Glosse a “Ontologia dell’essere sociale” di Lukàcs (II)

mar 24th, 2021 | Di | Categoria: Recensioni

 

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Glosse a “Ontologia dell’essere sociale” di Lukàcs (II)

di Carlo Formenti

La pubblicazione delle mie Glosse alla “Ontologia” di Gyorgy Lukacs prosegue con questa seconda puntata (qui la prima) che raggruppa la seconda e la terza sezione tematica

 

 

2. Critica del materialismo meccanicista

La critica delle interpretazioni meccaniciste e deterministe del pensiero di Marx è un filo rosso che attraversa tutta l’Ontologia, per cui lo ritroveremo in tutte le sezioni in cui sono articolate queste Glosse. In questa seconda sezione, tuttavia, intendo concentrare l’attenzione soprattutto su due aspetti: 1) il modo in cui, nel pensiero di Lukacs, il principio della determinazione (in ultima istanza!) della coscienza da parte del fattore economico si associa all’affermazione della (relativa!) libertà del fattore soggettivo; 2) la critica della feticizzazione oggettivistica della tecnica.

Parto da un passaggio particolarmente illuminante per quanto riguarda il primo punto: il metodo dialettico, scrive Lukacs, riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva (…) né uno sviluppo storico privo di leggi (…) né un dominio meccanico <<per legge>> dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto e solo la funzione di momento soverchiante (vol. II, pp. 290/91). Il passaggio è denso e ricco di aspetti degni di rilievo. In primo luogo, l’affermazione secondo cui economico ed extraeconomico si convertono di continuo l’uno nell’altro, fa eco alla concezione dell’essere sociale come complesso di complessi descritta nella prima sezione: nessuna dimensione dell’essere sociale è separata dalle altre da un confine rigido, per cui il gioco dialettico delle interazioni reciproche è continuo, e soprattutto non è mai unidirezionale, nel senso che nessuna dimensione condiziona le altre senza venirne a sua volta condizionata.

Dopodiché questo complesso gioco di interazioni reciproche non giustifica la visione di un processo storico privo di determinazioni causali, di “leggi” (anche se sappiamo, vedi quanto esposto nella prima sezione, che queste leggi non hanno nulla a che vedere con quelle che governano i processi naturali, dal momento che i loro nessi causali sono ricostruibili solo post festum). Infine ci viene detto che alle “rigide leggi dell’economia” (che sono tali solo nel contesto dell’economico inteso come pura astrazione) spetta la funzione di momento soverchiante.

Il modo in cui l’economico svolge tale funzione richiede tuttavia approfondimento. In effetti, Marx non sostiene che l’economia determina la coscienza, sostiene piuttosto che “non è la coscienza degli uomini che determina l’essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, dove il mondo delle forme di coscienza e dei loro contenuti, commenta Lukacs subito dopo la citazione, non è visto come prodotto direttamente dalla struttura economica, ma dalla totalità dell’essere sociale (vol. II, p. 288). In altre parole, la funzione soverchiante dell’economico si esercita in modo indiretto, attraverso la mediazione della totalità dell’essere sociale (totalità di cui fanno parte sia l’economico che l’extraeconomico).

Lukacs chiarisce ulteriormente il senso di quest’ultima affermazione laddove ragiona sulle potenzialità emancipative del processo di sviluppo economico in quanto presupposto della liberazione dell’umanità dal regno della necessità: Il processo in quanto tale, però, dal punto di vista ontologico non fa che produrre ogni volta il reale campo di possibilità affinché ciò avvenga. Il fatto che le risposte vadano nel senso ora indicato oppure nel senso opposto non è più determinato dal processo economico, ma è una conseguenza delle decisioni alternative degli uomini posti di fronte a tali domande da questo processo. Il fattore soggettivo nella storia, dunque, è certo in ultima analisi, ma solo in ultima analisi, il prodotto dello sviluppo economico, in quanto le alternative davanti a cui è posto vengono provocate da questo processo, e tuttavia in sostanza agisce in modo relativamente libero, giacché il suo sì o no è legato ad esso soltanto sul piano delle possibilità (vol. IV, p. 511).

La relativa libertà che la filosofia della prassi concede all’agire soggettivo consiste dunque in una relazione che si configura come la facoltà di decidere in un campo di alternative predefinite. Questa formulazione non offre spazio né a una sottovalutazione della libertà del fattore soggettivo né a una sottovalutazione della forza vincolante del fattore oggettivo, come ben chiarisce il seguente passaggio: La determinazione (della coscienza) da parte dell’essere sociale è dunque sempre <<solo>> la determinazione di una decisione alternativa, di un campo di manovra concreto per le sue possibilità, di un modo di operare, cioè qualcosa che nella natura non compare mai (vol. I, p. 325). Da un lato, le virgolette che racchiudono – quasi ironicamente – quel solo stanno a significare che è più che giustificato definire “soverchiante” il potere di condizionamento dell’economico, nella misura in cui limita il campo delle alternative possibili; dall’altro lato, Lukacs evidenzia come la libertà del soggetto umano, ancorché vincolata, appaia smisurata ove paragonata alla rigida legalità dei processi naturali. Attenzione però: questa libertà di decisione, tanto limitata in termini di alternative concrete, quanto pregna di sviluppi inediti, non può essere imputata a un soggetto trascendentale, perché vale sempre il detto marxiano non sanno di far ciò ma lo fanno, o per dirlo con le parole di Lukacs, L’agire sociale, l’agire economico degli uomini dà via libera a forze, tendenze, oggettività, strutture, ecc. che certo nascono esclusivamente ad opera della prassi umana, ma il cui carattere resta in tutto o in gran parte incomprensibile per chi le ha prodotte (vol. II, p. 298).

Delle implicazioni di quest’ultima affermazione ci occuperemo soprattutto nella sezione “Ideologia e lotta di classe”. Veniamo ora alla critica della feticizzazione della tecnica. Lukacs attribuisce questa tendenza, fra gli altri, a Bukharin, che accusa di avere indicato nella tecnica l’elemento fondamentale dell’economia (cfr. vol. III, p. 341), tuttavia ribadisce a più riprese che non è lui l’unico autore in capo marxista a commettere questo errore: è accaduto e accade spesso anche all’interno del marxismo, scrive, che i rapporti economici non vengono intesi come relazioni fra uomini, ma sono invece feticizzati, <<reificati>> - ad esempio identificando le forze produttive con la tecnica presa a sé, pensata come autonoma (vol. II, p. 316). Questa concezione, che già si era diffusa durante le prime due rivoluzioni industriali – e alla cui diffusione lo stesso Marx ha involontariamente contribuito con le sue ammirate descrizioni della potenza produttiva del macchinismo della grande industria (1) – ha ricevuto ulteriore impulso con la rivoluzione digitale che, come vedremo nelle “Glosse” a questa sezione, ha generato una vera e propria esplosione di entusiasmo tecnofilo in certi ambienti delle sinistre radicali.

La conseguenza più grave di queste deviazioni ideologiche è la perdita di consapevolezza della complessità dei molteplici fattori che convergono nel concetto di forze produttive. Lukacs estende questa riflessione anche nelle pagine in cui ragiona sulla sopravvalutazione del ruolo della tecnologia militare nella storia: Da un punto di vista generale in tutti questi casi abbiamo che – entro determinati confini prescritti dall’intera struttura economico-sociale – la difesa dell’esistenza, le tendenze espansive prodotte dall’economia, ecc. fanno diventare realtà talune possibilità che nel processo riproduttivo normale sarebbero rimaste possibilità. E proprio qui sarebbe molto pericoloso lasciarsi andare al feticismo della tecnica. Esattamente come nell’economia stessa la tecnica è una parte importante, ma sempre derivata, dello sviluppo delle forze produttive, e anzitutto degli uomini (il lavoro) e delle relazioni interumane (divisione del lavoro, stratificazione di classe, ecc.), così anche le categorie militari specifiche, come tattica e strategie, non derivano dalla tecnica ma da rivolgimenti che intervengono nelle fondamentali relazioni economico-sociali tra gli uomini (vol. III, pp. 238/39).

A prescindere dal contesto del discorso (il rapporto fra storia e economico-sociale e storia militare), il punto è chiarissimo: le forze produttive – e a maggior ragione l’economia in generale – non sono mai riducibili alla tecnica, nella misura in cui rispecchiano l’intera complessità delle relazioni interne all’essere sociale. L’economia e la tecnica sono bensì, nello sviluppo del lavoro, in uno stato di coesistenza indissociabile, hanno continue interrelazioni fra loro, ma questo fatto non ne sopprime la eterogeneità, che si manifesta (…) nella dialettica contraddittoria fra fine e mezzo (vol.III, p. 43) – contraddizione che abbiamo già evidenziato in quel passaggio, citato nella prima sezione, in cui Lukacs punta il dito contro il feticismo associato all’inversione gerarchica nella relazione fine-mezzo.

 

Glosse alla seconda sezione

La descrizione che Lukacs fa delle interazioni fra economico ed extraeconomico o – se si preferisce seguire la classica contrapposizione – fra struttura e sovrastruttura, fa piazza pulita di tutte le letture “crolliste” della fine del modo di produzione capitalista. Tipica, in questo senso, la tesi secondo cui la caduta tendenziale del saggio del profitto destinerebbe necessariamente il capitalismo all’estinzione (tesi che, per inciso, ignora l’esistenza di controtendenze alla caduta tendenziale evidenziate da Marx).

Ma il punto di vista di Lukacs consente di liquidare anche tutte quelle visioni “oggettivistiche” che, a ogni crisi, rilanciano la diagnosi secondo cui il capitalismo starebbe vivendo la sua “fase terminale”, un approccio che Giorgio Ruffolo ha criticato con l’ironica battuta “il capitalismo ha i secoli contati” (2). La verità è che, come aveva ben compreso Lenin, le premesse di un superamento del capitalismo si danno solo quando le classi dirigenti non appaiono più in grado di conservare/difendere lo status quo, vale a dire quando la crisi trascende la dimensione economica per divenire crisi istituzionale, politica e culturale (crisi di egemonia in senso gramsciano), quando, cioè, coinvolge la totalità dell’essere sociale (non a caso, come abbiamo appena visto, Lukacs chiarisce che l’economico può svolgere il ruolo di fattore determinante nei confronti degli altri complessi sociali esclusivamente attraverso la mediazione della totalità sistemica che abbraccia sia la struttura che la sovrastruttura).

Altrettanto efficace appare il punto di vista di Lukacs in quanto arma critica nei confronti delle torsioni soggettiviste del discorso marxiano, la più significativa delle quali è quell’ideologia operaista e post operaista che ha svolto un ruolo significativo, se non egemonico, nei confronti dei movimenti dell’ultimo mezzo secolo, a partire dalle teorizzazioni ospitate dalla storica rivista Quaderni rossi (3). La peculiarità di questa scuola teorica, consiste nell’aver sviluppato un punto di vista in cui il soggettivismo che convive con l’esaltazione oggettivista del fattore economico – un paradosso che si spiega con il fatto che quest’ultimo viene sostanzialmente identificato con le tecniche produttive. Infatti è alla particolare organizzazione del lavoro fondato sulle tecnologie produttive fordiste, che si attribuisce il merito di avere favorito la nascita di uno strato di classe – l’operaio massa incatenato alla catena di montaggio – capace di sviluppare spontaneamente una coscienza antagonistica nei confronti del capitale.

In altre parole, l’inestricabile intreccio fra economico ed extraeconomico che Lukacs proietta nell’essere sociale in quanto totalità, per il paradigma operaista si realizza all’interno stesso del processo produttivo, la coscienza rivoluzionaria appare quindi come una scaturigine spontanea, immanente alla stessa produzione capitalistica. Di qui la tesi di Tronti (4) secondo cui la nuova classe operaia non ha più bisogno del partito come strumento di una coscienza rivoluzionaria che le viene inoculata dall’esterno (cioè dal campo totale delle relazioni politiche e sociali, secondo la visione di Lenin (5) ), dal momento che ora è lei stessa il partito, in quanto esprime direttamente e spontaneamente tale coscienza. Viene così a mancare del tutto la consapevolezza del fatto che, per quanto duramente conflittuali, certi comportamenti di classe rappresentano una prassi che resta – per usare le parole di Lukacs – in tutto o in gran parte incomprensibile ai loro stessi protagonisti. Consapevolezza che Tronti riacquisterà in un secondo tempo, autocriticando le sue tesi originarie e riaffermando il principio della “autonomia del politico” (6), riconoscendo cioè che l’interdipendenza fra economico ed extraeconomico non mette in questione i reciproci margini di libertà dei due ambiti.

Accennavo poco sopra alla riduzione dell’economico alle tecniche produttive. Questa tendenza dell’operaismo (condivisa da altri intellettuali marxisti) è sopravvissuta alla transizione dalla produzione fordista alla produzione postfordista, e si ulteriormente rafforzata con l’avvento delle tecnologie digitali. Un ruolo fondamentale ha svolto in tal senso una certa lettura del celebre “Frammento sulle macchine” contenuto nei Grundrisse, laddove lo stesso Marx, come ricordavo in precedenza, si è abbandonato alla fascinazione della potenza produttiva del general intellect, cioè della potenza produttiva incorporata nel sistema delle macchine della grande industria capitalistica.

In quelle pagine (7) Marx ipotizzava che, raggiunto un determinato livello di sviluppo tecnologico, tale da determinare un formidabile salto qualitativo della produttività del lavoro sociale, la legge del valore-lavoro non sarebbe stata più in grado di regolare l’economia, né tanto meno l’insieme dei rapporti sociali. I tecnoentusiasti di sinistra (nei quali Lukacs avrebbe probabilmente riconosciuto dei nipotini di Bukharin – vedi sopra) hanno elevato a dogma questa profezia marxiana, intravedendo le condizioni del suo inveramento nelle narrazioni dei guru della New Economy negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila.

Costoro – una variopinta comunità di hacker dell’hardware e del software, ricercatori dei dipartimenti universitari di informatica, fondatori di startup, giornalisti specializzati, futurologi, ecc. – annunciavano l’avvento di un imminente futuro in cui 1) le startup, grazie alla rapidità di innovazione e alla libertà dai rigidi vincoli imposti dai grandi investimenti in capitale fisso e forza lavoro, avrebbero sbaragliato la concorrenza dei vecchi monopoli high tech; 2) i lavoratori della conoscenza, abituati alla cooperazione spontanea e alla condivisione di informazioni e conoscenze, si sarebbero emancipati dal comando capitalistico sviluppando nuove forme di produzione di beni comuni svincolate dal mercato (8); 3) tutti questi soggetti non avrebbero solo dato vita a una nuova forma di democrazia economica, ma si sarebbero progressivamente liberati anche dal controllo politico dello Stato, inventando nuove forme di aggregazione sociale di tipo orizzontale (9).

A sinistra, questa utopia anarco capitalista è stata tradotta in progetto “benecomunista” dai movimenti libertari eredi del ciclo di lotte degli anni Sessanta e Settanta, i quali hanno rimpiazzato l’operaio massa con i lavoratori creativi nel ruolo di portatori di una coscienza politica spontaneamente anticapitalista. In entrambi i casi, l’agente di questo miracolo della transustanziazione è un soggetto immanente a un fattore economico che, da un lato viene appiattito sulla tecnica, dall’altro viene accreditato della capacità di fungere da incubatore di una coscienza politica spontaneamente antagonista e tendenzialmente egemonica (10) . Gli sviluppi successivi alla crisi dei titoli tecnologici dei primi anni del Duemila sono noti: formidabile concentrazione monopolistica della New Economy, con conseguente subordinazione/marginalizzazione dei progetti “alternativi”; cooptazione degli strati superiori dei knowledge workers nel sistema di comando, controllo e sfruttamento degli strati inferiori della forza lavoro (e contestuale proletarizzazione degli strati inferiori); integrazione fra industrie high tech e colossi della finanza in un complesso capace di accelerare mostruosamente la “guerra di classe dall’alto” (11) contro le classi subalterne. Così quella “dialettica contraddittoria fra fine e mezzo” nella quale Lukacs inquadra il rapporto fra economia e tecnica si è presa la sua rivincita sui sogni neo proudhoniani di una certa sinistra.


Note
(1) Cfr. il “Frammento sulle macchine”, che si trova nella parte conclusiva dei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970).
(2). G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008.
(3) La ristampa integrale dei “Quaderni rossi” curata dalle Edizioni Sapere nel 1970 è oggi introvabile, ma in Rete se ne possono scaricare ampi stralci in versione pdf.
(4) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.
(5) Cfr. Che fare, vedi anche Stato e rivoluzione, in V. I. Lenin, Opere scelte in due volumi, Edizioni in lingue estere, Mosca 1947.
(6) Cfr. M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009.
(7) vedi nota (1)
(8) La formulazione più organica e coerente di questa profezia si trova in Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007.
(9) Delle narrazioni sulla presunta vocazione democratica e libertaria della Rete mi sono occupato in varie occasioni. Vedi, in particolare il mio Cybersoviet, Cortina, Milano 2008.
(10) Ho analizzato criticamente queste posizioni in diversi lavori. Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011, e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.
(11) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

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3. Se…allora. Storia e necessità

Abbiamo già evidenziato l’atteggiamento critico di Lukacs nei confronti dei tentativi di depurare Marx degli “orpelli” filosofici, salvando solo le parti “scientifiche” del suo pensiero (1) (ridotte sostanzialmente alla critica dell’economia politica). Contro questa concezione, Lukacs ribadisce a più riprese che Marx riconosce una sola scienza, quella della storia, che investe sia la natura che il mondo degli uomini (vol. II, pp. 264/65), e, in un altro passaggio, particolarmente significativo, rafforza questa affermazione scrivendo che la questione fondamentale della teoria marxiana è la storia come principio fondamentale di ogni essere. In termini generali e precisi esso venne enunciato da Marx già molto presto (nell’Ideologia tedesca), ma di fatto è il principio che dall’inizio alla fine domina le sue argomentazioni sull’essere (vol. I, pp. 234/35). Parimenti abbiamo già evidenziato il principio che deriva dall’imprevedibilità del processo storico – principio che distingue la forma delle sue “leggi” da quelle delle scienze naturali – riassumibile nell’assunto per cui la sola conoscenza veramente scientifica, dal punto di vista marxiano, è post festum.

La domanda è: ciò significa che non è possibile attribuire al processo storico alcun tipo di legalità? Dai due seguenti passaggi vedremo che non è questo ciò che Lukacs vuol dire con le affermazioni sopra citate. Per Marx, scrive Lukacs, le leggi economiche oggettive hanno sempre il carattere storico-sociale concreto di <<se…allora>>. La loro forma generalizzata, la loro elevazione al concetto, tuttavia, non è – in contrasto con Hegel – la forma più pura della necessità, e nemmeno, come pensano i kantiani o i positivisti, una mera generalizzazione intellettuale, ma invece, nel senso meramente storico, una possibilità generale, un campo reale di possibilità per le realizzazioni legali concrete <<se…allora>> (vol. IV, p. 344). Il carattere post festum di queste ultime, insomma, non esclude la possibilità di riconoscere l’esistenza di nessi generali, Questi ultimi, tuttavia, si esplicitano nell’essere processuale, non <<come grandi bronzee leggi eterne>>, che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, <<atemporale>>, ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce (vol. I, p. 308).

L’ultimo passaggio è di chiarezza cristallina, e consente di afferrare pienamente il senso di tutto quanto siamo venuti fin qui affermando nel seguire passo passo i ragionamenti di Lukacs: la scientificità del discorso marxiano è ascrivibile esclusivamente alla sua capacità di afferrare i nessi storici che innervano lo sviluppo della totalità dell’essere sociale (e non solo delle sue componenti economiche!) e di descrivere le catene causali che essi mettono in moto, senza elevarle a “leggi bronzee eterne”, ma anche senza ridurle a meri idealtipi, a puri modelli conoscitivi (2). Come ora vedremo, assumere tale punto di vista implica il superamento di qualsiasi attribuzione di finalità immanenti al processo storico.

Naturalmente a Lukacs non sfugge come la cultura marxista non sia esente dalla tentazione di attribuire al processo storico una “direzione” verso un obiettivo finale predefinito. Il fatto che lo sviluppo della storia europea sembra presentare una successione di tappe apparentemente ordinate verso il “progresso” (3) (come vedremo, per Lukacs il senso di questo termine non è privo di elementi problematici) suggerisce la possibilità che esso sia direzionato da un qualche fattore teleologico, ma Lukacs scrive che occorre tenersi ben lontani da simili rappresentazioni e aggiunge che ciò va sottolineato proprio perché simili tendenze aleggiano anche negli atteggiamenti di taluni marxisti, secondo cui, per esempio, il cammino che dalla dissoluzione del comunismo primitivo, attraverso la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo, porta al socialismo, sarebbe nella sua necessità in qualche modo preformato (e quindi conterrebbe qualcosa di almeno criptoteleologico) (vol. III, p. 300). Contro questa tendenza va ribadito fermamente che non esistono processi teleologici: la posizione teleologica (cioè l’agire finalizzato. Ndr) è bensì in grado, ponendo praticamente il fine e i mezzi (ricordiamo che per Lukacs il modello cui si rifanno tutte le posizioni teleologiche è il lavoro – vedi sezione I), di modificare largamente i processi causali messi in movimento, ma non di trasformare il carattere causale di questo movimento. Esistono, appunto, solo processi causali, quelli teleologici semplicemente non esistono (vol. I, p. 201). Le concezioni della storia che attribuiscono priorità all’azione intenzionale del soggetto, da un lato, ignorano il fatto che le conseguenze causali degli atti teleologici si distaccano dalle intenzioni dei soggetti delle posizioni, anzi spesso vanno addirittura nel senso opposto (vol. IV, p. 347), dall’altro approdano inevitabilmente a un qualche tipo di irrazionalismo trascendente, se non di vero e proprio profetismo religioso (ritroveremo questo tema nelle prossime sezioni), nella misura in cui da un soggetto isolato, basato su se stesso, non è possibile far derivare un comportamento consapevolmente attivo, pratico, verso la realtà, senza un aiuto trascendente (vol. I, p. 179).

In conclusione, la concezione teleologica della storia (al pari di quella della natura) implica che il suo procedere sia indirizzato/guidato da un attore consapevole, e il suo successo nasce dal fatto che svolge una funzione consolatoria, ci protegge cioè dall’orrore dell’insensatezza: quel che fa nascere queste concezioni del mondo non solo nei filistei facitori di teodicee del secolo XVII, ma anche in pensatori lucidi e profondi come Aristotele e Hegel, è un bisogno umano elementare e primordiale: il bisogno che l’esistenza, il corso del mondo, giù giù fino ai fatti della vita individuale – e questi in primo luogo – abbiano un senso (vol. III, p,.20).

Può il concetto di progresso sopravvivere a questa negazione dell’esistenza di qualsiasi fattore teleologico immanente al processo storico? La risposta di Lukacs a tale dilemma (come vedremo nell’ultima sezione) non è scevra da una certa ambiguità – un’ambiguità che si rispecchia nella seguente affermazione Noi parliamo di progresso in senso oggettivo-ontologico e non in senso valutativo (vol. III, p. 154). È verosimile che per progresso in senso oggettivo-ontologico qui si intenda l’evoluzione dell’essere sociale, la quale, al pari dell’evoluzione biologica, non dovrebbe implicare alcun giudizio di valore. In realtà, e lo vedremo laddove Lukacs ragiona sulla prospettiva della transizione dal capitalismo al socialismo, questa distinzione non è facile da mantenere, nella misura in cui il giudizio di valore fa capolino nel momento stesso in cui viene evocato il termine di progresso.

Ciò detto, è innegabile che Lukacs, in varie parti dell’Ontologia, svolga una rigorosa critica dell’ideologia progressista. Il processo della storia, scrive nei “Prolegomeni”, è causale, non teleologico, è multistrato, mai unilaterale, semplicemente rettilineo, è sempre una tendenza evolutiva posta in movimento da interazioni e interrelazioni reali dei complessi ogni volta attivi. Gli indirizzi che in tal modo si presentano nelle trasformazioni non devono perciò mai essere subito giudicati come progresso o come regresso (vol. I, p. 35). E ancora più chiaro appare il seguente passaggio: La irreversibilità dei processi (…) non ha nulla a che vedere né con le ideologie del tipo <<irresistibilità del progresso>> (qui il dito è implicitamente puntato sia nei confronti del progressismo liberal borghese sia nei confronti del progressismo del marxismo volgare), né con quelle che, per occultare le necessarie conseguenze del processo, parlano di <<fine della storia>>, di storia come ciclo, ecc. con un ritorno, più o meno apertamente confesso, al passato (vol. I, p. 107) (qui il bersaglio sono invece le filosofie dell’ “eterno ritorno dell’eguale”, tuttavia, come vedremo nelle Glosse a questa e alla quinta sezione, anche certi aspetti dell’utopia marxiana potrebbero finire sotto tiro, anche se questa non è l’intenzione di Lukacs).

Particolarmente significativa appare la critica di Lukacs nei confronti delle “concezioni volgar meccanicistiche del progresso”, le quali, scrive, sono teoricamente impotenti di fronte alla coazione economico-sociale con cui forme nuove e – anche quanto al grado – più perfette di reificazione subentrano al posto di quelle invecchiate (vol. IV, p. 650) . La trappola in cui cadono le concezioni in questione, nella misura in cui fanno dello sviluppo delle forze produttive il presupposto non solo necessario, ma anche in qualche misura sufficiente, dell’emancipazione umana, nasce ancora una volta dall’appiattimento dell’essere sociale sulla dimensione economica (e di quest’ultima sulla tecnica): lo sviluppo delle forze produttive è necessariamente anche sviluppo delle capacità umane, ma – e qui emerge plasticamente il problema dell’estraniazione – lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana (vol. IV, p. 562).

Nelle parti conclusive dell’opera che stiamo discutendo, in cui esamina, fra gli altri, i concetti di alienazione, reificazione ed estraniazione, la preoccupazione di Lukacs non è molto lontana, come vedremo da quella degli autori della Scuola di Francoforte (4), i quali, in quegli anni (ricordiamo che Lukacs scrive queste pagine negli anni 60/70) concentrano l’attenzione sulle mutazioni antropologiche indotte dal consumismo e dall’industria culturale e sulla loro proprietà di abbassare il livello di coscienza politica delle masse e neutralizzare il conflitto sociale. Così, contro gli illusionisti del (ma rivolto anche agli illusi dal) progresso, Lukacs ricorda che lo sviluppo della società, il suo perenne divenir più sociale, non aumenta affatto la conoscenza che gli uomini hanno circa la vera natura delle reificazioni da essi spontaneamente compiute. Riscontriamo, al contrario, una tendenza sempre più netta ad assoggettarsi acriticamente a queste forme di vita, ad appropriarsele con intensità sempre maggiore, in maniera sempre più determinante per la personalità, come componenti insopprimibili di ogni vita umana (vol. IV, p. 649). I “progressi” economico sociali disgregano certamente vecchie forme di reificazione ma, al tempo stesso ne formano di nuove, ammodernate, ben funzionanti (vol. IV, p. 670).

 

Glosse alla terza sezione

Rivendicando la concezione storico-filosofica delle leggi di sviluppo dell’essere sociale, Lukacs si pone agli antipodi di tutti quegli intellettuali marxisti – perlopiù appartenenti alla corporazione accademica degli economisti – che hanno progressivamente abbandonato il punto di vista marxiano della critica dell’economia politica per sposare quello dell’economia politica intesa come “scienza” tout court (non di rado elevata alla dignità di scienza pura e dura, in opposizione alle scienze sociali). Conseguenze di tale scelta sono: da un lato, la pretesa di competere con gli economisti borghesi sul terreno della definizione delle leggi di funzionamento dell’economia – rappresentate come indipendenti/autonome dalle altre determinazioni dell’essere sociale (diritto, politica, cultura, ecc.) -; dall’altro lato, il crescente condizionamento delle scelte politiche di partiti e sindacati di sinistra da parte dei vincoli “oggettivi” associati a presunte leggi economiche.

Allargando la prospettiva dalle leggi economiche alle leggi di sviluppo dell’essere sociale in quanto totalità, la forma delle quali, come si è visto, viene sintetizzata da Lukacs con la formula <<se…allora>>, vale a dire con il concetto di “campo di possibilità”, è interessante notare come sia lo stesso Marx a contestare le interpretazioni che gli attribuiscono l’intenzione di formulare le “bronzee leggi eterne” della storia umana, allorché replica alla recensione critica che l’economista Zukowski aveva dedicato all’edizione russa del Capitale con le seguenti parole: “Zukowski sente il bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria teorico-filosofica della marcia generale imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto”. Subito dopo, per chiarire il senso di quest’ultima affermazione, ricorre all’esempio dei piccoli contadini liberi dell’antica Roma: costoro, dopo essere stati espropriati dei loro pezzetti di terra, non divennero salariati ma “plebaglia fannullona”, mentre, nel contempo, veniva sviluppandosi il modo di produzione bastato sulla schiavitù, non quello capitalistico, benché, in teoria, non sarebbero mancate le condizioni affinché ciò potesse avvenire; quindi conclude:” eventi di un’analogia sorprendente, ma verificatisi in ambiti storici affatto diversi, produssero risultati del tutto diversi” (5).

Veniamo alla critica del progressismo. Ho già sottolineato come Lukacs non sia esente da una certa ambiguità sul tema – ambiguità che approfondiremo nella sezione dedicata ai temi dell’utopia socialista, ma che nei brani analizzati in questa sezione resta sullo sfondo, soverchiata dalla radicale condanna nei confronti di tutti i cedimenti nei confronti delle concezioni teleologiche del processo storico. In particolare, ritengo significativi i passaggi in cui viene messa in luce l’inspirazione mistico/trascendente che aleggia in tali visioni, anche quando associata a ideologie rivoluzionarie. Non è un caso se il marxismo è stato spesso accusato di “profetismo” (6), anche se non va dimenticato il fatto che la tendenza ad assumere una certa coloritura “salvifica” non manca mai nelle narrazioni dei progetti politici di emancipazione, né va trascurata la funzione positiva che essa può svolgere in quanto mito fondativo (torneremo sul tema nella prossima sezione dedicata al ruolo dell’ideologia).

Un altro argomento cui Lukacs ricorre spesso nella sua denuncia del carattere illusorio dei miti progressisti, prende le mosse dagli inevitabili effetti controintuitivi associati all’agire orientato allo scopo. Il punto appare complesso e problematico. La sua critica al volontarismo soggettivistico (deviazione che Lukacs attribuisce in particolare all’ideologia stalinista, e che si alimenta della convinzione che il proprio agire sia giustificato dalla necessità storica) rischia infatti di alimentare un errore di segno opposto. Si è detto che la visione lukacsiana dell’essere sociale come “complesso di complessi” presenta una certa analogia con la teoria sistemica di Luhmann (7), il quale descrive il sistema sociale come un insieme complesso di sottosistemi. Ebbene: uno dei rischi della teoria della complessità è che, a partire dalla tesi secondo cui gli esiti delle interazioni reciproche fra sistemi, e fra sistemi ed ambiente, sono per definizione imprevedibili, si arriva a sostenere che qualsiasi progetto politico di trasformazione/manipolazione dei meccanismi sistemici – tanto più quanto più radicale e ambizioso – è a priori votato allo scacco (a causa appunto degli effetti controintuitivi che inevitabilmente innesca).

Ho la sensazione che Lukacs non tematizzi a sufficienza questo rischio (o forse lo risolve in un modo che mi è sfuggito). Personalmente ritengo che la dialettica fra progetto politico (che rappresenta la quint’essenza del porre teleologico) e ambiente socioeconomico, vada gestita nel modo più pragmatico possibile, accantonando i principi dogmatici e ricorrendo piuttosto alla ricerca di soluzioni attraverso la sperimentazione per tentativi ed errori. Per esempio, sono convinto che l’esperimento socialista cinese abbia avuto più fortuna di quello sovietico – fra i vari motivi – anche e soprattutto per aver adottato una concezione più flessibile e pragmatica della pianificazione (8).

Meno interessanti, in quanto più scontate, mi paiono le considerazioni che Lukacs dedica alle critiche conservatrici al concetto di progresso (nei brani che ho selezionato per questa sezione emergono evidenti allusioni a Nietzsche e ai suoi emuli, come segnala il riferimento alle concezioni cicliche dei processi temporali che negano l’irreversibilità). Tuttavia vale la pena di sottolineare il fatto che, nei passaggi in questione, Lukacs associa queste visioni conservatrici al concetto di “fine della storia”. Il punto non è tanto che in questo modo anticipa l’annuncio di Fukuyama (9) che sarebbe arrivato decenni dopo, quanto il fatto che questo immaginario è innegabilmente presente anche in quelle tendenze “profetiche” del marxismo cui facevo riferimento poco sopra. Tornerò sul tema ragionando sui passaggi dedicati all’utopia socialista nell’ultima sezione. Qui mi limito ad abbozzare l’idea che questa paradossale convergenza fra visioni ideologicamente opposte, abbia più di una qualche relazione con l’eredità hegeliana che tali tendenze condividono con un autore come Fukuyama.

Vengo ora a un nodo teorico che mi sta particolarmente a cuore, e che ho avuto modo di affrontare assieme all’amico Onofrio Romano in un nostro libretto a quattro mani (10): mi riferisco alla sopravvalutazione del ruolo progressivo dello sviluppo delle forze produttive che accomuna la stragrande maggioranza degli autori del campo marxista. Lukacs – lo si è visto poco sopra – ascrive questo errore di prospettiva alle “concezioni volgar meccaniciste del progresso” e ne denuncia l’incapacità di riconoscere gli effetti della coazione economico-sociale in ragione della quale “forme nuove e più perfette di reificazione subentrano al posto di quelle vecchie”. E altrove ammonisce che, se è vero che lo sviluppo delle forze produttive è anche sviluppo delle capacità umane, è altrettanto vero ”che lo sviluppo delle capacità umane non produce obbligatoriamente quello della personalità umana” (11).

Qui il contributo lukacsiano è cruciale. Come ho già ricordato, gli anni in cui Lukacs scrive queste pagine sono gli stessi in cui la Scuola di Francoforte ragiona sul paradosso per cui l’espansione della produttività del lavoro, associata all’innovazione tecnologica, e il conseguente aumento esponenziale della ricchezza materiale e dei consumi di massa, non generano più elevati livelli di coscienza sociale e politica, ma un generale impoverimento culturale e una crescente omologazione ai valori della società capitalista occidentale (in primis americana). Allo sviluppo della capacità umana non corrisponde per l’appunto quello della personalità umana.

Eppure questa lezione resterà inascoltata dalla generazione del 68 e dai suoi eredi, protagonisti dei successivi movimenti sociali, i quali continueranno ad esaltare l’avanzamento sempre più rapido (fino al parossismo della rivoluzione digitale) del progresso tecnologico come un fattore di illimitata estensione delle libertà individuali, ignorando sistematicamente le “forme nuove e più perfette di reificazione subentranti a quelle vecchie”. La feticizzazione del general intellect tipica della narrazione dei teorici post operaisti (12) ha contribuito a diffondere l’idea che le nuove tecnologie incorporino l’insieme delle relazioni sociali assieme alla possibilità di dispiegarne il potenziale emancipativo. Viceversa il principio di coazione economico sociale ad esse associato viene sistematicamente ignorato, o ridotto a un residuo giuridico (la proprietà privata) agevolmente liquidabile (13).

Il dogma secondo cui il superamento del capitalismo diviene possibile nel momento in cui lo sviluppo delle forze produttive genera una contraddizione insanabile con i rapporti di produzione, si converte così in una infernale trappola ideologica, impedendo di riconoscere la necessità di “costruire politicamente” quel livello di sviluppo della personalità umana indispensabile a trasformare il mondo.


Note
(1) Capofila di questa velleità di “scientificizzare” il pensiero di Marx è indubbiamente Louis Althusser (cfr. Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967.
(2) Sulla categoria gnoseologica di idealtipo cfr. M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Torino 1999.
(3) E’ sintomatico che l’idea stessa di progresso venga associata alla storia europea. In questo senso, Lukacs non è esente dal peccato di eurocentrismo che Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007) rimprovera a Marx ed Engels (critica che il sottoscritto ha rilanciato in un post apparso su questo blog https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html ).
(4) Cfr. in particolare M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010.
(5) La citazione si riferisce a una lettera di Marx alla redazione di un giornale russo datata 1877, consultabile in K. Marx, F. Engels, India Cina Russia (a cura di B. Maffi), Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 235-36.
(6) Sul carattere profetico delle utopie politiche cfr. M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982. Ad accusare esplicitamente Marx di gnosticismo è invece E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990.
(7) Cfr. N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979; vedi anche Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983 e Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983.
(8) Delle caratteristiche del socialismo in stile cinese mi sono occupato in Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.
(9) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2002.
(10) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, DeriveApprodi, Roma 2019.
(11) A svolgere un’interessante riflessione sul ritardo dello sviluppo della personalità umana rispetto ai tempi dello sviluppo economico (e sull’impatto che tale ritardo ha avuto sulle difficoltà dei socialismi latinoamericani) è A. G. Linera in Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.
(12) Della feticizzazione operaista del concetto di general intellect mi sono occupato in diversi lavori. Cfr. in particolare, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.
(13) Una critica radicale dell’idea secondo cui la rivoluzione digitale creerebbe di per sé le condizioni per una transizione diretta al comunismo si trova in P. Dardot, C. Laval, la nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013
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