Dalla questione meridionale allo Stato-piano. Gramsci e l’operaismo

nov 18th, 2022 | Di | Categoria: Cultura e società

   Immagine: Andrea Salvino

Dalla questione meridionale allo Stato-piano. Gramsci e l’operaismo

Il testo rilegge la questione meridionale e la rivoluzione passiva gramsciana attraverso il «filtro della soggettivazione» e, nell’assumere il punto di vista dei subalterni, apre all’analisi operaista dello Stato-piano.

Quando il secondo conflitto mondiale giunge a termine, l’Italia è, ancora più di prima, un crocevia di contraddizioni. Il fascismo e la guerra hanno assestato un decisivo fendente a una situazione già ampiamente precaria. La storia del belpaese era d’altronde da lungo tempo una storia fatta di fratture, divisioni interne, spaccature profonde e insanabili.

È in tale contesto storico che va situata, in termini contemporanei, la cosiddetta questione meridionale. Ossia, quel fascio di problemi volto a mettere a fuoco il divario economico, sociale e politico tra Nord e Sud. Di più, si tratta, con la questione meridionale, di tentare di risolvere la vexata quaestio del divario tra Settentrione e Meridione nell’ottica di un superamento dello sviluppo a due velocità tale da aver prodotto, nel corso dello svolgimento della storia del nostro paese, due Italie: la prima sulla via della crescita industriale sulle spalle di una sempre più crescente classe operaia, la seconda degradata e rurale, sorretta da una massa contadino-rurale sotto il giogo di un arcaico blocco agrario.

Intellettuali, subalterni e l’economia programmatica nei Quaderni del carcere

Per lungo tempo la Questione meridionale è stata associata al problema dell’alleanza di classe tra classe operaia e contadina e classe borghese riformista e illuminata. Ciò deriva dall’impostazione data da Antonio Gramsci, in un lungo articolo del 1926 dal titolo Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici e più comunemente noto come Alcuni temi della questione meridionale.

L’articolo gramsciano non fu mai dato alle stampe dall’autore (arrestato nel 1926) ma da Palmiro Togliatti, che nel 1930 lo fece pubblicare, inconcluso, sulle pagine de Lo Stato operaio. A partire da questa breve storia editoriale, ci è possibile arrivare a sostenere un dato, a nostro avviso, non secondario: non solo l’articolo non fu mai portato a termine dal suo autore, ma per di più apparteneva a una determinata fase congiunturale entro la quale – a torto o a ragione – Gramsci credeva di intervenire. Da ciò deriva un problema non indifferente che è utile sottolineare ai fini del nostro ragionamento complessivo: non si può fare un uso normativo e regolativo della questione meridionale così come impostata da Gramsci senza tenere in considerazione lo sviluppo della questione nell’economia dei Quaderni del carcere. Pertanto, crediamo che buona parte delle critiche operaiste – basti pensare ai casi paradigmatici di Asor Rosa in Scrittori e popolo e di Negri in Operai senza alleati – discendano da questo misunderstanding profondo, oltre che dall’assenza di una lettura filologicamente orientata dei Quaderni del carcere.

Si tratta, naturalmente, di una storia fatta di progressivi slittamenti e cambi di rotta che non ci è possibile rendere nella sua ricchezza e interezza. Basti qui mettere a punto alcune acquisizioni nell’ottica del nostro ragionamento globale. In primo luogo, in seguito all’arresto, Gramsci è portato a far diventare la questione meridionale un capitolo di una ricerca più ampia (ma non per questo più general generica): quella dell’egemonia e della rivoluzione passiva. In secondo luogo, l’egemonia non viene più identificata con la politica delle alleanze, venendo resa più complessa su molteplici livelli.

A partire dal 1929 (ma una traccia di ciò è già presente nell’articolo del 1926 precedentemente chiamato in causa), le analisi di Gramsci pongono il focus sulla funzione degli intellettuali e sul loro mancato ruolo di catalizzatori delle istanze di autonomia politica da parte dei subalterni. Per Gramsci, infatti, uno degli aspetti che contraddistingue in termini di rivoluzione passiva la mancata connessione delle lotte tra Meridione e Settentrione è riscontrabile nell’esercizio di immunizzazione che gli intellettuali – e specialmente quelli liberali – avrebbero compiuto nei confronti delle masse subalterne. Gli intellettuali, lungi dal ricoprire una funzione esclusivamente progressiva possono, per Gramsci, svolgere al contempo una funzione regressiva, cioè di rivoluzione passiva, cioè di mancato supporto allo sviluppo dell’elevazione morale, culturale e politica che dovrebbe condurre all’autonomia integrale i subalterni.

Per l’autore dei Quaderni del carcere, la questione meridionale non è più affrontabile tenendo in considerazione il semplice fattore economico e il mancato progresso tecnologico-industriale, al contrario di come buona parte delle istituzioni del movimento operaio del tempo pensavano. Va invece interpretata attraverso il filtro della soggettivazione delle masse subalterne (o meglio, della mancata soggettivazione) e dunque, attraverso un profilo pedagogico-composizionista, volto a cogliere sia i momenti che dovrebbero condurre alla composizione politica della classe che a interpretarla tecnicamente.

Di certo, la terminologia afferente alla sfera della soggettivazione non è immediatamente riconducibile a quella dell’elaborazione carceraria di Gramsci. Eppure, ci sembra che qui ci sia in questione esattamente ciò: la possibilità di sviluppo rivoluzionario delle istanze di autonomia politica e di antagonismo delle masse, contro il rischio di una loro possibile passivizzazione da parte degli apparati coercitivi dello Stato.

Gli intellettuali, dunque, dovrebbero riuscire sia a educare le masse attraverso un processo di elevazione morale, culturale e politica che proceda, in maniera asimmetrica, dall’alto verso il basso che, al medesimo tempo, direzionare bottom-up le tendenze autonome della massa subalterna, rendendole coerenti tra loro e produttive dal punto di vista politico. Il lavoro degli intellettuali non dovrebbe essere, per Gramsci, quello di andare al popolo con teorie già date, ma dovrebbe essere quello di muovere dalla praxis autonoma delle masse subalterne per giungere a una loro coerentizzazione. In questo modo, gli educatori (gli intellettuali) e gli educati (i subalterni) si produrrebbero e riprodurrebbero reciprocamente senza che questo rapporto rimanga fisso e immutabile.

Come si diceva, gli intellettuali però non hanno una funzione unicamente progressiva. Questi possono per diverse ragioni (economiche, sociali, politiche, etc.) far diventare il corpo dei subalterni acefalo. Parte di questo processo è, d’altronde, dovuto a ragioni razziali che conducono, chi dovrebbe svolgere funzioni intellettuali (cioè funzioni connettive, diffusive e organizzative), a svolgere, invece, una funzione regressiva rispetto alle compagini subalterne. È in tal direzione che crediamo si possa parlare di una sorta di reciproca diffidenza a sfondo razziale tra operai settentrionali e contadini meridionali, tale da rendere una comunicazione e una connessione delle lotte impossibile. Questione, tra l’altro, ulteriormente complicata in quel tempo dalle simpatie verso le teorie di Lombroso e dal mancato riconoscimento politico delle istanze di autonomia da parte degli istituti tradizionali del movimento operaio che rendevano ulteriormente irraggiungibile questo processo di traduzione.

Non è solo un mancato ruolo di progresso culturale, morale e politico a fare degli intellettuali una cinghia di trasmissione del potere statuale. Essi sono inglobati dalla macchina statale, già a partire dal periodo fascista, attraverso un processo di terziarizzazione della produzione. Si deve anche a ciò la mancata industrializzazione del Meridione: ossia alla sua funzione tanto di mercato di vendita semi-coloniale quanto di grembo dell’esercito industriale di riserva per le industrie settentrionali.

Ogni episodio di autonomia politica da parte delle masse subalterne viene o depotenziato dagli intellettuali che sguarniscono le fila dell’esercito dei subalterni o represso attraverso processi di subalternizzazione (subalternizzazione che però ha sempre una sua dialetticità) coatta e violenta. Fenomeni come questi servono dunque a sedare ogni carattere eversivo e rivoluzionario almeno in nuce delle masse meridionali. Ed è qui, in questa analisi che osserva la questione meridionale attraverso il rapporto tra intellettuali e masse, che Gramsci giunge introdurre il tema decisivo della pianificazione e della programmazione economica.

La crescente richiesta di autonomia politica da parte dei subalterni, sancita dall’ingresso delle masse nella politica, porta lo Stato a fornire una risposta che non è semplicemente quella della repressione violenta ma quella della subalternizzazione docile. È in questo senso che va intesa la spinta propulsiva dell’economia programmatica nelle pagine dei Quaderni. Non come semplice necessità razionale del capitalismo di dotarsi di metodi e modi via via sempre più efficaci di produzione e sfruttamento del lavoro vivo. Ma come risposta capitalistica alla minaccia del rovesciamento del rapporto egemonico-subalterno attraverso, ad esempio, la capacità di distribuire i frutti del capitalismo attraverso la distribuzione e per mezzo di una politica dell’aumento dei salari. La questione meridionale dunque si comprende, a partire dall’elaborazione carceraria, solo se considerata attraverso il punto di vista dei subalterni.

Questi ultimi non sono al di fuori della storia, ma ne rappresentano il presupposto dialettico fondamentale. Non c’è egemonia senza subalternità. Non c’è sviluppo senza sottosviluppo. Tra questi termini vi è traduzione reciproca, passaggio e sconfinamento. Più in particolare, affinché si dia sviluppo capitalistico ed egemonia di una classe sulle altre, vi è necessità di creare aree sottosviluppate – persino interne, superando dunque il concetto classico di «colonia» che prevederebbe un luogo altro dislocato nello spazio – dove fare circolare molecolarmente delle masse improduttive politicamente ma funzionali alle logiche della produzione capitalistica.

Crediamo che in questa rete concettuale si dia buona parte del contributo gramsciano circa la questione meridionale e che questo sia l’humus a partire dal quale sia possibile comprendere uno spaccato preciso della storia politica d’Italia: quello che va dal dopoguerra e che giunge sino agli anni Settanta.

Lo Stato-piano e la costruzione del sottosviluppo

Occorre ora fare un balzo in avanti e pensare agli effetti, in termini di produzione di regime di verità, che questo dibattito ha prodotto su una generazione di militanti successivi all’autore dei Quaderni.

Guiducci e Panzieri furono senz’altro coloro che per primi impostarono in termini più rigorosi il nesso tra pianificazione e autonomia, quantomeno in Italia. Se per il primo l’economia programmatica risultava essere realmente possibile – e dunque auspicabile – solo in una società socialista, per Panzieri, al contrario, la pianificazione era strutturalmente determinata dal capitalismo e, dunque, impraticabile dal punto di vista socialista. È a partire da questo dibattito (chiaramente molto più complesso, di come qui appena abbozzato) che sul finire degli anni Sessanta, il collettivo di Scienze Politiche dell’Università di Padova iniziò a riflettere sul passaggio dallo Stato-piano allo Stato-crisi.

In particolare, è con la pubblicazione di Stato e sottosviluppo di Ferrari Bravo e Serafini che la questione meridionale inizia ad assumere un rinnovato ruolo all’interno della riflessione operaista. Questa era infatti stata precedentemente interpretata nell’ottica della politica delle alleanze, e dunque scartata in quanto portatrice di un quadro interpretativo inadeguato rispetto alla nuova fase del capitalismo italiano, cioè a quella post-keynesiana. Quest’ultima viene ripresa da Ferrari Bravo e Serafini in quanto terreno laboratoriale e sperimentale delle politiche capitalistiche.

Come gli autori del libro non tardano a riconoscere, è senz’altro merito di Gramsci quello di aver posto, da un point of view comunista, la questione meridionale. Si tratta però di mettere alla prova del loro presente la riflessione meridionalista. Ed è in questo senso che, nel corso del testo, viene affrontato il problema dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Stato e sottosviluppo è un testo fortemente caratterizzato dalla analisi della congiuntura storica, ma non per questo inadeguato per estrapolare alcune indicazioni metodologiche attraverso cui tentare di leggere fenomeni contemporanei come quello, ad esempio, del Pnrr.

Come si diceva in apertura, l’Italia fuoriuscita dalla Seconda guerra mondiale si trova in condizioni di grave indigenza, specialmente nel Meridione. È a tal proposito che attraverso la riforma agraria (comunemente nota come Legge Sila) e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950 si cercò di applicare delle politiche di economia programmatica per tentare di sanare la frattura italiana.

Ferrari Bravo e Serafini hanno avuto il merito storico di avere rotto con questa impostazione del mainstream. Per gli autori di Stato e sottosviluppo, con la Cassa per il Mezzogiorno non si tratta, infatti, di industrializzare il Sud e agganciarlo al binario teleologicamente orientato verso il futuro della storia, ma di frenarlo e impantanarlo sul regresso politico. Detto in altri termini, la funzione del Meridione diventa quella di essere semplicemente il generatore dell’esercito industriale di riserva delle fabbriche settentrionali: ossia, il negativo dello sviluppo. È in tal senso, che buona parte dello sforzo pianificatore e programmatore da parte dello Stato è propenso a un arresto di ogni carattere eversivo e rivoluzionario delle masse subalterne. Queste ultime, infatti, furono protagoniste, all’indomani del secondo conflitto mondiale, di occupazioni delle terre, pratiche di collettivizzazione dei terreni e insorgenze autonome e pertanto bisognose, dal punto di vista della classe egemone, di essere arrestate.

Di certo, non mancarono degli episodi di repressione violenta, ma la risposta statale si fece più complessa attraverso l’integrazione di politiche di piano volte a impiegare gli intellettuali – che avrebbero dovuto sviluppare le istanze di autonomia politica – all’interno degli ingranaggi della macchina statale e a placare la crescita politica delle masse subalterne per mezzo di politiche assistenzialiste.

Posta sotto questo angolo visuale, per Ferrari Bravo e Serafini la questione meridionale diventa immediatamente – così come d’altronde era già stato fatto da Gramsci – soggettivata. Secondo gli autori del libro, con la questione meridionale non si tratta infatti di ragionare su questioni sociologiche-quantitative come il reddito medio pro capite, quanto piuttosto di cogliere gli elementi di sconfitta – momentanea e dunque costantemente reversibile – della massa contadino-rurale e dell’opzione comunista al Sud.

L’analisi congiunturale, minuziosamente attenta ai dispositivi legge, portata avanti dagli autori di Stato e sottosviluppo è, pertanto, uno strumentario adeguato a fornire un’ermeneutica di fenomeni contemporanei come quello della crisi economica del Covid-19. Ora che si è giunti nuovamente, in seguito al ritorno dello Stato come organo gestionale e organizzativo del mercato, a un tentativo di economia programmatica attraverso l’elargizione di bonus e incentivi volti a contenere i caratteri eversivi sorti dalla crisi, ci pare che la questione del sottosviluppo ricopra nuovamente una funzione chiave per leggere il fenomeno capitalistico. Le cattedrali nel deserto costruite nel Meridione durante la storia della Cassa per il Mezzogiorno rappresentano, a nostro avviso, l’antecedente politico di questa storia.

Quando oggi si ripresenta la questione meridionale, nei termini della questione razziale, cioè come astio e diffidenza verso un Sud straccione, sostenuto da politiche assistenzialiste come quella del Reddito di Cittadinanza, non si sta ripetendo nulla di particolarmente diverso (poste le dovute differenze dettate e determinate dalla congiuntura storica, economica, politica e sociale) da quel fenomeno descritto già da Antonio Gramsci e dagli autori di Stato e sottosviluppo.

Ripartire da Sud. Non per affermare una sua indipendenza rispetto alla storia d’Italia, ma per comprendere il ritmo dello sviluppo capitalistico. Ripartire da Sud, dunque, in quanto laboratorio tecnico e politico, a partire dal quale comprendere e trasformare l’intero esistente. Questo il lascito della migliore progenie italiana di Marx: il gramscismo e l’operaismo.

 Federico Di Blasio
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