Rileggendo «La libertà comunista»

nov 10th, 2020 | Di | Categoria: Recensioni

In questo saggio (pubblicato nel volume curato da G. Liguori, Galvano Della Volpe. Un altro marxismo, Edizioni Fahrenheit 451, Roma 2000), Mario Tronti riattraversa un libro straordinario, fin dal folgorante titolo che già pone con forza l’irrisolto nodo centrale: La libertà comunista. L’autore è appunto Galvano Della Volpe, figura di grande importanza nel percorso di formazione teorico-politica dello stesso Tronti e di altri giovani che poi avrebbero preso parte all’esperienza dell’operaismo politico italiano. Un filosofo politico, ci dice Tronti, dotato della «capacità e volontà di forzare il pensiero, di radicalizzare ed estremizzare le posizioni altrui e quella propria», con «un pensiero irto di spigoli, non conciliante, mirato a sorprendere, poco interessato a convincere, non ortodosso senza essere eretico». «Grande polemista, aristocraticamente isolato rispetto al senso comune intellettuale della sinistra del tempo», è stata una fonte a cui si è abbeverata una generazione di «giovani marxisti in formazione e militanti comunisti inquieti». La genealogia della radicale rilettura di Marx contro il marxismo, ovvero dell’operaismo, è passata anche di qui. E qui il pensiero radicale deve tornare a passare. [G. R.]

 MARIO TRONTI

Come si evince dal titolo del mio saggio, vorrei circoscrivere un argomento: prendere da un angolo acuto il discorso su Della Volpe politico, ovvero teorico, o filosofo, della politica. Il primo pregio del libro di cui mi occuperò è il suo splendido titolo. La libertà comunista: un problema del secolo, un grande tragico tema del Novecento. Il nostro autore nominerà questo concetto storico con altre definizioni: libertas maior, libertà sociale, libertà egualitaria; definizioni che scolorano di fronte alla pregnanza dell’arduo termine di libertà comunista. Un tema certo non del presente, non sappiamo se del futuro, sicuramente dell’immediato passato, e lo sappiamo noi oggi meglio di quanto lo potesse sospettare Della Volpe cinquant’anni fa.

Il libro esce infatti, per una casa editrice di Messina, nel 1946. E nell’Avviso al lettore della seconda edizione [1] richiama il clima del tempo, il secondo dopoguerra, «affamato di verità sociali», dove urgevano due ordini di interessi filosofici: primo, «l’analisi del concetto tradizionale della “persona”, verso una critica inflessibile dei “revisori” classici del marxismo e della loro etica e politica social-liberale»; secondo, l’articolazione dei concetti giovane-marxiani di «uomo» e «natura», «società», «alienazione umana», «ora [siamo appunto nei primi anni Sessanta] uno slogan dell’intelligenza borghese “inquieta”». Un discorso dunque che mirava a densificare storicamente alcuni termini e a impiantare una ricerca in positivo. Già nell’Avviso al lettore del 1946 aveva esplicitato che era una trattazione teoretica mirante a tracciare «i fondamenti di quella critica della persona a cui l’autore lavora da tempo». E infatti l’annuncio di questo programma di lavoro era già in Discorso sull’ineguaglianza (1943): secondo Bobbio, il primo segno di una ripresa del marxismo teorico in Italia e secondo lo stesso Della Volpe l’inizio della sua ricerca intellettuale di sinistra durata più di un quarto di secolo. Lì cominciava a porre i problemi che poi saranno tipici del suo pensiero politico, anche se sottoposti a grandi modificazioni: il tema della perdurante ineguaglianza tra gli uomini, con la sua «origine ideologica e sentimentale nel “mito umanitario” e però negli istituti economico-politici che sono condizionati da esso e lo condizionano a loro volta» e il problema inerente alla formula «eguali perché liberi e liberi perché eguali», dove l’accusa a Rousseau e alla tradizione giusnaturalistica moderna è di saper fare teoria della prima parte dell’affermazione ma non della seconda [2]. È noto come questo programma di lavoro venga portato avanti, con La teoria marxista dell’emancipazione umana (1945) con il suo sottotitolo nietzscheano: Saggio sulla trasmutazione marxista dei valori, decisiva svolta – dirà Mario Rossi – verso una problematica etica. Emancipazione rousseauiana ed emancipazione marxista divergono e si contrappongono. Qui prevale ancora la parte critico-negativa sull’opera di Rousseau, che in seguito verrà superata. E questo perché la persona cristiano-borghese appare come l’apriorismo interiorizzato da tutto il pensiero politico moderno.

 

«Ché se l’individuo come tale nasce con il valore universale – con l’anima o «coscienza» – esso individuo sarà un prius metafisico assoluto, e ogni rapporto interindividuale o etico-sociale sarà comunque un posterius, in quanto avrà appunto il suo fondamento e il suo fine nell’individuo-valore: nella «sacra», per il valore che le è connato, singola persona umana o persona astratta.» [3]

 

Qui – siamo negli anni 1943-45 – c’è l’intento di Della Volpe di presentare un Marx moralista e filosofo, perché, scrive,

 

«il marxismo deve, e può, per compiere intera la propria missione redentrice, saper mostrare, in maniera adeguata [...] le ragioni morali, oltre che economiche; cioè infine che esso possiede anche una dottrina – superiore – della libertà e della dignità umana in generale.» [4]

 

Se subito prima di La libertà comunista c’è questo, poco dopo c’è Per la teoria di un umanismo positivo (1949), il cui sottotitolo è Studi e documenti sulla dialettica mistificata, perché nel frattempo c’è stato l’incontro di Della Volpe con la Kritik di Marx, con la conseguenza – dice Mario Rossi – dell’abbandono di un approccio da un lato empiristico, dall’altro teoretico ai problemi etici e l’assunzione invece di una prospettiva storica. Lettura logica e lettura teorico politica, così come si erano saldate nella giovanile critica marxiana alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, tendono a saldarsi nel dellavolpismo in formazione. Stato rappresentativo moderno e democrazia moderna diventano un campo di indagine originalmente logico-storico, e su questo terreno si sviluppa il percorso dalla critica negativa alla ripresa in positivo dell’eredità di Rousseau e di Kant. La svolta si ha alle Rencontres di Ginevra (settembre 1950), dove compare la continuità Rousseau-Marx, che diventerà continuità Rousseau-Lenin. C’è un suo articolo sull’«Unità» (4 agosto 1950) che dà conto di questo passaggio; è di qui che si arriva a Rousseau e Marx, nel 1957. Ma in mezzo, tra La libertà comunista e Rousseau e Marx ci sono molte vicende di teoria e di storia, tra cui è da ricordare in particolare la polemica con Bobbio, cioè il saggio Comunismo e democrazia moderna, su «Nuovi Argomenti» (1954); anzi c’è la discussione Bobbio – Della Volpe – Togliatti su comunismo e liberalismo. C’è soprattutto il 1956, con l’esplosione del tema della legalità socialista. È vero che quel saggio non contiene previsioni di una rottura imminente dentro la storia sovietica, ma è indicativo che, ripubblicato nel volume Rousseau e Marx, cambi titolo per diventare Il problema della libertà egualitaria nella moderna democrazia, con un voluto spostamento, a mio parere, della sua problematica.

Ora, è proprio questo l’argomento che sta al centro della ricerca dellavolpiana, tra il 1943 e il 1968, sul terreno della teoria politica, la libertà egualitaria, cioè la libertà comunista. E la tesi che mi sentirei di sostenere è questa: il tratto attuale, o «inattuale», di Della Volpe politico è qui, nel contatto-contrasto di libertà e comunismo. Non di liberalismo e socialismo. Contatto e contrasto diretto tra problema della libertà e prospettiva del comunismo. Qualcosa di più quindi che i problemi della costruzione di una società socialista. Piuttosto un discorso di teoria politica che va al di là di una fase e impegna in considerazioni di ben più lungo periodo.

Non a caso la sua polemica parte subito fin dall’inizio contro un’idea di socialismo liberale, o liberalsocialismo, in quanto conciliazione di individualismo e socialismo. Tutto il capitolo primo e il capitolo secondo de La libertà comunista sono una critica di queste posizioni, così come erano presenti nel dopoguerra e così come erano state impostate da grandi precedenti storici. L’elenco delle idee e delle persone vede le quattro libertà americane (o meglio rooseveltiane), la socialistica uguaglianza di chances per tutti, l’arcivescovo di Canterbury William Temple, Harold Lasky e i leader di altri partiti della sinistra europea, e prima di loro i «revisori» del marxismo, Bernstein, Mondolfo e Croce. Tutti prigionieri, questi, nelle loro istanze di riforma sociale, della categoria di persona cristiana, o persona originaria, o persona astratta, o persona tradizionale: che ha il suo luogo di nascita e il suo inizio di sviluppo nel cristianesimo ragionevole, o secondo ragione, che va da Locke a Rousseau, dal principio individualistico lockiano del lavoro all’apriorismo platonico, o romantico, dell’individualismo rousseauiano. Questo è almeno lo schema di ricerca teorico-politica che Della Volpe segue fino agli anni Cinquanta. A me pare di vedere qui due pesanti forzature. La prima: una riduzione secca dell’individuo borghese a persona cristiana e ancor più di questa a quello; e dunque una sostanziale identificazione di individuo e persona. Ma che si tratti di due diverse tradizioni ed elaborazioni che tra loro hanno subìto incontri ma anche scontri, lo mostra proprio la storia non solo concettuale del Novecento, che Della Volpe non sembra qui prendere in considerazione. Ad esempio la declinazione comunitaria del personalismo fatta da Mounier negli anni Trenta, da lui più che da Maritain, non viene rilevata nemmeno come oggetto polemico. Seconda forzatura: la tendenziale identificazione di liberalismo e democrazia, continuità tra Locke e Rousseau, poi corretta, ma molto presente ne La libertà comunista. Anche qui due tradizioni che si unificano e divaricano tra contraddizioni e conflitti, come documentato dall’organizzazione degli assetti politico-statuali dentro lo stesso secolo.

Ma qui ci sono caratteristiche da attribuire piuttosto alla personalità dell’uomo Della Volpe. Questa capacità e volontà di forzare il pensiero, di radicalizzare ed estremizzare le posizioni altrui e quella propria, erano qualità sue. Un pensiero irto di spigoli, non conciliante, mirato a sorprendere, poco interessato a convincere, non ortodosso senza essere eretico. Un’acqua che bevemmo, noi allora giovani marxisti in formazione e militanti comunisti inquieti. Grande polemista, aristocraticamente isolato rispetto al senso comune intellettuale della sinistra del tempo, ci fornì preziose cifre di comprensione della realtà e alcune continua a offrircene, come la critica del socialismo liberale. Se infatti si riflette su un curioso rovesciamento anche terminologico emerge che i «revisori» classici del marxismo erano socialisti liberali, socialisti in economia, liberali in etica e in politica. Forse ancora nel 1945-46, quelli che si richiamavano a tali posizioni erano su questo orizzonte. Quelli di oggi sono liberali socialisti, assunzione di un’economia di mercato con un’etica e magari una politica socialista. E faceva bene Della Volpe a vedere in Croce il punto di snodo dell’atto di confusione tra liberalismo, individualismo e socialismo. Ecco perché pensava che si dovesse attaccare alla radice il problema.

Ed ecco la sua tesi: l’individuo di cui si parla non è la persona astratta, naturale, platonico-cristiana, poiché la rivoluzione capitalistica ha già imposto un primato del sociale. Dice a Bernstein: la proprietà privata capitalistica è già fondata su un esercizio sociale della produzione, gli individui producono nella società e non possono non farlo. Le robinsonate giusnaturalistiche come possono prescindere da questo? Dice a Mondolfo: non dal principio individualistico lockiano del lavoro si ricava il «diritto al prodotto integrale del lavoro», ma, con Marx – si veda la Critica del programma di Gotha – non essendo la produzione industriale moderna un fatto individuale ma sociale, il diritto al prodotto integrale del lavoro ha un significato non per il singolo lavoro, ma per la società intera dei lavoratori. È un punto di estrema, delicata importanza. Non si tratta di assumere la figura dell’individuo naturale, con le sue caratteristiche – «utilitarismo teologico», «egotismo religioso», «narcisismo spirituale», o naturale nesso di persona-libertà – e poi vedere come si concilia con la società degli individui (oggi si dice, scendendo, anzi precipitando verso il basso, individualismo e solidarietà). La socialità non è qualcosa da aggiungere all’individuo naturale, ma da riconoscere nell’individuo storico, prodotto di questa forma sociale, che l’organizzazione di questa forma sociale non permette di sviluppare, di estendere, di approfondire, di valorizzare. Qui sembra esserci un’ortodossia marxista, in realtà c’è l’apertura di un’originale pista marxiana, che non è stata più seguita e che, a seguirla, porterebbe al dissolvimento dell’attuale paradosso democratico dell’individuo moderno. L’esito tardo del capitalismo in occidente non è l’estremo individualismo ma la massificazione dei comportamenti sociali e politici. Non solo l’opportunità storica «individuo», in società, non è stata messa alla portata di tutti, ma è stata sottratta anche ai comportamenti delle classi cosiddette superiori. Di qui: ribellione delle élite oltre che passivizzazione delle masse; corporativizzazione della società di fronte a forme inedite di potere neoautoritario. La tesi forte da far avanzare è questa: dentro la grande crisi della democrazia moderna, poiché di questo si tratta oggi, si ripropone il grande tema della libertà.

Dentro La libertà comunista troviamo passaggi che mostrano un’anticipata consapevolezza di questo problema. Sono passaggi ostici, sia dal punto di vista del linguaggio che da quello dell’elaborazione, ma vale la pena di attraversarli. La premessa è che

 

«dal fenomeno, o novità storica, della rivoluzione capitalistica è nato, col problema scientifico-economico marxiano della socialità della produzione, anche il problema filosofico marxiano dell’uomo umano in quanto uomo sociale.» [5]

 

Di contro,

 

«con «l’autonomia» delle occupazioni, dovuta alla divisione del lavoro, sorge «l’individuo di classe», la cui essenza è la «casualità», o «accidentalità» delle sue condizioni di vita, cioè il criterio stesso secondo cui si compie la «naturale», «non volontaria» divisione del lavoro.»

 

Marx collega la casualità (Zufalligkeit) delle condizioni di vita per l’individuo con l’apparire della classe e dunque con l’irrompere della concorrenza e della lotta degli individui fra loro. Propriamente «questo diritto di potere, entro certe condizioni, fruire del caso con sicurezza è stato chiamato finora libertà personale». E si confronti – consiglia Della Volpe – questa formula «della gloriosa “libertà” borghese, come libertà del caso, col “diritto a una genuina contingenza” formulato, a proposito della natura della libertà, dal massimo filosofo dell’americanismo, John Dewey» [6]. E dunque, quella tradizionale libertà borghese della persona, ridotta a quel fruire del caso con sicurezza, non risulta atro che l’espressione adeguata «di una “libera iniziativa” che pretende di essere tale pur essendo “casuale”, cioè “non razionale” e però negatrice, oltre che della razionalità, della libertà stessa», libertà che è «sinonimo di universalità o razionalità e infine sinonimo dell’umanità dell’uomo», quell’uomo che nella sua specifica essenza, secondo l’affermazione marxiana, «si rapporta a sé come ente universale e perciò libero» [7].

Ancora problemi per noi. Concediamo troppo, concediamo tutto, quando diamo per risolto il problema della libertà. E solo aggiungiamo altri problemi: l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà. Così come cogliamo qui una critica anteposta degli attuali insulsi diritti di cittadinanza. E la cogliamo nella polemica con l’homo politicus, pendant dell’homo oeconomicus. Mentre dalla critica dell’emancipazione borghese riscopriamo il cammino verso la frontiera della liberazione umana: tra l’altro oggi da declinare nel senso della contraddizione uguaglianza-differenza. Il Marx di Della Volpe dice infatti:

 

«L’eguaglianza (Gleichheit) non è altro che il tedesco Io=Io tradotto in forma francese, cioè politica. L’eguaglianza come fondamento del comunismo non è veruna fondazione politica ed è la medesima cosa che se il tedesco giustificasse il comunismo in quanto concezione dell’uomo quale generale autocoscienza, o Io=Io.» [8]

 

E invece è dal contenuto della «rivoluzione comunista» che bisogna ripartire:

 

«Infatti, la soppressione della suddivisione del lavoro e, con essa, della società classista – soppressione in cui consiste specificamente tale rivoluzione – comporta anzitutto il costituirsi di una comunità reale in quanto volontaria o consapevolmente umana o razionale; comunità che come tale, superando le deficienze della comunità apparente o illusoria che è la società classista borghese in quanto società involontaria o naturale-casuale, è composta non di individui umani dimidiati in quanto rappresentanti di quella media o generalità illusoria propria della classe, ma bensì di individui veramente umani in quanto onnilaterali, e però di individui la cui libertà personale è reale, se libertà è sinonimo di razionalità o universalità o illimitatezza o onnilateralità.»

 

Libertà reale dunque come «libertà non classista ma comunista» [9].

Tra persona e libertà c’è di mezzo il lavoro, quello specifico modo del fare umano dato dalla forma moderna della socialità, composta tra l’altro di materiale tecnicità. Qui, sul lavoro, alcuni limiti del discorso dellavolpiano vengono fuori, dopo le grandi trasformazioni d’epoca che hanno sconvolto il problema e dopo il fallimento di un’organizzazione socialista della produzione. Ma il grande tema lavoro-libertà è presente nella sua interezza. Della Volpe allora apriva una via che, per tortuosi percorsi, in qualche modo arriva fino a oggi, o meglio che oggi in qualche misura riemerge. Leggiamo una frase come questa: «L’uomo totale, in senso comunista, è ad un tempo estremamente individuo, differenziato» [10]. E la polemica qui alza i toni e coglie meglio i bersagli.

 

«La persona-sostanza, l’individuo ipostatico [...], questo ricettacolo metafisico di tutte le inerzie morali, di tutti i privilegi e gli egoismi astratti, è il dogma che vieta di comprendere come l’individualità dell’uomo rifulga in quella concentrazione spirituale che è la tecnicità sinonimo di socialità, la tecnica libera o comunista

 

Lavoro non è rapporto dell’uomo all’altro uomo e insieme rapporto dell’uomo con la natura? L’atto di associazione e socializzazione non è insieme atto di particolarizzazione e specializzazione dell’universalità? La tecnica non è – o, diremmo noi oggi, non dovrebbe essere – «l’individuazione che comporta il lavoro in chi lavora»? Alle trivialità del «termitaio», dell’«uomo ruota di un meccanismo» a cui la società socialista ridurrebbe gli individui, va contrapposta la scelta per quella concentrazione spirituale che è l’atto di specializzazione sociale o comunista:

 

«atto di libertà reale in quanto atto dell’universalizzarsi effettivo dell’individuo, ma atto ad un tempo di coimplicazione positiva delle capacità e possibilità personali, destino personale insomma, nella comunità, nell’universale reale [...] [11]».

 

Libertà egualitaria, libertà sociale, libertà comunista, «libertà virile», dice a un certo punto curiosamente Della Volpe [12]. Un’occasione per accennare a un tema oggi riconnesso con la libertà dell’«individuo differenziato», il tema della libertà femminile. Forse solo la libertà comunista poteva affrontare un discorso sulla libertà non in generale. Scrive Luisa Muraro:

 

«Oggi non viviamo in una fase che i libri di storia chiamerebbero rivoluzionaria; viviamo però in un tempo di libertà femminile. Nella nostra società occidentale, qui in Italia e altrove, esiste un certo numero di donne – sufficiente perché non si possa isolarle nell’eccezionalità – le quali interpretano l’essere nate di sesso femminile come un essere destinate alla libertà […]».

 

Questa è un’affermazione che si può prendere o lasciare. Ma pone un problema che non si può che assumere. «La ricerca femminile di libertà, indipendente da una ricerca maschile di libertà» ha messo in luce una «non libertà maschile». Non si può che assumere il problema soprattutto da parte di quel pensiero politico, che viene dal marxismo e va, malgrado tutto, verso il comunismo.

Anche per questo, risulta insufficiente l’indicazione ultima dellavolpiana. In Critica dell’ideologia contemporanea (1967), alla fine della parte seconda, dedicata alla politica, viene formulata «un’ipotesi per l’azione del presente». Essa recita: Per una democrazia postborghese. Il rinvio esplicito è all’edizione del 1963 di La libertà comunista, dove era stato inserito un testo, datato settembre 1962, Sulla dialettica. Qui leggiamo:

 

«Una democrazia sociale-post-borghese non è più la democrazia puramente politica, borghese storica, ed è certo ben lontana dalla democrazia propria di uno Stato a legalità socialista [...], ma ha nondimeno in sé le virtualità di una democrazia socialista, perché lotta [...] per quel principio (egualitario) della cattolicità o universalità dei meriti personali che, sotto specie di una universale eguaglianza antilivellatrice ossia mediatrice di persone, trionferà, nientedimeno, nella società comunista soltanto [13]».

 

In Critica dell’ideologia contemporanea assegna a «una socialdemocrazia dinamica» il compito di portare questo passaggio: raccogliere la bandiera lasciata cadere dalla borghesia trionfante delle «possibilità di ogni persona e diritto di realizzarle tramite la società». Non sembrava a quel punto che ci fosse nulla di meglio «per rompere l’incanto dell’immobilismo strategico di sinistra» e per «cominciare a muoversi (con Rousseau e Marx) oltre Constant e Tocqueville, questi termini e simboli della borghesia storica» [14].

Ecco, per concludere, domande che rimbalzano dalle pagine di La libertà comunista tra i piedi dell’attuale crisi delle democrazie. Scelte di prospettiva per la ricerca, ma non solo. Con Rousseau e Marx, oltre Constant e Tocqueville oppure oltre Rousseau e Marx? Per una democrazia postborghese, oppure per una società postdemocratica? Un’altra idea e un’altra pratica di democrazia, oppure prendere atto del compimento della democrazia? Conoscenza più riflessione più prassi politica, pur sommate insieme, non sembrano in grado di rispondere. Ma il modo di porre la domanda già indirizza la risposta.

 

Note [1] G. Della Volpe, La libertà comunista, Edizioni Avanti!, Messina 1963 (seconda edizione). [2] Si veda anche G. Della Volpe, Opere, vol. III, p. 269. [3] Ivi, p. 320. [4] Ivi, p. 311. [5] G. Della Volpe, La libertà comunista, cit., p. 59. [6] Ivi, p. 65. [7] Ivi, p. 68. [8] Ivi, p. 81. [9] Ivi, p. 90. [10] Ivi, p. 112. [11] Ivi, pp. 112-113. [12] Ivi, p. 116. [13] Ivi, p. 170. [14] G. Della Volpe, Critica dell’ideologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 112.

 Machina/DeriveApprodi

 

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