COMUNISMO, DEMOCRAZIA E LIBERALISMO

ott 19th, 2021 | Di | Categoria: Teoria e critica

COMUNISMO, DEMOCRAZIA E LIBERALISMO

Note a margine di un libro postumo di Domenico Losurdo

e di un’intervista ad Alvaro G. Linera

 

Carlo Formenti 

 

Nota introduttiva 

Nel dibattito teorico interno al campo marxista, la questione del rapporto fra comunismo e democrazia liberale è intricata, controversa e divisiva. Non solo perché eredita le scorie ideologiche di passaggi storici come la rottura fra Seconda e Terza Internazionale, la guerra fredda, la svolta eurocomunista e il crollo dei regimi socialisti, ma soprattutto  perché il trionfo del pensiero unico negli ultimi decenni è riuscito, da un lato, a inscrivere nel senso comune l’equazione comunismo=totalitarismo (vedi la delibera del Parlamento Europeo che equipara comunismo e nazismo), dall’altro lato, a liquidare ogni interpretazione alternativa del termine democrazia, ormai univocamente associato ai regimi liberal liberisti dei Paesi occidentali (e ciò malgrado le analisi di autori come Colin Crouch e Wolfgang Streeck (1) abbiano ampiamente descritto il divorzio fra democrazia e liberalismo che si è celebrato dopo la svolta neoliberista).

Liberarsi delle pastoie ideologiche di cui sopra non è semplice, tanto è vero che, anche intellettuali che non rinunciano a indicare nel socialismo l’alternativa a un capitalismo sempre più aggressivo e predatorio, esitano ad assumere posizioni radicali e, di fronte all’offensiva ideologica del nemico di classe, ripiegano su posizioni difensive, come se, per legittimare le proprie idee, dovessero dimostrare che il futuro che prospettano, non solo è compatibile con i principi e i valori liberaldemocratici, ma ne rappresenta addirittura il compimento. Qui non mi confronterò con questi atteggiamenti giustificatori, discuterò invece le più serie motivazioni con cui Domenico Losurdo  - in un’opera postuma di recente pubblicazione (2) – argomenta a sua volta che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo, bensì appropriarsene.

Premesso che Domenico Losurdo – assieme a Gyorgy Lukács, Costanzo Preve e pochi altri – è fra gli autori che più hanno influito sulla mia recente evoluzione teorica, nel caso specifico intendo spiegare perché mi trovo in netto contrasto con la tesi appena enunciata. Al tempo stesso, prenderò spunto dalle riflessioni critiche che Losurdo dedica al “messianesimo” che caratterizza certe correnti marxiste, per discutere alcune affermazioni che l’ex vice presidente boliviano Alvaro G. Linera (un altro intellettuale marxista che apprezzo profondamente) ha fatto nel corso di una lunga intervista rilasciata alla rivista Jacobin (3). Affermazioni dalle quali emerge che costui, pur essendo autore di una puntuale critica delle ideologie antistataliste che caratterizzano certe sinistre radicali, cede alla tentazione di rilanciare l’utopia dell’estinzione dello Stato.

 

Domenico Losurdo

 

 


I. Losurdo. Demeriti del messianesimo e meriti del liberalsocialismo. 

Che in Marx ed Engels fosse presente un filone messianico, con echi dell’escatologia ebraico cristiana, non è una scoperta. In molti casi – basti pensare ad autori come Voegelin e Löwith (4) – ciò è stato usato come un argomento per svalorizzare il contributo scientifico del marxismo alla comprensione della storia, laddove in altri si è cercato di dimostrare – vedi fra gli altri Costanzo Preve (5) – come questo aspetto rappresenti un elemento marginale, o comunque inessenziale, del pensiero marxiano. Per parte sua Losurdo, ne La questione comunista (l’opera postuma di cui stiamo discutendo), sottolinea come questa componente messianica si sia rafforzata dopo l’esperienza apocalittica della Prima guerra mondiale, a un punto tale da caratterizzare settori significativi del movimento comunista mondiale e da attraversarne l’intera storia dell’ultimo secolo, trovando espressione nell’opera in autori come Bebel, Bloch e la coppia Negri – Hardt. È lecito – si chiede Losurdo – sfruttare tali tendenze per ridurre la storia del marxismo a un capitolo di storia delle religioni? Si tratta evidentemente di una domanda retorica, che dà per scontata una risposta negativa, ma vediamo come Losurdo motiva tale risposta.

All’afflato teologico che percorre un’opera come il Principio speranza di Ernst Bloch, chi scrive ha dedicato un’ampia riflessione apparsa su questa pagina, successivamente integrata in un libro in via di pubblicazione (6). In quel lavoro monumentale, Bloch rivendica esplicitamente una relazione di continuità fra profezie ebraico cristiane (da Mosè a Gioacchino da Fiore), utopie rinascimentali (Campanella, Moro e altri) e socialismo utopistico, inquadrando il tutto in una sorta di tempo sospeso, caratterizzato dall’attesa di una “parusia” che, ancorché secolarizzata e filtrata dal contributo scientifico del materialismo storico, troverebbe il suo compimento nella costruzione del socialismo dopo la Rivoluzione d’Ottobre, che Bloch descrive come la prima tappa del cammino verso un futuro paradisiaco. Pur non riferendosi direttamente a Bloch, Losurdo scrive in proposito che “L’evocazione di un futuro luminoso, o anche solo nettamente migliore del presente, presuppone una visione unilaterale del tempo e dunque rinvia in primo luogo alla tradizione ebraico cristiana” (7).

Losurdo non demonizza questa visione ma la contestualizza storicamente, presentandola come il frutto dell’euforia di massa associata a una rivoluzione vittoriosa e alle aspettative che la accompagnano: “L’entusiasmo più o meno corale nell’edificazione di una nuova società può stimolare la sottovalutazione della dimensione naturale dell’uomo e far dimenticare che lo stesso entusiasmo più o meno corale è un momento fugace nell’ambito di un processo di costruzione dell’ordine nuovo che è prolungato, faticoso e ricco di contraddizioni e di passioni” (8). E ancora: “Quanto più un movimento rivoluzionario affonda le radici negli strati più profondi delle masse popolari, tanto più è portato a esprimere speranze di riscatto che, per essere state deluse e frustrate nel corso dei secoli, tendono ad assumere toni particolarmente enfatici e in qualche modo messianici. Proprio per questo, dopo avere rovesciato l’antico regime, per poter edificare un ordinamento nuovo relativamente stabile, ogni grande movimento rivoluzionario deve attraversare un processo di apprendimento faticoso e ricco di contraddizioni” (9).

Vale la pena di sottolineare due passaggi sui quali torneremo più avanti: mi riferisco alla “sottovalutazione della dimensione naturale dell’uomo”, contenuta nella prima citazione, e alla necessità di “un processo di apprendimento faticoso e ricco di contraddizioni” con cui si conclude la seconda citazione. Per ora mi limito a concludere la descrizione dell’analisi critica che Losurdo dedica a queste tendenze messianiche, rilanciando le considerazioni particolarmente puntute che il nostro dedica al duo Hardt-Negri. La descrizione della società comunista compiuta da questi due autori prospetta uno scenario in cui tutti i conflitti sociali – non solo i conflitti di classe – sono destinati a sparire, uno scenario irenico degno dei miti classici sull’età dell’oro, o delle descrizioni bibliche dell’Eden: “Spariscono  esercito, polizia, la norma giuridica in quanto tale, tutto ciò che rende possibile l’esercizio della forza. Niente proprietà privata e denaro, che rischiano di far riemergere la polarizzazione sociale” (10).

Anche qui, come nelle visionarie profezie di Ernst Bloch, siamo in presenza di un afflato religioso che Losurdo definisce come una sorta di neo francescanesimo, e che descrive così: “è l’apocatastasi, la restitutio omnium, la rigenerazione e la riconciliazione di tutto il creato di cui parlano ad esempio gli Atti degli apostoli” (11). Tuttavia, mentre Bloch esaltava la società sovietica nata dalla Rivoluzione d’Ottobre (12) in quanto primo passo sulla via della realizzazione del paradiso in terra, Negri appartiene a una cultura, comune alla maggior parte dei movimenti sociali post sessantottini, che rifiuta a priori la necessità di prendere il potere per gestire la transizione al socialismo. Si tratta di una cultura radicalmente antistatalista, che demonizza il potere politico in quanto tale, al punto che Negri, com’è noto, arriva ad affermare che le rivoluzioni coloniali vanno appoggiate solo finché non approdano alla costruzione di uno stato nazione, perché lo Stato è “il regalo avvelenato della liberazione nazionale”.

Siamo di fronte a una concezione “ribellistica” che vede nel potere in quanto tale – a prescindere dagli interessi di classe che rispecchia e rappresenta – il nemico assoluto: “Il ribelle è preoccupato in primo luogo di affermare la sua superiorità rispetto a qualsiasi contenuto politico determinato. Non è antidogmatismo ma civettuolo dogmatismo del soggetto” (13). Una concezione, aggiunge Losurdo, duramente criticata da Antonio Gramsci, il quale vedeva nel ribellismo, nel sovversivismo e nell’antistatalismo l’espressione di un atteggiamento “apoliticista”, di un’evasione dalla realtà del conflitto e della  sostanziale rinuncia a modificare l’esistente. Per cui Losurdo conclude la sua riflessione critica rilanciando il detto gramsciano che recita: “scarsa comprensione dello stato significa scarsa coscienza di classe”.

È importante sottolineare che tanto il messianesimo quanto l’antistatalismo che ad esso si ispira non sono banali infatuazioni ideologiche che riguardano ristrette élite intellettuali: queste ideologie, per esempio, hanno esercitato un’influenza profonda su ampi settori del partito bolscevico e del movimento operaio russo nella fase immediatamente successiva alla presa del potere, caratterizzata dal cosiddetto “comunismo di guerra”. Chi aderiva a tale visione riteneva possibile compiere una transizione diretta al socialismo che avrebbe comportato l’eliminazione immediata del mercato e della stessa moneta, nonché l’assunzione diretta del controllo operaio sulla produzione attraverso forme di autogestione (14). Se tale linea avesse vinto, le conseguenze, visto lo stato disastroso dell’economia russa devastata dalla Prima guerra mondiale e dalla successiva guerra civile, sarebbero state disastrose. Fortunatamente, osserva Losurdo, “nella Russia sovietica abbastanza presto la pratica di governo ha significato l’addio all’idea dell’estinzione dello Stato” (15). La svolta della Nep, imposta da Lenin, ha impedito che si seguisse la strada suicida indicata da una visione astratta che prescindeva totalmente dalla realtà materiale della situazione economica, alla quale opponeva la consapevolezza che non vi sarebbe stata alcuna libertà prima di  realizzare la libertà dal bisogno (bisogno che in quel contesto storico appariva stringente). “Liberare dalla miseria e dalla fame comportava gigantesche trasformazioni politico sociali che esigevano il superamento del controllo privato dei grandi mezzi di produzione” (16), ma raggiungere tale obiettivo non sarebbe stato possibile senza adottare una forma di capitalismo di Stato, diversa da quella esistente nei Paesi capitalisti nella misura in cui era sottoposta al controllo del potere sovietico (17).

Non ho qui modo di discutere l’ipotesi avanzata da Rita di Leo (18), secondo cui, se Lenin fosse vissuto più a lungo e se si fosse insistito sulla linea tracciata dalla Nep, la Russia avrebbe potuto anticipare di mezzo secolo la soluzione che la Cina ha adottato con le riforme del 1978, attuando una sorta di “uso bolscevico del capitalismo”, mi limito dunque ad affermare, in sintonia con quanto sostenuto da Losurdo, che l’esperienza cinese rappresenta un ulteriore, decisivo passo sulla via del superamento del messianesimo. Dopo le tentazioni utopistiche che avevano trovato espressione nel Grande Balzo in avanti e nella Rivoluzione Culturale, il Partito-Stato cinese ha compreso la necessità di sfruttare gli spiriti animali dei settori borghesi della nazione per alimentare uno sviluppo economico che ha consentito di sottrarre alla fame e alla miseria 800 milioni di cittadini ma, al tempo stesso, ha mantenuto il controllo pubblico sui settori produttivi strategici, sulle banche e sui servizi sociali, ma soprattutto ha conservato un ferreo controllo politico sulle istituzioni, frustrando i tentativi delle minoranze arricchitesi grazie alle riforme di impadronirsi del potere. Non è vero socialismo? Si tratta, nella migliore delle ipotesi, di capitalismo di Stato? Di questi interrogativi, che ho già affrontato in precedenti occasioni (19), discuterò più avanti a partire dalle tesi di Linera. Prima intendo affrontare l’altro grande tema trattato da Losurdo nel suo ultimo libro: il prezzo della via cinese è l’instaurazione di un regime totalitario? E quand’anche l’etichetta di totalitarismo fosse da respingere, al superamento delle visioni utopistiche  del messianesimo deve necessariamente seguire il riconoscimento che il comunismo ha qualcosa da imparare dalla tradizione liberale?

Losurdo non spende eccessive energie nel decostruire la narrazione occidentale su una storia del totalitarismo che sarebbe iniziata con la Rivoluzione d’Ottobre, narrazione che, ancorché ”nobilitata” da Hannah Arendt e da una sfilza di servizievoli filosofi, fra i quali si distinguono molti ex comunisti pentiti, come i nouveaux philosophes francesi, poco ha a che fare con la ricerca storica e assai più con un “rito di autoassoluzione dell’Occidente capitalistico e liberale”. Si concentra un po’ di più, con un sarcasmo venato di amarezza, sulle dissociazioni nei confronti dei “crimini” del socialismo reale che gli intellettuali appartenenti alla sinistra radicale sono venuti sciorinando dai fatti di Ungheria al crollo del Muro di Berlino, salutato come un trionfo della libertà e non – come gli eventi storici successivi si sono incaricati di dimostrare – come una catastrofe che il proletariato mondiale ha pagato a carissimo prezzo. Fra i vari esempi, cita una dichiarazione di Fausto Bertinotti il quale, nel 2008, ebbe a dire che, in conseguenza della storia novecentesca, la parola comunismo era divenuta “indicibile” (20), e poche pagine dopo aggiunge che questo “sgomento” è “espressione di subalternità nei confronti del bilancio storico del Novecento tracciato dall’ideologia dominante” (21).

Posto che il comunismo non è riducibile alla categoria del totalitarismo, resta l’interrogativo di cui sopra: in che misura i comunisti dovrebbero condividere i principi e i valori della tradizione liberare? Losurdo affronta il tema attraverso un corpo a corpo con il pensiero del guru del liberal socialismo italiano, Norberto Bobbio. In primo luogo, ricorda che Bobbio opponeva ai comunisti le ragioni della irrinunciabilità della libertà formale e delle sue garanzie giuridico istituzionali, sostenendo che “quel non molto di democrazia che esiste nel mondo (…) esiste di fatto soltanto nelle società capitalistiche” mentre i regimi che hanno preteso di costruire un diverso ordinamento sociale sono stati contrassegnati “fin dal primo momento (dal)l’instaurazione di un potere monocratico” (22).

 

 

Norberto Bobbio

 

 

Di fronte a questa e altre analoghe provocazioni, sostiene Losurdo, la cultura comunista ha reagito in due modi diversi. Da un lato, cita la posizione di Galvano Dalla Volpe, il quale (in sintonia con una tradizione che può essere fatta risalire a Marx) contrapponeva alla libertas minor (la libertà negativa, o libertà da, tipica del diritto borghese e ritagliata sul diritto dell’individuo proprietario) la libertas maior (la libertà positiva, o libertà di, ritagliata sui diritti collettivi della comunità dei produttori). Dall’altro lato (e Losurdo si schiera con questa seconda posizione), evoca i concetti togliattiani di democrazia progressiva e di via italiana al socialismo che sintetizza così: “Coniugare potere ed egemonia operaia  e Stato di diritto, farla finita con la vulgata marxista che liquidava come irrilevanti le libertà formali sancite dalla rivoluzione democratico borghese” (23), aggiungendo che questa concezione si fonda sulla visione della rivoluzione antifascista come sviluppo a un livello superiore del Risorgimento (e implica, aggiungerei, la visione della rivoluzione proletaria come attuazione dei principi e valori della rivoluzione democratico borghese dell’89, rimasti in ampia misura inattuati).

 

 

Palmiro Togliatti

 

 

In altre parole, secondo Losurdo, la visione togliattiana dimostrerebbe il fatto che i comunisti,  piuttosto che negare o svalutare le conquiste di cui erano stati protagonisti liberali e democratici ,“si proponevano di universalizzarle (mettendo fine alla clausole di esclusione)  e di far valere tali conquiste anche nella materialità dei rapporti economici e sociali tenendo conto di volta in volta della concreta situazione storico-politica” (24). Il riferimento alle clausole di esclusione rinvia sia alla mancata tematizzazione dei diritti dei popoli coloniali (Stuart Mill, che Bobbio annoverava fra i suoi ispiratori, rivendicava in modo esplicito il dispotismo dell’Occidente sulle razze “minorenni”), sia la sordità nei confronti dei diritti negati delle classi subalterne occidentali, a conferma dell’incapacità di pensare la libertà in termini realmente universali. In conclusione: il liberal socialismo di Bobbio, nella misura in cui ignora il conflitto delle libertà (cioè il conflitto di classe), “si configura come una fuga dal conflitto e, in ultima analisi dalla storia”.

Del resto, a Losurdo non sfugge che, di fronte alla vittoria occidentale nella guerra fredda, il liberal socialismo si è spogliato dei suoi caratteri progressivi, al punto che l’ultimo Bobbio ha finito per sposare la tesi di un Nolte “secondo cui l’orrore del Novecento prende le mosse dalla rivoluzione d’ottobre, piuttosto che dal colonialismo contro il quale i bolscevichi chiamano alla lotta e che Hitler in particolare intende riprendere radicalizzare e far valere nella stessa Europa” (25). È a partire da questa svolta che diventa evidente come le accuse di autori come Bobbio e Popper, secondo cui l’utopia socialista è destinata a rovesciarsi nell’orrore totalitario, possono essere ritorte contro coloro che le proferiscono: “Né Bobbio né Popper si sono posti il problema se per caso nel loro progetto politico non ci sia un elemento di utopia che potrebbe rovesciarsi nel suo contrario. Soprattutto dopo il trionfo conseguito dall’Occidente nella guerra fredda, si è diffusa massicciamente la teoria secondo la quale il trionfo della pace perpetua presupporrebbe l’espansione della democrazia su scala planetaria. È così che il conseguimento dell’ideale, ovvero dell’utopia della pace perpetua ha provocato in Medio Oriente un susseguirsi di guerre di cui non si intravvede la fine” (26). Detto altrimenti: l’interpretazione messianica del marxismo e l’annuncio di “fine della storia” da parte del liberalismo trionfante sono due escatologie contrapposte “di cui la prima colloca la plenitudo temporum nel futuro e la seconda, in quanto escatologia realizzata, nel presente” (26). Eppure, questa lucida presa d’atto non impedisce a Losurdo si affermare che il fallimento del liberal socialismo “non significa affermare che il movimento comunista non abbia nulla da apprendere dalla tradizione liberale” (28). Concluderò quindi questa prima parte spiegando i motivi per cui sono totalmente in disaccordo con quest’ultima affermazione.

Contrariamente a Losurdo, sono convinto che Galvano Dalla Volpe avesse ragione nell’identificare nella libertas minor, nella libertà negativa o libertà da, il tratto distintivo del liberalismo, e nell’opporvi la libertas maior, la libertà positiva o libertà di, l’elemento caratterizzante di un movimento politico e sociale orientato alla rivendicazione di diritti collettivi. Questo punto di vista coincide con quello di Marx, il quale, polemizzando con l’anarchismo, metteva in luce come mettere al centro la libertà individuale volesse dire non guardare al di là di una società di imprenditori privati. Mentre è vero che il messianesimo di certe correnti tardo marxiste finisce per convergere con il messianesimo liberal socialista, è altrettanto vero che il superamento del messianesimo da parte dell’ultimo Lenin e del partito comunista cinese non è associato al recupero di principi e valori del liberalismo borghese.

In secondo luogo non credo che i concetti togliattiani di democrazia progressiva e di via italiana al socialismo possano – né tanto meno debbano -  essere assunti a modello di una sintesi fra progetto comunista e contenuti progressivi del liberal socialismo. Di ciò erano ben consapevoli i compagni cinesi che, non a caso, pubblicarono il noto libello “Sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi”. Ma soprattutto considero un grave errore la tesi secondo cui alla rivoluzione comunista spetterebbe realizzare i principi e i valori della rivoluzione dell’89, traditi dalla borghesia. Lenin non condivise mai l’idea che compito della Rivoluzione d’Ottobre fosse quello di passare attraverso una fase borghese cui sarebbe spettato di realizzare i diritti e le libertà negate dal regime zarista (il che è tanto più significativo ove si tenga conto del ritardo storico della società russa). Né la svolta della Nep può essere considerata un ripensamento, in quanto metteva in gioco esclusivamente alcune regole dell’economia di mercato nella forma del capitalismo di Stato, e sotto stretto controllo del partito, ma non si proponeva minimamente di richiamare in vita quel contesto liberal democratico che, secondo i canoni della filosofia liberale, sarebbe consustanziale all’economia di mercato (il che vale a maggior ragione per le riforme cinesi del 78, che il partito si è sempre rifiutato di associare a un’evoluzione del regime in senso liberal democratico). Quanto a Marx, il suo giudizio sull’ideale di uguaglianza e sui diritti dell’uomo sanciti dalla Rivoluzione Francese è inequivoco: per Marx il diritto borghese, come ricorda Lukács (29), non si situa mai oltre una concezione economica dell’eguaglianza, come emerge limpidamente  dal rapporto di compravendita della forza lavoro: il compratore rivendica il diritto a prolungare la giornata lavorativa, il venditore rivendica il diritto a limitarne la durata: diritto contro diritto entrambi consacrati dalla legge di scambio delle merci, ma fra diritti uguali decide la forza. Quanto ai diritti dell’uomo – oggi arma strategica nella guerra fredda dell’Occidente capitalistico contro i Paesi socialisti – sempre Lukács argomenta che il problema nasce dalla separazione fra il cytoyen e l’homme: i diritti dell’uomo che si presentano nelle costituzioni delle rivoluzioni borghesi sono appunto i diritti del homme, che ne sanciscono la separazione e l’autonomia dalla sfera dello Stato, della società, della politica, offrendo all’uomo la piena libertà di estraniarsi a suo arbitrio sul piano sociale e naturalmente anche su quello ideologico (30). Una “libertà” che Marx liquida così: “Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè l’uomo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità” (31).

3. Non condivido inoltre l’idea che la differenza fondamentale fra principi e valori del comunismo e principi e valori del liberal socialismo, non starebbe tanto nel contenuto (riducibile alla triade libertà, uguaglianza, fraternità?) quanto nel maggior grado di universalismo con cui vengono perseguiti dal primo, mentre il secondo li applicherebbe solo agli strati sociali medio alti delle popolazioni occidentali, escludendone i popoli coloniali ed ex coloniali e, di fatto, i membri delle classi subalterne dello stesso Occidente. Dissento non solo e non tanto perché, come argomentato nei punti precedenti, ritengo che i contenuti dei termini sopra evocati non siano affatto gli stessi per comunisti e liberali, ma anche e soprattutto perché non credo che ai principi e ai valori in questione possa essere attribuito valore universale, trascendendo tanto dal contesto storico-temporale quanto da quello geografico-spaziale. Adottando tale prospettiva universalista, Losurdo appare più vicino a Kant e a Bobbio che a Marx, ma soprattutto assume un punto di vista eurocentrico che lo pone obiettivamente in contraddizione con le sue riflessioni sull’opposizione fra marxismo orientale e marxismo occidentale (32). È proprio questa prospettiva eurocentrica che i comunisti cinesi contestano quando la propaganda occidentale accusa la Cina di non rispettare i diritti “universali” dell’uomo. Non a caso, il Partito comunista cinese, mentre è da qualche anno impegnato a discutere riforme che dovrebbero meglio definire, consolidare e applicare il concetto di stato di diritto in Cina, precisa che tale concetto non sarà in alcun caso una replica di quello occidentale, ma rispecchierà le specificità storiche e culturali della Cina, oltre ai principi e ai valori del marxismo leninismo.

Infine, dal momento che non credo che il liberalismo possa esistere come un insieme di idee astratte, avulse da un contesto storico specifico, ritengo che non abbia senso distinguere fra un liberal socialismo buono e il liberalismo cattivo dei regimi neoliberisti che governano oggi l’Occidente. Le ideologie non fluttuano nel vuoto, sono sempre “incarnate”, calate in una situazione concreta, storicamente determinata, che le modella secondo le proprie esigenze. Ergo: il liberalismo è quello che abbiamo di fronte, quello che sta distruggendo sistematicamente i rapporti di forza delle classi subalterne e che impugna i suoi “principi” e i suoi “valori” come armi nella guerra contro il socialismo. Da questo mostro, checché ne dica Losurdo, i comunisti non hanno nulla da imparare. Né vale riferirsi alla sua tradizione, perché è esattamente quella tradizione – quella che Andrea Zhok definisce la ragione liberale (33) – che ha partorito il mostro.

 

II. Linera. Davvero non esiste una via statale al socialismo? 

In una recente intervista rilasciata alla rivista Jacobin (edizione latinoamericana) l’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera affronta, fra gli altri, i seguenti temi: perché il golpe di destra ha avuto successo; perché il governo socialista non è stato in grado di reagire immediatamente, ma è riuscito a tornare al potere in tempi brevi; quali sono le prospettive del nuovo ciclo progressista che sembrerebbe sul punto di nascere in America Latina; se sia  davvero necessario che i governi popolari facciano concessioni alle destre; perché è sbagliata l’idea che si possa cambiare il mondo senza prendere il potere e qual è il ruolo dello Stato nella transizione al socialismo. Anche se il tema più legato agli argomenti affrontati nella prima parte di questo articolo è l’ultimo, anche le risposte che Linera dà agli altri quesiti aiutano a ragionare su una questione cruciale non solo per i popoli latino americani ma anche per noi occidentali: in che misura è concepibile una transizione pacifica al socialismo? Per tale motivo, pur concentrandomi soprattutto sull’ultima questione, riassumerò alcuni passaggi salienti delle precedenti.

Ogni golpe, argomenta Linera, è reso possibile dal fatto che una ristretta élite riesce a condividere il proprio progetto con un più ampio gruppo sociale che “la mantiene, la alimenta, la spalleggia, applaude e apprezza i suoi obiettivi”. Secondo Linera, in Bolivia questo gruppo coincide in larga misura con quella che definisce classe media tradizionale. Nell’intervista non viene ulteriormente spiegato tale concetto, ma possiamo presumere si riferisca a strati professionali come manager di imprese private, burocrati e funzionari pubblici, accademici, giornalisti, ecc. oltre che a percettori di rendite di vario genere. Si tratta di strati razzialmente connotati (bianchi e creoli), inferociti dall’ascesa al potere della maggioranza india (se gli indios hanno vinto, è uno dei leitmotiv, è stato grazie a frodi elettorali), e sempre più determinati a contrastare i progetti di allargamento della democrazia. Questa base sociale ha creato un clima favorevole a un’azione di forza, autoritaria, non solo attraverso i media controllati dalle destre e il loro linguaggio aggressivo, ma facendo circolare i propri discorsi attraverso reti sociali basate su canali privati, informali come club sportivi, associazioni culturali, circoli religiosi, ecc.

L’errore commesso dal governo, che ha consentito al golpe di avere successo, è stato credere che si potesse rispondere sul piano politico, confidando che si ripetesse quanto era successo nel 2008, quando la mobilitazione popolare era riuscita a sventare un analogo tentativo. Ciò che non si è previsto è che il golpe venisse appoggiato dall’esercito. Di fronte all’azione militare, il governo doveva decidere se chiamare il popolo a fronteggiare polizia e militari, ma il presidente Morales, cui spettava la decisione, non si è sentito di rischiare la vita di migliaia di persone e ha preferito dimettersi. Ragionando su questi eventi, Linera fa due considerazioni interessanti. La prima riguarda l’esercito: le forze armate, argomenta, sono espressione dell’autonomia relativa dello Stato, detengono un potere dotato di una sua peculiare dinamica. L’unico modo per controllarlo consiste nel cambiare la composizione di classe dell’esercito: si tratta di modificare i percorsi di carriera per generare uno spirito di corpo più vicino al popolo (Linera non  cita l’esempio del Venezuela, ma il pensiero corre inevitabilmente al sostegno decisivo che la rivoluzione di quel Paese ha ricevuto dai militari). La seconda considerazione è sintetizzabile nella frase “noi siamo forti se controlliamo il territorio”, con ciò Linera si riferisce soprattutto al processo del 2000, caratterizzato dall’emergenza di una sovranità popolare territoriale che ha accerchiato le città. È questa sovranità territoriale che, anche dopo il golpe, è in qualche modo riuscita a creare le condizioni per la vittoria elettorale che ha posto fine al golpe e riportato al governo il MAS (Movimiento al Socialismo). È il caso di notare che la lezione boliviana, ove si considerino fattori come la composizione etnica (caratterizzata dalla schiacciante maggioranza di cittadini di origine india) e di classe (che si sovrappone quasi completamente alla composizione etnica), appare inapplicabile in un contesto europeo (anche se il conflitto fra centri e periferie sta assumendo un peso crescente anche qui). Quanto al discorso sulle forze armate: la professionalizzazione degli eserciti occidentali (in assenza di qualsiasi tentativo delle sinistre di preservarne il carattere popolare), assieme all’ideologia delle sinistre radicali che le concepisce a priori come nemiche, rende difficile mettere in atto una strategia sul tipo di quella enunciata da Linera che, tuttavia, resta l’unica praticabile per limitarne il potenziale repressivo.

Gli anni che vanno dal 2005 al 2015 hanno visto l’ascesa al potere di diversi governi di sinistra nei Paesi latinoamericani. Questo periodo, inedito soprattutto per la contemporaneità e la quasi ubiquità di tali eventi, è stato definito come il giro a la izquierda (la svolta a sinistra) del subcontinente, dando origine a un ampio dibattito teorico: si trattava di socialismo o semplicemente di postneoliberismo? Definire questi processi come socialismo del secolo XXI era solo uno slogan, oppure il termine aveva qualche fondamento? Non si trattava piuttosto di inedite forme di populismo interpretabili in base alle teorie di Ernesto Laclau? Successivamente abbiamo assistito a una violenta controffensiva delle destre, sostenute più o meno direttamente dall’imperialismo nordamericano, che, tuttavia, si è esaurita in tempi relativamente brevi, al punto che oggi sembra prospettarsi un nuovo ciclo progressista. Interpellato sulla natura e sulla durata di tale ciclo Linera, dopo avere premesso che preferisce parlare di ondata (il termine ciclo gli sembra troppo determinista, nella misura in cui evoca un fenomeno governato da leggi “oggettive”), risponde dicendo che la situazione è oggi radicalmente diversa. La mancata, o comunque debole, risposta delle destre conservatrici alla prima ondata aveva alimentato l’illusione che si fosse di fronte al definitivo tramonto del momento neoliberale, ma in realtà quell’apparente impotenza delle destre era in gran parte dovuto al fatto che furono colte di sorpresa, impreparate a reagire. Di fronte alla sfida postneoliberista si limitarono a rispondere riproponendo il vecchio discorso neoliberista che non era più in grado di ottenere il consenso popolare. Poi c’è stata la grande crisi del 2008, che prosegue oggi aggravata dall’evento pandemico, e che ha messo in difficoltà le sinistre al governo; nel frattempo le destre si sono riorganizzate e hanno lanciato una violenta controffensiva. La nuova ondata progressista nasce dunque in uno scenario profondamente mutato, un contesto globale incerto in cui nessuno dei due schieramenti in campo è in grado di prospettare una credibile immagine di futuro, mentre nelle opinioni pubbliche prevalgono paura e incertezza, per cui conclude prevedendo una sorta di tempo sospeso (34) caratterizzato da un’alternanza di ondate e contro ondate destinata a durare a lungo.

Gli intervistatori gli chiedono se questa situazione obbligherà necessariamente i governi popolari a fare concessioni alle destre. E qui la risposta suona particolarmente interessante, in quanto trascende il contesto latinoamericano perché affronta un tema – la possibilità di avviare la transizione a un regime postcapitalista per via pacifica – che ci tocca da vicino. Linera pone una distinzione fondamentale fra le rivoluzioni nate da una vittoria militare del proletariato e quelle avvenute per via elettorale, rispettando le regole della democrazia formale. Per quest’ultime è chiaro che i nuovi governi dovranno convivere per tutto il tempo della loro durata con le vecchie classi dominanti (per cui sarà inevitabile trattare con esse), in quanto sottoposti a vincoli costituzionali che escludono la possibilità di “dissolvere” una classe sociale, anche se Linera non esclude che, ove il processo prendesse un’altra piega, si possa arrivare a un “momento leninista”. (Per inciso, è opportuno notare che, anche in caso di vittoria militare, è inevitabile che nel successivo processo di transizione si debba comunque tenere conto dell’esistenza di gruppi sociali espressione della realtà sociale prerivoluzionaria: basti pensare al peso tuttora esercitato dalla classe capitalistica in Cina). Per non essere ricattabile da un’opposizione che conserva poteri significativi – non solo economici, ma anche politici, culturali e istituzionali – un governo progressista, argomenta Linera, deve garantire allo Stato la possibilità di controllare settori strategici dell’economia che producano almeno il 30% del Pil, e deve essere in grado di sfruttare una serie di meccanismi quali tasse, politiche fiscali, investimenti, nazionalizzazioni, ecc. Quando diviene possibile andare oltre, passando da questo tipo di economia mista alla transizione al socialismo? Nella risposta di Linera ci sono due nodi teorici altamente problematici: in primo luogo, sostiene che le nazionalizzazioni non risolvono il problema della trasformazione del sistema economico (e sin qui posso essere d’accordo), ma poi aggiunge che non vi è possibilità alcuna di socialismo per via statale, in quanto il monopolio statale sui mezzi di produzione è alternativo al loro controllo diretto da parte dei lavoratori. E qui si ripresenta lo spirito del messianesimo criticato da Losurdo, come appare ancora più chiaramente laddove Linera aggiunge che la possibilità di andare oltre si presenterà solo se e quando la società – non i partiti e i governi – si porrà l’obiettivo di democratizzare la ricchezza.

 

 

Alvaro G. Linera con Evo Morales

 

 

Nella parte conclusiva dell’intervista, a questa visione utopistica – che rilancia implicitamente la profezia dell’estinzione dello Stato – si affianca paradossalmente la critica a quelle sinistre radicali che rifiutano a priori l’obiettivo della conquista del potere, sognando un improbabile avvento del comunismo per vie apolitiche. Linera riprende infatti quanto già affermato in lavori precedenti (35): la demonizzazione del potere politico è frutto dell’incomprensione dei meccanismi che regolano i rapporti di forza fra classi sociali; rispecchia un’idea “strumentale” dello Stato, concepito come struttura priva di qualsiasi autonomia e integralmente asservita agli interessi delle élite dominanti, e non come campo su cui agiscono forze contrastanti in perenne lotta reciproca (se i movimenti operai non avessero compreso  tale realtà, e avessero rinunciato a impegnarsi sul terreno del potere politico per conquistare equilibri sociali più favorevoli alle classi subalterne, non sarebbe stato possibile raggiungere nessuno degli obiettivi ottenuti al prezzo di incredibili sacrifici nel corso di un secolo e mezzo di lotte di classe). Il regime boliviano è una forma di capitalismo di Stato, accusano i critici “di sinistra”. Certo, replica Linera, ed è per questo che deve mediare fra interessi contrastanti (i salari – che pure sono aumentati in modo più che significativo – non possono crescere in misura tale da mettere a rischio la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, e il denaro generato dall’economia privata è un fattore strategico per alimentare la crescita economica del Paese e consentire lo sviluppo dei servizi sociali e del welfare, alimentare un benessere diffuso e conservare il consenso necessario alla prosecuzione del progetto di trasformazione). Ma Linera rivendica queste scelte autodefinendosi “un leninista della Nep”, e citando il famoso articolo “Meglio meno ma meglio” con cui il leader bolscevico giustificava la svolta dei primi anni Venti.

Come conciliare questa visione con l’affermazione di cui sopra, secondo la quale non si potrà mai raggiungere il socialismo per via statale perché così non c’è un controllo diretto del popolo sulla ricchezza bensì un monopolio (statale ma pur sempre tale), dal quale la gente può sentirsi rappresentata, con il quale può dialogare, ma che non smette perciò di essere un monopolio. Per andare oltre, lo si è visto poco sopra, secondo Linera occorrerà che sia la società, e non lo Stato e il partito, a porsi l’obiettivo di democratizzare la ricchezza. Senonché  è lui stesso a fornire un esempio di quanto tale prospettiva sia parte integrante dei miti messianici criticati da Losurdo. Nell’intervista racconta infatti il caso di una miniera autogestita dai 5000 minatori che vi lavorano: ebbene, quei lavoratori si rifiutano di restituire alla società una quota dei propri guadagni, preferendo tenerseli tutti. Si tratta di un fenomeno analogo a quelli diffusi nella Russia postrivoluzionaria che, secondo Rita di Leo (36), hanno avuto un ruolo determinante nello spingere Lenin a imporre la svolta della Nep, anche in quanto strumento per stroncare i comportamenti corporativi attraverso la disciplina del mercato.

A commento di questo episodio ripropongo un brano di Losurdo già citato in precedenza: “L’entusiasmo più o meno corale nell’edificazione di una nuova società può stimolare la sottovalutazione della dimensione naturale dell’uomo e far dimenticare che lo stesso entusiasmo più o meno corale è un momento fugace nell’ambito di un processo di costruzione dell’ordine nuovo che è prolungato, faticoso e ricco di contraddizioni e di passioni”. Una caratteristica fondamentale del discorso messianico – o grande narrativo, come preferisce definirlo Costanzo Preve (37) – è l’ottimismo antropologico. L’uomo è buono – o almeno dotato di una naturale tendenza alla fraternità e alla condivisione – e se diventa egoista e cattivo è solo a causa dell’alienazione generata da un modo di produzione fondato sulla proprietà privata, una volta superato quest’ultimo, potrà esprimere tutte le sue potenzialità positive. Manca qui totalmente la consapevolezza che la natura umana presenta dei tratti aggressivi e competitivi che non spariranno magicamente assieme alla proprietà privata; così come manca la consapevolezza che, esaurito l’entusiasmo iniziale per l’avvento di un ordine nuovo, le persone non avranno particolare desiderio di assumersi l’onere della gestione di un processo prolungato, faticoso e ricco di contraddizioni e di passioni. 

 

 

Lenin spiega la NEP al popolo

 

 

Presumo che Linera trascuri questi elementi perché inserito in un contesto culturale latinoamericano in cui l’utopia della costruzione dell’uomo nuovo, e più in generale i valori di un illuminismo a forte caratterizzazione umanista (basti pensare a certi discorsi di Che Guevara e ai teologi della liberazione) sono fortemente radicati (non a caso, a un certo punto dell’intervista dice: “ci sarà Stato finché non lo avremo demolito nella nostra psiche”, a conferma di questa visione pedagogico-illuminista del processo rivoluzionario). Concludo su questa questione dicendo che, a mio avviso, mentre le visioni utopistiche del comunismo possono continuare a svolgere il ruolo di miti fondativi, di ideologie positive nel senso gramsciano e lukacsiano, occorre ragionare sulla prospettiva di un “socialismo possibile”, senza sottovalutare il ruolo del capitalismo di Stato come passaggio obbligato verso una società post capitalista, e soprattutto occorre accantonare il mito della estinzione dello Stato, riflettendo piuttosto sul modo in cui uno Stato non più al servizio degli interessi del capitale potrà essere ulteriormente democratizzato (ma non adottando i principi e dei valori della tradizione liberale, come vorrebbe l’ultimo Losurdo!).

Presumo che il lettore attento abbia capito che ho scelto di far dialogare questi testi di due autori che stimo profondamente perché ritengo che, in un certo senso, si integrino e si correggano a vicenda. Entrambi concorrono a demolire le visioni utopistico messianiche di una sinistra radicale che ha rimosso la questione del potere (e Losurdo può aiutare a correggere certi residui antistatalisti tuttora presenti nel discorso di Linera). Entrambi affrontano il tema cruciale della possibilità di una transizione pacifica al socialismo (e Linera, descrivendo le terribili difficoltà della convivenza fra progetto socialista e forme costituzionali ispirate al liberalismo, può aiutare a dissipare le suggestioni “togliattiane” e “bobbiane” di Losurdo). Restano ovviamente aperti e problematici gli argomenti relativi alla transizione a una società postcapitalista, al tipo di democrazia che essa dovrà costruire, alle mutazioni antropologiche necessarie per far fronte al fatto che “i mutamenti morali sono più lunghi di quelli della trasformazione politica” (38) e ad altri temi che ho solo sfiorato in questo scritto.

Note

(1) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003; W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.

(2) D. Losurdo, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, Carocci, Roma 2021.

(3) “Soy un leninista de la NEP” https://jacobinlat.com/2021/10/12/soy-un-leninista-de-la-nep-2

(4) Cfr. E. Voegelin, Il mito del mondo nuovo, Rusconi, Milano 1990; K. Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Roma-Bari 1994.

(5) Cfr. C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1986.

(6) Cfr. C. Formenti, Ombre rosse, in via di pubblicazione.

(7) Op. cit., p.   56.

(8) Ibidem, p. 62.

(9) Ibidem, p. 137.

(10) Ibidem, p. 132.

(11) Ibidem, p. 134.

(12) Cfr. Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Milano-Udine 2019. Come osservo in Ombre rosse, cit. questo entusiasmo per l’esperimento sovietico non ha impedito a Bloch di prendere successivamente le distanze dal socialismo reale.

(13) Losurdo, op. cit., p. 163.

(14) Cfr. la trilogia di Rita di Leo: L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012; Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, Ediesse 2017 e L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, il Mulino 2018.

(15) Losurdo, op. cit., p. 147.

(16) Ibidem, p.p. 85-86.

(17) Ivi.

(18) https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/09/dalla-nep-di-lenin-alle-riforme-cinesi.html

(19) Cfr. in particolare, C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.

(20) Losurdo, op. cit., p. 41.

(21) Ibidem, p., 44.

(22) Ibidem, p. 106.

(23) Ibidem, p. 174.

(24) Ibidem, p. 74.

(25) Ibidem, p., 111.

(26) Ibidem, p. 57.

(27) Ibidem, p. 86.

(28) Ibidem, p. 121.

(29) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, vol. III pp. 212-213.

(30) Ibidem, vol. VI, p. 623.

(31) K. Marx, Critica al Programma di Gotha, in  K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, pp. 961-962.

(32) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2017.

(33) Cfr. A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.

(34) Questa profezia è in sintonia con la tesi di W. Streeck che, in Come finirà il capitalismo (Meltemi, Milano 2021), sostiene che il capitalismo è destinato a crollare sotto il peso delle sue contraddizioni interne, ma data l’assenza di un progetto alternativo di società in grado di prenderne il posto, al crollo seguirà una lunga fase di interregno caratterizzata dall’entropia sociale e da processi caotici. Non a caso, di questi tempi si sente citare sempre più spesso il detto di Gramsci che recita “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”.

(35) Cfr. A. G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(36) Cfr. R. di Leo, opp. citt.

(37) Cfr. La filosofia imperfetta, cit.

(38) D. Losurdo, op. cit., p. 62.

 

Carlo Formenti Socialismo XXI   

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