La direzione dello sguardo

lug 21st, 2020 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

 

Viviamo tempi davvero confusi. Potrei caratterizzarli come il tempo della estenuazione di una estenuazione. Il senso della critica ha perso da lunghi decenni il solido ancoraggio nelle dure condizioni materiali che il socialismo aveva inteso dargli, per tradursi in una postura che cresce nel vuoto di progetto. Questo slittamento non era avvenuto tanto per effetto di un superamento effettivo, totale, della durezza del vivere, quanto per un estenuarsi della fiducia sotto i colpi delle sconfitte.

Sconfitte, non fallimenti.

La durezza del vivere è sempre rimasta con noi. Ma è stata nascosta sotto il velo della nebbiolina sottile che la cultura cosiddetta “postmoderna” ha lentamente alzato da terra. La perdita di riferimento ha spostato tutta l’attenzione sul medium e del significato sul significante.

Da qualche anno, però, anche questa estenuazione sta giungendo al suo, proprio, esaurirsi. Questa singolare condizione nasce dal tornare in primo piano della durezza in forme non aggirabili. Un urlo che, alla fine, finisce per essere più forte delle nebbie.

Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti (da qui a volte M&C) hanno fatto l’importante sforzo di rispondere con un densissimo e a tratti molto chiaro testo[i] al dibattito che era scaturito dal loro primo articolo[ii]. Per la verità la replica è molto più larga, e si riferisce contemporaneamente alle obiezioni di Fabrizio Marchi[iii], su L’interferenza, e di Alessandro Visalli (ovvero di chi scrive)[iv], e quelle di Moreno Pasquinelli[v], su Sollevazione. Seguiranno sia la seconda parte del pezzo di Pasquinelli[vi] e la replica di Alessandro Visalli[vii].

I nostri riassumono questo quadro in una posizione “A” e “B”. La prima vorrebbe censurare la sottovalutazione dei rischi insiti nell’alleanza con quei ceti sociali intermedi (tradizionalmente nominati come piccola e media borghesia) che sarebbero attratti dal proprio desiderio individuale di distinzione che li porta inesorabilmente a saldarsi con i ceti superiori e trovare comune interesse nello schiacciare i ceti lavoratori. La seconda condivide la designazione dei “bottegai” come “ultimo argine”, e quindi la prospettiva della costruzione di un “blocco storico nazional-popolare”[viii], ma lamenta che sia istituita nel testo di M&C una gerarchia tra la conquista socialista dello Stato e la rivendicazione della sovranità nazionale contro la Ue.

Con riferimento al primo fronte (le obiezioni di Marchi e Visalli) viene rivendicata una maggiore articolazione di discorso per cui, ad esempio, tra piccola borghesia e lavoratori dipendenti non ci sarebbe tanto un’identità, come a loro dire sostenuto nella critica, quanto propriamente un reciproco “scompaginamento”. Un “mescolamento”, tanto sul piano materiale quanto su quello “antropologico-simbolico”. Dunque, ci sarebbe da tracciare al più una “mappa”, uno “spettro di figure”[ix] per il quale si ricorre ad una classificazione tra lavoratore, risparmiatore e consumatore. Tutti variamente “traumatizzati”. Nella descrizione compare immediatamente l’elemento progettuale, nel momento in cui al lavoro di “individuare differenze” si associa quello di “disarticolarne la configurazione attuale”, ovvero, specificamente, di “spezzare le alleanze con i gruppi effettivamente dominanti”. Ma per farlo bisogna per M&C “rapportarsi a questa galassia composita, sapendo di dover fare i conti anche con codici culturali – ad esempio la diffidenza per il pubblico – in parte trasversali a gruppi fortemente differenziati per il solo interesse materiale”.

Inoltre, viene contrastata la critica, sollevata nell’articolo di Visalli il quale censurava nel pezzo di M&C la tesi che vorrebbe la soggettivazione imprenditoriale (con conseguente individualismo) in particolare concentrata nella classe lavoratrice e in misura minore in quella della piccola e media borghesia. Il punto di contrasto è in sostanza ribaltato. A parere dei nostri la qualificazione del lavoro dipendente come “buono e continuo, se pur povero” manifesterebbe un pregiudizio favorevole. Per sostenere il punto (ovvero che sia in campo una sorta di marxismo ingenuo) viene evocato un sociologo eretico come Bourdieu.

Come seconda questione viene lamentato che non si sia mai trattato, nel loro contributo, di far semplicemente coincidere potere e Stato. O, in altre parole, di fare della presa del potere dello Stato l’intero campo di azione della politica tramite la partecipazione, quale che sia il prezzo, al gioco elettorale. La questione è piuttosto di calcare il terreno dello Stato (“anche senza conquistarlo del tutto”), ovvero farsi eleggere, per cercare di ridefinirne ed orientarne il capitale ‘simbolico’ e per questa via al termine conquistare potere. Di qui l’importanza strategica della questione della nazione. Con le parole di M&C: “il riferimento alla nazione è, tra le altre cose, questione fondamentale – declinabile secondo diversi orientamenti – sulla quale fare leva per disporre del potere simbolico dello Stato”[x]. Viene citato in questo contesto un contributo di La Grassa[xi] che radicalmente sostituisce alla lotta tra ceti dominanti e dominati, intorno alla centralità del modo di produzione capitalista, quella tra le diverse frazioni dei ceti dominanti come intreccio di aspetti e cause economiche e geo-politiche. Queste sarebbero, nella prospettiva dell’autore, le cause delle crisi e dei rivolgimenti contemporanei. Ne deriva per i nostri la necessità di “interrogarsi senza moralismi sulla stabilità e trasformabilità di quelle alleanze”.

Da questo spostamento, piuttosto radicale, di prospettiva ne deriva l’accusa di fondo che M&C rivolgono alla prima batteria di critici (quella “A”): “tanto l’attendismo quanto il purismo economicista contribuiscono, invece, non poco a dare ossigeno, tempo e danaro a quei gruppi, che hanno così vita facile a ricollocarsi in modo da giocare una ‘lotta di classe’ dall’alto, che si continua a perdere, da un lato perché ci è stato tolto il terreno da gioco sotto i piedi, dall’altro perché non si è disposti a giocare nel terreno rimasto”.

Al terzo livello i nostri vengono a rispondere alle obiezioni sollevate all’approccio di Laclau, sia da “A” come da “B”, finendo tuttavia per confermarne il tenore. Infatti, per essi il filosofo argentino ha inteso centrare l’attenzione sul “discorso”, in quanto modo di “concettualizzare il rapporto attraverso il quale si danno elemento e relazioni come coappartenenti ad una totalità mai saturata, intimamente scissa, continuamente soggetta a ridefinizione identitaria per via di un’inestinguibile opacità dovuta al conflitto”. Non è molto chiaro cosa sarebbe una “totalità saturata”, né come cade strategicamente il termine “identitaria”, in questa frase. Ma continua: “il sociale è sempre tutto da fare e riconfigurare (politicamente), e assumerà determinate sembianze piuttosto che altre, a seconda di quali ‘significanti vuoti’ saranno in grado di costruire ed esprimere simbolicamente le catene equivalenziali più forti”.

In effetti per i nostri ciò non significa “comunicazionismo”, ma ne è, invece, un’ottima descrizione. La centralità della narrazione, in assenza di riferimento, o nella possibilità di considerare contendibile ogni riferimento, deriva profondamente e logicamente dalla comprensione del sociale come interamente soggetto (“tutto”) a costruzione e riconfigurazione da parte del linguaggio. O, con il gergo prescelto, di formule “vuote” e colonizzabili dalle soggettività date. Un termine come “onesto”, che può, in base alle esperienze di vita, interessi e sottofondi culturali di ognuno assumere diverso significato senza essere per questo tematizzato. I significati, proprio per il loro essere “vuoti”, in altre parole, si rendono disponibili a catturare il consenso e creare apparenti equivalenze tra soggettività diverse, e relative lotte ed ‘agende’, attraverso l’opportuna esibizione da parte di un leader credibile. La cosa poi regge, e ciò si è visto, fino a che questo leader e la sua stretta cerchia non vengono piegati dalla forza delle cose. Allora l’assenza di tematizzazioni emerge con tutta la sua devastante potenza, ovvero con il retro della potenza che ha espresso nella fase ascendente. Un’altra retorica, altri significanti vuoti vengono avanzati, o quelli vengono reinterpretati, e la politica muta di direzione.

Tutto resta eguale[xii].

La cosa abbastanza sorprendente, anche nello stesso Laclau, è che questa operazione di costruzione di superficiale consenso (come si è visto proprio in Italia e proprio nel miglior caso di successo) del tutto inutilizzabile per cambiare realmente le cose una volta che si giunga a contatto con la durezza materiale del mondo (che non è fatto solo di parole), viene etichettata come “costruzione di egemonia”. L’egemonia è ridotta, insomma, a “operazione di riarticolazione interna ad una formazione sociale e discorsiva” e quindi “costitutiva anche delle classi sociali in quanto soggetti politici” (corsivo nel testo).

Sulla base di queste premesse, mutuate da La Grassa e Laclau, i rapporti di produzione non determinano più il perimetro e la stessa mobilità del campo politico. Il quale non è solo rappresentazione di interessi.

Rispondendo a “B”, invece, che accusa la prospettiva di Laclau di abbandonare il terreno della concezione materialista della storia, i nostri affermano in modo del tutto franco che per il filosofo argentino la politica è “ontologia del sociale”. Ovvero essa è una costruzione egemonica che crea alleanze sociali e continuamente le risignifica. Questo, “il politico”, è, con altri termini, “l’essere stesso dei rapporti sociali colti sotto l’angolo prospettico della congiuntura” e ciò consentirebbe di immaginare nuove vie per ripoliticizzare l’esistente, dopo decenni di trasformazione neoliberiste.

In sostanza, come accade spesso nella replica di M&C, ci troviamo davanti alla conferma espressa di essere su una posizione che abbandona, ed interamente, il terreno della concezione materialista della storia. E lo fa per una acuta sensazione di sconfitta storica che, se può essere comprensibile in un anziano teorico come La Grassa (e nello stesso Laclau), appare particolarmente deludente nei “giovani” autori. La linea di frattura diventa antagonista solo in funzione di una volontà di egemonia, ovvero da una costruzione discorsiva fondata su “significanti vuoti” ben scelti e capaci di fratturare lo spazio rappresentativo e sociale, creando, o ri-attivando “momenti populisti”. Un pensiero che anche i nostri ammettono essere “debolista” e “postmoderno”, al contempo negando, con curioso argomento, di essere tacciabile di “indeterminismo”. Manca una determinazione fissa del sociale (ovvero un ancoraggio a qualche materialità) ma ciò non sarebbe indeterminismo proprio perché la sua assenza obbligherebbe “a determinarsi per esistere politicamente”. Precisamente affermando con ciò quel che si intende normalmente per “indeterminismo”, ovvero l’assenza di riferimento che sia esterno alla volontà del singolo soggetto agente[xiii].

Non aiutano frasi, o giochi di parole, come “la congiuntura non è tanto qualcosa di effimero, quanto piuttosto la cifra politica della determinazione”.

Da ultimo, scendendo dal livello elevato di astrazione al quale si è svolto il testo, Melegari e Capoccetti negano di escludere che si possano ricompattare classi dominanti e ceti medi intorno alla nuova fase aperta dalla crisi europea, in particolare a seguito della spinta triplice della crisi economica, dell’erogazione compensativa attesa e dell’austerità rilanciata (con i tempi e i diversi bersagli di queste tre ‘gambe’[xiv]), ma ritengono che non sia ancora un dato. Non ne derivano, in altre parole, sufficiente evidenza per riconfermare una visione “dicotomica” della società che “ha mostrato tutta la sua problematicità”. E confermano l’opinione che “allo stato attuale una forza socialista di qualche portata potrebbe, forse, assumere consistenza sedimentando relazioni, polarizzando e orientando forze all’interno di un campo in sé non socialista”.

Da ultimo si trova l’ultima formula: “la nostra ambizione, insomma, non è quella di sottrarsi alla diagnosi delle contraddizioni in seno al popolo, e soprattutto al compito di risolverle in modo non antagonistico, ma di costruire un popolo in seno alle contraddizioni del presente, poiché al di fuori di esse non si tratterà di un popolo”.

Una formula altamente ambigua, “costruire un popolo in seno alle contraddizioni del presente”, ovvero senza risolverle, restando nel loro “seno”. E ciò per un motivo, essenzialmente, che “al di fuori di esse non si tratterà di un popolo”. Un motivo oscuro. Al di fuori delle contraddizioni del presente, fuori del loro seno, non si tratterebbe di avere un popolo. Verrebbe da chiedere agli autori: “Che cosa è un popolo?”.

Ma torniamo al testo, dopo averne brevemente fatto la sintesi.

Tra chi scrive e M&C ci sono numerosi elementi di concordanza, ma anche di differenza. In estrema sintesi la differenza deriva dall’adesione o meno ad un’impostazione connessa con la letteratura e la postura teorica postmoderna. In numerosi punti, sia negli interventi originari, sia nelle repliche, dai nostri viene uno schema tradizionalmente replicato nella letteratura in oggetto, nata per differenza e polemica con la versione strutturalista del marxismo: secondo questa critica chi fa riferimento a contraddizioni fondate o ancorate a questioni materiali è infarcito di determinismo metafisico. In risposta vengono sollevate formulazioni vaghe, il cui scopo è far intendere che nulla può essere detto di sostanziale e che, quindi, tutto può essere fatto ed ottenuto. Tutto a condizione di creare la giusta rappresentazione. Ovvero a condizione di attivare la “politica”.

Si arriva al punto di non temere di fare affermazioni di esistenza “forti”, purché abbiano esiti “deboli”. È il caso della affermazione chiave di M&C: la politica è “ontologia del sociale”. Bisogna fare attenzione. Un’affermazione metafisica, per la quale i rapporti sociali sono “il politico” (o “il politico è l’essere dei rapporti sociali”), porta ad attribuire alla creazione di una frontiera antagonista attraverso la scelta arbitraria (dal menù disparato della contingenza) di “significati vuoti” e quindi di “catene equivalenziali” la funzione centrale ed ineludibile niente di meno che di creazione del sociale.

Pur senza direttamente contrastare gli argomenti fattuali avanzati nell’articolo di replica di Visalli, essi vengono incorniciati in un contesto del tutto opposto. Non è decisivo il fatto che i ceti lavoratori (solo in parte ascrivibili alla classe operaia, peraltro da considerare in modo molto esteso come risulta da una nota in “Avanzate e ritirate”[xv]) abbiano interessi strutturalmente opposti a parte dei ceti medi, come risulta quotidianamente dalla polemica pubblica. Ma è da valorizzare la circostanza che sia in campo anche un conflitto tra ceti dominanti principali e secondari (la famosa questione della borghesia dedita al mercato interno, probabilmente) e che la lotta sia da spendere soprattutto sul piano simbolico.

Qui l’utilizzo di una terna di autori certo non estranei al marxismo come La Grassa, Bordieu e Laclau, ma da esso molto lontani con il tempo. Autori per intero compresi nello spirito della sconfitta (e non già del fallimento[xvi]) e quindi della ritirata[xvii].

Non si tratta affatto di non essere “disposti a giocare nel terreno rimasto”, quanto di non giocare con armi che hanno dimostrato negli anni la propria assoluta inutilità. Anzi, il loro essere state forgiate dal nemico per essere inutili. Una cosa, e condivisibile, è non avere una rappresentazione rozza e schematica di “struttura” e “sovrastruttura”, cadendo nelle forme più metafisiche di economicismo e di determinismo storicista[xviii], un’altra, del tutto diversa, dissolvere ogni rilevanza alla materialità dell’esistenza e dei rapporti sociali che istituisce. Ancora, una cosa è ricondurre tutto alle forze produttive ed ai rapporti di produzione, disconoscendo l’importanza della decisione, della politica come apertura al possibile[xix], altro far della decisione politica l’ontologia del sociale.

Anche per effetto della letteratura per lo più citata il campo dei nostri scivola su quel tono così comune negli anni ottanta e novanta, nella sinistra radicale, del rifiuto del lavoro[xx], come razionalizzazione di due fenomeni concomitanti, l’espulsione dei lavoratori dalle fabbriche e la disgregazione di queste (uscita dal fordismo) e l’esaltazione del lavoro autonomo ai diversi livelli. Questa mitologia del lavoro autonomo (che mi ha biograficamente coinvolto, in quanto diplomato nel 1980) è in effetti una potentissima arma ideologica nelle mani del liberismo, dissolvendo il sociale e aprendo alle società variamente etichettate come “liquide” o “del rischio”[xxi]. Si è trattato di una potentissima “controepica” che si è opposta direttamente all’epica del “movimento operaio” portata avanti dal marxismo novecentesco. Questa “contro epica” è del tutto evidente, e quasi rivendicata all’avvio dell’intervento dei nostri (che, non a caso, prendono il “buon” lavoro enunciato per attaccare l’epica del lavoro operaio[xxii]).

Come dice Formenti, in altre parole, “alla base c’è la convinzione che il mondo della necessità. Il mondo del bisogno, sia un residuo medioevale perché lo sviluppo delle forze produttive, la conoscenza tecnologica e scientifica incorporata nel sistema delle macchine (il general intellect) hanno di fatto già risolto il problema”[xxiii].

Attraverso questa discussione, insomma, e attraverso la scelta che sottende, passa la frontiera tra la prosecuzione della mascherata postmoderna, immagine propria della sconfitta del socialismo riletta come fallimento, e delle sue infinite versioni di pensiero adattivo, e l’assunzione della possibilità di una ripresa della lotta. Ripresa determinata dal mutamento delle condizioni materiali e dal rovesciamento e fallimento della non società liberale. La riaffermazione della possibilità di ritrovare l’ancoraggio solido nelle dure condizioni materiali, le uniche che possono dare piede al salto necessario.

La nebbiolina si sta alzando.

Dovremmo lasciare le vecchie parole e ritrovare le nostre.


[i] – Diego Melegari, Fabrizio Capoccetti, “Il popolo in seno alle contraddizioni. Una risposta ad alcune critiche”, La Fionda, 9 luglio 2020.

[ii] – Diego Melegari, Fabrizio Capoccetti, “I ‘bottegai’ l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità”, 27 maggio 2020.

[iii] – Fabrizio Marchi, “Quale blocco sociale e con chi?”, L’interferenza, 6 giugno 2020.

[iv] – Alessandro Visalli, “Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere”, La Fionda, 7 luglio 2020, ovvero, in forma più estesa, “Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere”, Nella fertilità cresce il tempo, 7 giugno 2020.

[v] – Moreno Pasquinelli, “Nuova Direzione? (prima parte)”, Sollevazione, 18 giugno 2020.

[vi] – Moreno Pasquinelli, “Nuova Direzione? (seconda parte)”, Sollevazione, 23 giugno 2020.

[vii] – Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione”, Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020.

[viii] – Formula, si faccia caso, che riverbera toni gramsciani ma disancorandoli dalle condizioni storiche e sociali nelle quali era stato pensato. Non è possibile espungere dalla prospettiva gramsciana né il “Partito” né, soprattutto, l’egemonia della “classe operaia”. Il processo che arriva all’organizzazione delle masse, la vera novità irrompente nella politica dell’epoca di Gramsci, è di espansione dalla classe operaia al blocco storico. “Partito”, “Stato [di nuovo tipo]”, classe [operaia], popolo e nazione sono un’unità inscindibile nella riflessione di Gramsci. Il problema nasce nel momento in cui “blocco storico nazional-popolare”, perdendo il carattere processuale e l’ancoraggio originario, viene opposto ad una visione di classe della società, e ricondotto ad una sorta di visione organica della stessa. O, nei termini della Mouffe, ad una visione agonica e non antagonista.

[ix] – Qui viene citato un testo di Riccardo Bellofiore, “La crisi globale. L’Europa, l’euro, la sinistra”, Asterios, Trieste, 2012.

[x] – In questo passaggio gli autori rimandano a Diego Melegari, “L’anatra-coniglio della nazione ‘a sinistra’”, Senso Comune, 30 luglio 2019.

[xi] – Gianfranco La Grassa, “Gli strateghi del capitale: una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin”, ManifestoLibri, Roma 2005.

[xii] – Una maggiore esplicazione di questa vicenda e dei movimenti populisti storicamente presenti in Italia nel 2015-18 come “Contenitori d’ira”, si veda Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione”, Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020.

[xiii] – La questione del riferimento è mal risolta dalla sua semplice dissoluzione in una nuvola di parole, e di allusioni, come per lo più si compie nella letteratura postmoderna. È chiaro che non è possibile pensare senza contraddizione a modelli che catturino aspetti della società, come se questa fosse, completa e formata, fuori del modello e questo gli corrispondesse completamente. Ma è possibile immaginare, all’idoneo livello di astrazione e concretezza, un modello che espliciti catene causali (create in effetti nel modello stesso, ma a partire da riferimenti capaci di offrire una qualche resistenza) come costrutti provvisori e rischiosi. Un simile modello organizza la discussione ed anche il conflitto, e quindi si radica nelle forme di riconoscimento intersoggettivo. È condivisa l’idea che la nozione di una proprietà “intrinseca” delle cose “indipendente da ogni contributo proveniente dal linguaggio o dalla mente” sia “vuota” (Ding an Sich), come sosteneva già Kant nella prima critica. Ma se il mondo non è descrivibile come una “macchina” (idea di Newton che influenza anche Marx), se dobbiamo vivere senza fondamenti, purtuttavia dobbiamo riferirci per solide ragioni pragmatiche (cfr. Karl Otto Apel e Jurgen Habermas, ma anche Hilary Putnam) ad un concetto di verità come accettabilità razionale senza il quale nessuna frase assume senso e capacità di coordinamento sociale. Se dico qualcosa e pretendo essere ascoltato ho l’obbligo di riferirmi a qualcosa del mondo, o del mondo comune, dichiarandone l’esistenza. Questa esistenza deve essere pretendibile. Qui è in gioco, a ben vedere, la nozione kantiana di “autonomia” (opposta alla “eteronomia”), fornendo le ragioni per scegliere autonomamente, e quelle marxiane di “alienazione” e “falsa coscienza”. Ciò implica, per questo preciso motivo (il concetto di “autonomia” non è fattuale ma estremamente esigente e normativo) l’impossibilità di utilizzare il semplice fatto della felicità. Lo stato di felicità è, infatti, compatibile sul piano materiale, fisiologico e psicologico, con aspre forme di eteronomia, di soggezione e di sottodeterminazione dell’individuo. Putnam ricorda la centralità dell’ideale di “pensare con la propria testa” nella costruzione kantiana, in particolare in “La religione nei limiti della semplice ragione”. In questa particolare versione di una fondazione della verità sull’autonomia (che è sia individuale sia intersoggettiva), il fatto che ogni fondazione più forte sia indisponibile non è un disastro, è anzi un bene. È la condizione stessa dell’autonomia. Ma di una fondazione abbiamo bisogno, per non cadere nella forma di infantilizzazione che Huxley descrive ne “Il mondo nuovo”, nel quale tutti sono felici ma non prendono responsabilità, fanno scelte autentiche, dure, accettano e passano conflitti non redimibili.

[xiv] – Si veda “La mossa del cavallo. Francia e Germania, Ue e cronache del crollo”, Nella fertilità cresce il tempo, 31 maggio 2020.

[xv] – Già Adam Smith attribuisce un ruolo alle classi dedite alla riproduzione e circolazione del capitale e quindi alla realizzazione del surplus (o, nel linguaggio marxiano, del plusvalore). Marx individua le classi sociali non già in relazione al reddito, bensì alla relazione con il modo di produzione che nel capitalismo è dominato dal possesso privato dei mezzi di produzione. La prima tripartizione che è rilevante nell’analisi marxista è quella tra i lavoratori che sono produttivi di plusvalore, ovvero che vendono la propria forza-lavoro creando alle dipendenze di un possessore di capitale (e dei mezzi di produzione quali che siano) un valore scambiabile superiore a quello ottenuto come contropartita di essa, i lavoratori che non entrano direttamente in tale produzione ed assorbono parte del plusvalore estratto dai primi (impiegati alla contabilità, ai controlli di gestione, manager, addetti al marketing, …) restando comunque necessaria al complessivo circuito di produzione e realizzazione (ovvero di circolazione), e possessori del capitale e dei mezzi di produzione. Bisogna notare che sono lavoratori produttori di plusvalore non solo i classici operai manifatturieri, ma, già per Marx (che, del resto si inserisce nella tradizione da Smith a Ricardo), anche tutti i produttori di merci immateriali, ad esempio, un maestro di scuola (K. Marx, “Il capitale”, Newton Compton Editori, Roma 1996, pag. 372-373), o i camerieri in un ristorante. Il caso di un impiegato pubblico, invece, è quello di una figura intermedia che non produce in sé plusvalore ma lo impiega ed assorbe dai produttori, tramite le tasse, essendo tuttavia necessario alla riproduzione della forza-lavoro e quindi indirettamente coinvolto nel processo di produzione e riproduzione. Anzi, una maggiore valutazione dell’importanza della riproduzione (che non è specifica del sesso femminile, ma è una funzione di base della sussistenza sociale e naturale) è una delle caratteristiche distintive del recente capitalismo, cfr. Nancy Fraser, Rahel Jaeggi, “Capitalismo”, Meltemi 2019. Inoltre, Marx nei suoi testi più maturi si è ben guardato dal sostenere che il capitalismo tende allo schiacciamento tra lavoratori (come visto in senso allargato) e capitalisti, bensì ha riconosciuto l’esistenza di una controtendenza alla crescita delle classi intermedie, ovvero al: “costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante classe lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti” (K. Marx, “Storia delle teorie economiche II”, Giulio Einaudi editore, Milano 1977, p. 634). Si parla, seguendo Adam Smith, delle burocrazie statali, delle forze armate e delle classi professionali. Ma, sotto questo genere di classificazione, bisogna prestare attenzione, non è in questione il reddito (ovvero il ceto) bensì la posizione strutturale rispetto al capitale. È in questione la formazione economico-sociale. In Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione”, Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020.

[xvi] – Si veda per la stretta connessione tra la denuncia di “fallimento” del marxismo, anziché “sconfitta”, e lo spirito neoliberale, Domenico Losurdo, “Fuga dalla storia?” La scuola di Pitagora editrice, 2012.

[xvii] – Su questa diagnosi si veda Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi 2020, p.235 e seg.

[xviii] – Nelle quali non caddero neppure i ‘fondatori’. Ad esempio, Engels, in una lettera a Bloch nel 1890, spiegava: “secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo grado”.

[xix] – Si veda, ad esempio, Carlo Formenti, Onofrio Romano, “Tagliare i rami secchi”, Derive e Approdi 2019, p. 43.

[xx] – Si veda, ad esempio, per l’ambiente francese l’opera di André Gorz.

[xxi] – E’ il tema con il quale si apre il contributo Alessandro Visalli, “Avanzate e ritirate. Blocco sociale, egemonia e rivoluzione”, Nella fertilità cresce il tempo, 11 luglio 2020, al quale rimando.

[xxii] – Incidentalmente il “buon” si riferiva all’essere stabile. Secondo la linea di critica di Sennett.

[xxiii] – Carlo Formenti, Onofrio Romano, “Tagliare i rami secchi”, Derive e Approdi 2019, p. 57.

 

La Fionda  

Tags: , , ,

Lascia un commento