liberalizzazione.

(7) Nel suo articolo sul “Vorwarts” del 10 agosto 1844, Marx sostiene che per mantenere un punto di vista radicalmente critico è indispensabile «sia un po’ di comprensione scientifica sia un po’ d’amore per gli uomini». Vero è che la sua successiva tendenza a ricercare sul versante delle scienze della natura le garanzie estreme dell’emancipazione dei proletari lo porterà poi progressivamente a trascurare le condizioni morali del progetto socialista (una “trascuratezza” di cui oggi si misurano le inesorabili conseguenze politiche, chiaramente previste e denunciate come tali, all’epoca, da Bakunin e dal movimento anarchico). Al contrario, proprio perché il suo atteggiamento aperto e la simpatia naturale nei confronti della gente comune lo immunizzava contro il mito inquietante di un “socialismo scientifico” (parente simmetrico, in questo, della “scienza” economica liberale), George Orwell rimane il miglior riferimento per chiunque non voglia rassegnarsi all’”incubo climatizzato” che le classi che ci dirigono hanno tutto l’interesse a costruire. «Un anno fa mi trovavo tra le montagne dell’Atlante e, osservando un villaggio berbero, mi venne da pensare che noi magari abbiamo mille anni di vantaggio su quella gente, ma che non siamo messi meglio e che, tutto sommato, forse stiamo meno bene. Stiamo peggio di loro politicamente e con tutta evidenza siamo meno felici di loro. Siamo semplicemente arrivati a un punto in cui sarebbe possibile attuare un miglioramento reale della vita umana, ma non ci riusciremo se non ammettendo l’indispensabilità dei valori morali dell’uomo comune (without the recognition that common decency is necessary). La mia principale ragione di speranza per l’avvenire sta nel fatto che la gente comune è sempre rimasta fedele al proprio codice morale» (George Orwell, Lettera a Humphry House, del1’11 aprile 1940). Non conosco una formulazione migliore della tematica socialista.

(8) Miguel Amoros, Où en sommes-nous? Pour servir à éclaircir quelques aspects de la pratique critique en ces temps malades, febbraio 1998 (questo pregevole opuscolo, purtroppo, è difficile da reperire nei circuiti ufficiali). Uno dei segni più nitidi del declino dell’intelligenza critica è l’incapacità di un numero crescente di nostri contemporanei di immaginare una figura dell’avvenire che non sia una semplice amplificazione del presente. Insomma, abbiamo disimparato che una civiltà, una cultura, possono morire. È vero che si tratta di un fatto difficile da accettare e che molti preferiscono esserne distratti. Dopo tutto, quale Attalius o quale Mincus si sarebbe immaginato, nella Roma splendente del IV secolo, che solo duecento anni dopo l’impero e la sua marmorea eternità avrebbero ceduto il passo a popolazioni analfabete, insediatesi negli spazi disurbanizzati dell’alto Medioevo? L’avvenire degli uomini non sta scritto da nessuna parte. Per il meglio come per il peggio.

 

4.3 Cosa può dirci la scienza sulla crisi

 

In un libro uscito nel gennaio scorso, per i tipi degli Editori Laterza, di Francesco Sylos Labini, dal titolo Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, e che mi ha riportato piacevolmente indietro nel tempo di più di cinquant’anni, visto che il primo capitolo riprende i fondamenti della fisica, studiati nel biennio propedeutico per la laurea d’ingegneria, ho trovato quello spirito di cui avrebbe bisogno l’umanità per battersi contro il liberismo soffocante di questa epoca. Nell’introduzione, che riporto di seguito per intero, l’autore sottolinea che:

«Uguaglianza, libertà, fratellanza, fino a qualche decennio fa parole guida, hanno perso rilevanza in un periodo storico in cui le disuguaglianze sono molto più marcate che in passato, la libertà si è ridotta progressivamente in nome dell’emergenza terroristica per garantire la sicurezza, e la solidarietà è sopraffatta dalla prepotenza o dall’indifferenza. Inoltre, la possibilità di migliorare la propria situazione appare sempre più remota proprio a causa di disuguaglianze diventate insormontabili, ed è così decaduto anche il ruolo dell’istruzione superiore come volàno per la mobilità sociale. La grande crisi che stiamo attraversando, prima di essere economica e sociale, è dunque una crisi politica e culturale che ha investito tutta la nostra società».

 

4.3.1 L’introduzione a Rischio e Previsione

 

È ovviamente Francesco Sylos Labini a parlare:

«Ho il privilegio di passare gran parte del mio tempo cercando di risolvere problemi di fisica teorica che sono piuttosto lontani dalla vita di tutti i giorni. Vivo però in un paese, l’Italia, che si trova immerso in una serie di crisi che mi toccano da vicino come scienziato e, soprattutto, come cittadino, ed è per questo che mi sono proposto di apportare alla discussione pubblica elementi dal mondo della ricerca scientifica: sono convinto che questo sia un compito essenziale nel nostro tempo, in cui l’ideologia e gli interessi economici non solo determinano l’agenda pubblica e dei governi, ma permeano anche la scuola, l’università e la cultura in genere.

Stiamo assistendo a una crisi economica che ha messo in ginocchio l’economia di tutto il mondo e che si somma a una crisi economica che ha caratteristiche tutte italiane. Questa situazione si sovrappone, essendone conseguenza, a una crisi politica, che di nuovo ha diverse connotazioni, ragioni e sviluppi a livello internazionale, europeo e italiano. Tuttavia, prima di tutto, c’è una crisi culturale, e anch’essa ha un respiro globale. Sembrano essere scomparse le grandi utopie che hanno dominato il recente e prossimo passato. Uguaglianza, liberta, fratellanza, fino a qualche decennio fa parole guida, hanno perso rilevanza in un periodo storico in cui le disuguaglianze sono molto più marcate che in passato, la liberta si è ridotta progressivamente in nome dell’emergenza terroristica per garantire la sicurezza, e la solidarietà è sopraffatta dalla prepotenza o dall’indifferenza. Inoltre, la possibilità di migliorare la propria situazione appare sempre più remota proprio a causa di disuguaglianze diventate insormontabili, ed è cosi decaduto anche il ruolo dell’istruzione superiore come volàno per la mobilità sociale. La grande crisi che stiamo attraversando, prima di essere economica e sociale, è dunque una crisi politica e culturale che ha investito tutta la nostra società.

La ricerca scientifica non è esente da questa crisi ma anzi la subisce in modo particolare. Da una parte la penuria di risorse è diventata un problema strutturale in molti paesi. in particolare dell’Europa meridionale, con tanti giovani scienziati che hanno risibili possibilità di continuare a svolgere l’attività di ricerca in modo stabile. Dall’altra parte l’esasperata competizione sta drogando e stravolgendo il lavoro dei ricercatori, e la ricerca scientifica sta cambiando completamente il suo corso, negativamente, per effetto di questa pressione.

La maniera in cui è stata gestita la crisi economica, attraverso le politiche di austerità, proprio nei paesi più in dissesto da un punto di vista finanziario, ha dato luogo a un soffocamento della ricerca scientifica che, generando un circolo vizioso, inibisce a sua volta la possibilità di sviluppare quelle ricerche innovative che potrebbero contribuire a guidarci fuori dalla crisi stessa. Soprattutto, per effetto della crisi, le forze intellettuali che dovrebbero fornire nuove idee ed energie sono state marginalizzate in un limbo di precarietà da cui non si vede l’uscita: a causa dell’assenza di catalizzatori le nuove generazioni si trovano atomizzate e senza una prospettiva, né individuale né comune.

La scienza può fornire degli strumenti chiave utili non solo per comprendere i problemi della nostra epoca, ma anche per tracciare delle prospettive che possono rappresentare una solida e valida alternativa alla dilagante legge del più forte – un malinteso darwinismo sociale – oggi in auge. Questo saggio, muovendosi sull’interfaccia tra divulgazione scientifica e politica scientifica, con alcune incursioni nella storia e nella filosofia della scienza, si propone dunque di mostrare come le idee sviluppate nell’ultimo secolo nell’ambito delle scienze naturali – dalla meteorologia alla biologia, alla geologia e, soprattutto, alla fisica teorica – giochino un ruolo chiave per la comprensione dei problemi alla radice della crisi attuale, apparentemente diversi e non connessi, e possano suggerire soluzioni possibili e originali.

Uno dei fili conduttori del nostro percorso nella scienza moderna si propone di rispondere a questa centrale domanda: qual è l’utilità pratica, economica e culturale della ricerca fondamentale? Mi concentrerò in particolare sulla ricerca che riguarda le cosiddette scienze esatte, che hanno un più immediato impatto sulla tecnologia. Ciò non toglie che molti dei ragionamenti sviluppati nel corso del saggio si possano riferire alla scienza in senso lato, includendo anche le scienze sociali e le discipline umanistiche. La cultura, di cui la scienza rappresenta una parte importante, ma pur sempre una piccola parte, è il cemento fondante della nostra società».

 

4.3.2 I sacerdoti-economisti

 

«[…] Dalla politica economica a quella universitaria, dall’andamento delle Borse all’organizzazione del mercato del lavoro, da come operare i tagli alla sanità pubblica a come riorientare interi settori industriali, ecc.: sembra che non ci sia campo dello scibile e dell’azione umana che non possa esser ricondotto a un semplice modello applicabile in tutte le situazioni e valido per ottimizzare e rendere più efficiente qualsiasi situazione.

Tuttavia, ciò che è più importante, le teorie economiche hanno un impatto molto rilevante sulla nostra vita di tutti i giorni e da qualche decennio a questa parte quella neoclassica, dominante – come vedremo – nell’accademia, nella politica e nel dibattito pubblico, ha spinto in favore della deregolamentazione e della liberalizzazione dell’economia con l’argomento che i vincoli di ogni genere impediscono ai mercati di raggiungere il loro equilibrio perfetto e il loro stato di massima efficienza. Il punto cruciale dell’impatto della dottrina economica sulle scelte politiche e ben spiegato dal fisico Mark Buchanan nel suo documentato saggio sul tema. (9)

Nell’ultimo mezzo secolo la teoria economica neoclassica ha fornito le basi teoriche per sostenere che, al fine di aumentare l’efficienza del mercato, i governi avrebbero dovuto privatizzare le proprie industrie e deregolamentare il mercato stesso. Questo risultato sarebbe dimostrato da raffinate teorie economiche che, attraverso una procedura logico-deduttiva, caratterizzata da un certo rigore formale matematico, avrebbero fornito una serie di teoremi matematici a supporto di tali conclusioni. Tuttavia, studiando le ipotesi alla base dei teoremi matematici utilizzati in economia, si nota una straordinaria differenza tra le condizioni in cui questi si applicano e la realtà: il realismo, al contrario del rigore, è stato del tutto trascurato. A differenza delle teorie della fisica, come ad esempio la teoria della relatività o la meccanica quantistica, che sono state soggette a un’intensa verifica sperimentale, non sembra che per quanto riguarda l’economia neoclassica ci sia stata una simile tensione per testare le ipotesi su cui si basa attraverso il loro confronto con la realtà empirica.

Il fisico teorico francese Jean-Philippe Bouchaud, esperto anche nello studio dei mercati finanziari, in un editoriale dal titolo L’economia ha bisogno di una rivoluzione,(10) pubblicato su “Nature” nel 2008, all’indomani del fallimento della Lehman-Brothers, manifestò un’analoga preoccupazione. Dopo aver rilevato come il progresso delle conoscenze in fisica abbia permesso lo straordinario sviluppo tecnologico – dalla conquista della Luna alla diffusione di quei concentrati di scoperte tecnologiche che abbiamo in tasca nella forma di smartphones – cui abbiamo assistito negli ultimi cinquant’anni, si chiedeva: “Qual è allora un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi?”.

I ilbuica tlamatilizmatini maya sapevano prevedere le stagioni, ma i sacerdoti-economisti moderni sono davvero capaci di interpretare i comportamenti e i movimenti degli uomini, dei mercati, delle economie, degli Stati, e di prevederne il futuro? L’opinione pubblica, i cittadini, i politici, per perseguire i1 benessere particolare e, soprattutto, quello generale, possono davvero fidarsi dei consigli e delle previsioni dei sacerdoti-economisti?».

 

(9) Mark Buchanan, Forecast: What Physics, Meteorology, and the Natural Sciences Can Teach Us About Economics, Bloomsbury, London 2014 (trad. it., Previsioni. Cosa possono insegnarci la fisica, la meteorologia e le scienze naturali sull’economia, Malcor D’ Edizione, Palermo 2014).

10 Jean-Philippe Bouchaud, Economics Needs a Scientific Revolution, « Nature », vol. 455, 30 ottobre 2008, p. 1181. Bouchaud si riferisce all`economia neoclassica.

 

 

 

4.3.3 La domanda della regina

 

«Il 15 settembre 2008 la società di servizi finanziari Lehman Brothers presentò istanza di fallimento: si è trattato della più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti poiché la Lehman deteneva più di 600 miliardi di dollari di debiti bancari. Questo importante evento, che può essere considerato l’apice di una serie di turbolenze iniziate qualche anno prima,

ha innescato una crisi finanziaria globale, la più grande dal crollo di Wall Street del 1929, che a sua volta ha determinato una recessione ancora oggi in atto, dopo otto anni, in molti paesi. Tra il settembre del 2007 e il febbraio del 2009 la Borsa ha infatti perso il 50% del suo valore e le conseguenze di questi eventi drammatici non sono ancora esaurite.

Qualche mese più tardi, il 5 novembre 2008, la regina Elisabetta e il duca di Edimburgo visitarono la più importante istituzione accademica per gli studi economici del Regno Unito la London School of Economics (LSE), per inaugurate un nuovo edificio. Durante la cerimonia di apertura, Sua Maestà pose quella che è passata alla storia come “la domanda della regina”. Secondo i quotidiani inglesi, dopo aver discusso della crisi finanziaria globale che all’epoca stava esplodendo in tutta la sua virulenza, chiese ad alcuni professori della LSE: “Perché nessuno se n’è accorto in tempo?”. In effetti, sebbene alcuni economisti avessero previsto che una crisi finanziaria globale era in arrivo, la maggior parte di essi, e in particolare quelli che si rifanno alla scuola neo-classica – quasi tutti i docenti della LSE –, non erano riusciti a prevederla; anzi molti di loro avevano negato che ci fosse il rischio di una grave crisi finanziaria in via di sviluppo.

La domanda della regina mette a fuoco il problema delle previsioni in economia. Nel capitolo I (del testo del Sylos Labini beninteso!), abbiamo distinto due categorie di previsioni: quelle utili a falsificare una teoria scientifica e quelle che, dando per assodate la validità e la conoscenza delle leggi dinamiche, attraverso la combinazione di grandi quantità di dati osservativi, di simulazioni numeriche e di modelli fenomenologici, si propongono di fornire degli elementi predittivi su sistemi aperti e complessi che possono essere di aiuto ai decisori politici per scopi diversi, dalla prevenzione di calamità naturali alla protezione civile. Nel caso dell’economia, come vedremo, le previsioni si dovrebbero caratterizzare per avere elementi di entrambe le categorie: da una parte, infatti, abbiamo a che fare con un sistema complesso e aperto per cui le previsioni sono utili per ovvie ragioni di pianificazione politica; dall’altra parte, le previsioni possono essere usate per falsificare i modelli teorici da cui sono elaborate.

A differenza della previsione dei terremoti, degli eventi meteorologici estremi o anche del meteo ordinario, in cui si conoscono le leggi di evoluzione deterministiche, in economia queste leggi non sono note né hanno un carattere universale e immutabile come le leggi di natura. È necessario, dunque, formulare dei modelli basati su alcune assunzioni teoriche per descrivere il comportamento dei sistemi economici e dei suoi agenti. Da questi modelli si possono ricavare una serie d’indicazioni sia sul loro comportamento futuro sia su come intervenire, ad esempio, per implementare determinate politiche economiche: in entrambi i casi, le assunzioni del modello giocano un ruolo chiave. Perciò il confronto dei modelli e delle assunzioni alla loro base con la realtà, che sia questa l’andamento macroeconomico di un paese o i prezzi dei prodotti o il valore di azioni, ecc., dovrebbe fornire il riscontro ultimo della bontà delle ipotesi teoriche utilizzate.

Inoltre, mentre nel caso dei fenomeni naturali non si può intervenire sulle leggi che regolano la loro dinamica, nel caso dell’economia queste leggi sono frutto delle decisioni umane e dunque possono essere cambiate dall’azione politica. Per questo motivo i decisori politici, così come l’opinione pubblica nel suo insieme, dovrebbero essere molto sensibili al tema delle previsioni e alla capacità dei modelli teorici di spiegare la realtà. Infine, a differenza del caso, ad esempio, dei terremoti, ci sono molti dati che caratterizzano il sistema economico che possono essere osservati. Dunque la domanda è: sono questi dati sufficienti a capire la validità delle assunzioni dei modelli teorici?».

 

4.3.4 Quale crisi?

 

«Diversi illustri economisti hanno reagito in maniera opposta al dibattito scaturito sul tema della mancata previsione della crisi nel 2008. Ad esempio, due noti economisti inglesi, Tim Besley e Peter Hennessy, hanno redatto una lettera alla regina riassumendo le posizioni emerse nel corso di un forum promosso dalla British Academy per rispondere alla “Queen’s question”. Scrivono:

Quindi, in sintesi, Vostra Maestà, l’incapacità di prevedere i tempi, la grandezza e la gravità della crisi, e di prevenirla, pur avendo molte cause, è stata principalmente un fallimento dell’immaginazione collettiva di molte persone brillanti, sia in questo paese sia a livello internazionale, di comprendere i rischi per il sistema nel suo complesso.

Anche Paul Krugman, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 2008, ha riconosciuto il fallimento delle previsioni degli economisti e ha posto l’accento su un aspetto molto interessante:

Pochi economisti hanno previsto l’attuale crisi, ma questo fallimento predittivo è l’ultimo dei problemi del campo. Più importante è la cecità della categoria per la stessa possibilità di crisi catastrofiche in un’economia di mercato. (11)

A distanza di cinque anni Krugman, rimanendo sulla stessa posizione, chiarisce perché l’incapacità predittiva è corrisposta a una disfatta intellettuale per gli economisti neoclassici:

quasi nessuno ha previsto la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione. (12)

Molti altri economisti hanno invece interpretato la crisi del 2008 in modo completamente diverso e dunque hanno opinioni molto differenti sul ruolo della dottrina economica. È il caso di Robert Lucas, membro di spicco della Scuola di Chicago, noto per essere critico verso l’economia keynesiana, autore dell’approccio delle ‘aspettative razionali’, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1995 e, secondo Wikipedia, (13) “costantemente indicizzato tra i primi dieci economisti nella classifica della Research Papers in Economics”. Per comprendere l’origine del suo giudizio sul fallimento delle previsioni in occasione della grande crisi, è possibile partire da un passo della relazione che fece al convegno dell’American Economic Association nel 2003:

La mia tesi in questa conferenza è che la macroeconomia, nel suo senso originario, ha avuto successo: il suo problema centrale della prevenzione di depressioni è stato risolto, per tutti gli scopi pratici, ed è, infatti, stato risolto per molti decenni. (14)

Negli anni successivi, di fronte al precipitare degli eventi che poi hanno condotto alla crisi globale, Lucas continuò ad avere una certa fiducia nel funzionamento del sistema economico: il 19 settembre 2007, in una lettera al “Wall Street Journal”, scrisse:

Sono scettico sulla tesi che il problema dei mutui subprime15 contaminerà l’intero mercato dei mutui, che la costruzione di alloggi arriverà a una battuta d’arresto, e che l’economia scivolerà in una recessione. Ogni passo in questa catena è discutibile e non é stato quantificato. Se abbiamo imparato qualcosa dagli ultimi vent’anni, è che c’è parecchia stabilità integrata nell’economia reale». (16)

 

(11) Paul Krugman, How Did Economists Get It So Wrong?, “The New York Times”, 2 settembre 2009.

(12) Paul Krugman, How To Get It Wrong, “The New York Times”, 14 settembre 2014 (trad. it. [41 La disfatta degli economisti, “la Repubblica”, 16 settembre 2014).

(13)  Si veda il sito https://en.wikipedia.org/ wiki/Robert_Lucas, Jr

(14) Robert Lucas Jr., Macroeconomics Priorities, “American Economic Review”, vol. 93, n. 1, 2003, pp. 1-14.

(15)  Prestiti che sono concessi a un soggetto che non può accedere ai tassi d’interesse di mercato perché ha avuto problemi precedenti nella sua storia di debitore. Poiché i debitori subprime sono considerati ad alto rischio d’insolvenza, questi prestiti hanno tipicamente condizioni meno favorevoli rispetto alle altre tipologie di credito, condizioni che includono tassi d’interesse, parcelle e premi più elevati. I prestiti subprime sono dunque rischiosi sia per i creditori sia per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi d’interesse, cattiva storia creditizia del debitore e situazioni finanziarie poco chiare o difficilmente documentabili di chi ha accesso a questo tipo di credito.

(16) Robert Lucas Jr., Mortgages and Monetary Policy, “The Wall Street Journal”, 19 settembre 2007. La posizione di Lucas è stata condivisa da tantissimi economisti di scuola neoclassica. Ad esempio, l’economista Alberto Alesina, in un’intervista alla “Stampa” il 20 agosto 2008, sosteneva che «Non ci sarà nessuna crisi del 1929 [...]: quella in atto è una correzione come ce ne sono state altre, e le Banche centrali stanno reagendo in maniera appropriata». Analogamente Francesco Giavazzi scrisse il 4 agosto 2007 sul “Corriere della Sera”: «la crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata». Esattamente il contrario di quello che è accaduto.

 

4.3.5 Egemonia culturale (17)

 

«Sono passati più di sette anni dal fallimento della Lehman Brothers e in molti paesi la crisi si è approfondita, mentre nulla sembra essere cambiato nelle posizioni assunte sulle cause profonde della grande crisi globale da parte degli economisti che hanno voce in capitolo nelle maggiori istituzioni internazionali e nel governo degli Stati. Le valutazioni prevalenti sull’origine della crisi e sul fallimento delle previsioni della grande recessione del 2008 (18) sono ancora per lo più collegate all’idea che l’economia possa subire degli shock, ma che sia poi in grado di tornare allo stato della piena occupazione delle risorse, e che sia sufficiente mantenere il controllo sulle turbolenze dei mercati finanziari sotto il profilo della loro regolamentazione per evitare che si ripetano eventi analoghi. Non fa invece parte di queste valutazioni l’idea che la crisi finanziaria sia l’epifenomeno di una profonda crisi dell’economia reale, una crisi di domanda che la finanza ha drogato generando l’indebitamento cronico di grandi fasce della popolazione sia negli Stati Uniti sia in Europa.

È evidente che la diversa interpretazione delle cause che hanno dato luogo alla crisi condiziona le terapie che sono messe in atto per un suo superamento e che, naturalmente, gli esiti delle terapie saranno tanto migliori quanto più il “modello” interpretativo della crisi ne cattura reali caratteristiche e fondamenti. Ed è qui che sorge il problema cruciale. Quando si parla di economia, infatti, non è possibile rapportarvisi alla stregua di una disciplina delle scienze naturali, poiché l’oggetto del suo studio è la società con caratteristiche storicamente determinate. Guardare a un “modello” piuttosto che a un altro nell’interpretazione fondamentale dei fatti economici non significa quindi semplicemente introdurre assunzioni alternative rispondenti a uno statuto epistemologico in grado di testarne la validità – così come accade nelle scienze naturali. Piuttosto, significa sposare delle vere e proprie Weltanschauungen diverse, visioni alternative del mondo in cui la componente egemonica della cultura dominante in ogni dato periodo svolge un ruolo determinante. In questo senso è possibile affermare che la genesi della crisi, il suo svolgimento, le possibilità di uscirne e gli effetti sulle economie che la attraversano, sono intrinsecamente collegati a un problema di egemonia culturale.

Il modo in cui la riflessione economica prevalente si è rapportata alla crisi fin dal suo nascere è tipico della visione mainstream, che – come abbiamo visto – affonda le sue radici nei riferimenti principali della teoria neoclassica. In questo schema teorico l’economia è concepita come una scienza che studia le scelte alternative tra risorse scarse, e il mercato é il luogo di allocazione ottima delle risorse, garantita da soggetti razionali in grado di utilizzare tutta l’informazione disponibile veicolata dai prezzi che di tali risorse misurano la scarsità. Secondo questo modello, sviluppato in base all’impostazione formulata da Walras alla fine del XIX secolo, nel mercato si determinerebbe “naturalmente” un equilibrio, che è il punto d’incontro fra domanda e offerta, secondo un processo che è di tipo esclusivamente logico-deduttivo e che quindi prescinde totalmente dalle diversità tra economie nel tempo e nello spazio. Eventuali scostamenti dall’equilibrio del mercato hanno solo natura temporanea perché, secondo questa visione, il sistema economico è destinato a convergere spontaneamente verso l’equilibrio. In tale situazione, come testimonia il brano di Robert Lucas che abbiamo proposto in precedenza, la crisi non può essere prevista semplicemente perché non è neppure concepita. Perciò di fronte al suo manifestarsi è possibile unicamente attribuirle il carattere della momentanea accidentalità, oppure si cerca di individuare imperfezioni del mercato che non consentono il raggiungimento dell’equilibrio, magari proponendo di ridurre l’intervento dello Stato.

Secondo la visione che ha segnato lo stesso nascere della disciplina economica e che si afferma all’indomani della prima rivoluzione industriale con il pensiero di Adam Smith,(19) l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società, tesa a studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di riproducibilità ed eventualmente di sviluppo in base a criteri di divisione del lavoro, in un contesto sociale, istituzionale e normativo che condiziona nel tempo e nello spazio il ruolo e le azioni dei diversi soggetti. Per questo motivo ci si riferisce all’economia politica: si guarda al mercato come a un complesso sistema istituzionale di norme storicamente determinate e privo di qualsiasi connotato di naturalità. In questa situazione non è per niente scontato che il mercato assicuri il pieno e ottimale impiego delle risorse. L’approccio dell’economia politica è dunque intrinsecamente predisposto a concepire il prodursi di crisi e la necessità di operare nel mercato quei correttivi che assicurino almeno la riproducibilità del sistema economico. Al di là delle diverse versioni e approfondimenti che si sono succeduti, passando per Ricardo e Marx per arrivare fino a Keynes, la visione dell’economia politica resta ancorata a una rappresentazione del sistema economico in cui la dimensione delle classi sociali e la diversità d’interessi che a queste si associano ne determinano un assetto fondamentalmente instabile.(20)

Alla luce di ciò, è facilmente comprensibile come nella visione neoclassica mainstream sia apparentemente assente un qualsiasi ruolo della politica, ma che in realtà questa visione implichi che la politica sia subordinata ai mercati, agendo in una forma, al più, tecnocratica al fine di facilitarne il funzionamento. La predominanza di questa visione negli ultimi trent’anni ha prodotto una specifica egemonia culturale che, nonostante il perdurare della crisi, è ancora dominante sia nell’accademia sia nel dibattito pubblico. In effetti, la visione neoclassica mainstream appare dotata di un’intrinseca capacità di sopravvivenza: la dimensione del sistema economico come fatto di natura suscettibile di essere studiato secondo un metodo che si confà alle leggi delle scienze naturali è un aspetto di fondo che la caratterizza e che porta ad escludere l’esistenza di qualunque dimensione ideologica alternativa con la quale confrontarsi. In questo modo la visione neoclassica mainstream ha goduto (e tuttora gode) della possibilità di blindarsi attraverso la struttura assiomatica delle assunzioni su cui è basata. E così facendo lascia trasparire che le uniche discussioni ammissibili siano quelle condotte entro la propria cinta concettuale. Le politiche di austerità sono state ispirate dallo stesso paradigma ideologico sottostante la prospettiva neoclassica e sono state adottate proprio per effetto dell’egemonia culturale nell’accademia e nella politica che abbiamo discusso in precedenza. Ad esempio, un famoso articolo degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, (21) tra i più citati negli ultimi anni, ha evidenziato l’esistenza, in diversi paesi, di una correlazione tra un alto rapporto debito/PIL (maggiore del 90%) e la bassa crescita. L’articolo tuttavia si è rivelato affetto da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo. (22) Eppure è stato tra quelli usati per giustificare l’austerità, il pareggio di bilancio e la necessità di “rimettere a posto i conti” nei diversi paesi. Sebbene i dati stessi, analizzati correttamente, non mostrino alcuna correlazione tra debito e PIL, e dunque non giustifichino in nessun modo le assunzioni delle politiche d’austerità, queste non sono cambiate. Secondo Paul Krugman, (23)  malgrado il fatto che le previsioni della posizione pro austerità siano state smentite dai dati empirici, la teoria a favore dell’austerità ha rafforzato la sua presa sull’élite proprio in quanto il programma dell’austerity avvantaggia la posizione dei ceti abbienti: “ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare”.

Insomma, la realtà è molto semplice: le politiche economiche, come sempre, avvantaggiano alcuni e svantaggiano altri. Chi ha interesse nel perseguire le politiche d’austerità ha avuto la capacità d’influenzare le scelte dei governi e ha protetto e incentivato chi ha sostenuto, purtroppo anche nell’accademia, tale politica. In questo modo l’egemonia nell’accademia e nella politica diventa egemonia culturale nella società. Come conseguenza di questa egemonia culturale sono saltati riferimenti intellettuali e culturali differenti da quelli del paradigma economico dominante che, dunque, diviene l’unico pensiero possibile. Così, nella confusione politica generale che stiamo vivendo, le idee della destra economica hanno permeato i partiti social-democratici di tutta Europa: una politica ormai priva d’idee e di contenuti assume la soluzione liberista come l’unica possibile. Come esempio di questa situazione, analizzeremo nel capitolo IV il fatto che la politica scientifica e tecnologica in Europa, sia nei singoli paesi che a livello comunitario, è stata. ampiamente modellata da questa ideologia».

 

(17) Le idee sviluppate in questo paragrafo sono state discusse, in forma più concisa, nell’articolo di Daniela Palma e Francesco Sylos Labini, Neoliberismo ed egemonia culturale, “La Costituente”, n. 0, 17 dicembre 2013 (http://www.syloslabini.info/online/neoliberismo-e-egemonia-culturale/).

(18) Simon Potter, The Failure to Forecast the Great Recession, “Liberty Street Economics”, 25 novembre 2011.

(19) Alessandro Roncaglia, Il mito della mano invisibile, Laterza, Roma-Bari 2005.

((20) Per approfondimenti di questi aspetti rimandiamo a Paolo Sylos Labini, Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Laterza, Roma-Bari 2004; Giorgio Lunghini, La teoria economica dominante e le teorie alternative, lectio magistralis tenuta all’Accademia Nazionale dei Lincei, 2011; Alessandro Roncaglia, Le origini culturali della crisi, “Moneta e Credito”, vol. 63, n. 250, 2010.

(21) Carmen M. Reinhart, Kenneth S. Rogoff, Growth in a Time of Debt, “American Economic Review”, vol. 100, n. 2, 2010, pp. 573-578.

(22)  Thomas Herndon, Michael Ash, Robert Pollin, Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff, “Cambridge Journal of Economics”, 24 dicembre 2013, pp. 1-23.

(23) Paul Krugman, How the Case for Austerity Has Crumbled, “The New York Review of Books”, 6 giugno 2013.

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