DEMOCRAZIA O BARBARIE: PERCHE’ UNA PROSPETTIVA DI DEMOCRAZIA RADICALE È INDISPENSABILE (3/3).

apr 30th, 2024 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

 

DEMOCRAZIA O BARBARIE: PERCHE’ UNA PROSPETTIVA DI DEMOCRAZIA RADICALE È INDISPENSABILE (3/3).

Pubblicato il 30 aprile 2024 da pierluigi fagan

Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò;

ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione degli intellettuali.

A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 12 (XXIX) § (1)

Noi esseri umani viviamo su un pianeta. Negli ultimi settanta anni, ci siamo triplicati e lo abbiamo fatto partendo già dalla ragguardevole cifra di 2,5 miliardi di persone. Un evento del genere non è mai avvenuto nella storia umana, per dimensione e velocità del fenomeno. Nel 2050 ci saremo quadruplicati e quindi il fenomeno sarà ancora più denso e veloce, un solo secolo per quadruplicarci.

Dentro la definizione collettiva di umanità, ci sono le civiltà. La nostra, la civiltà occidentale ed europea in particolare, è passata dal pesare circa un terzo dell’umanità di inizio XX secolo, ad un sesto. Ha cambiato in suoi pesi interni visto che gli europei si sono maggiormente contratti in favore dell’area anglosassone. È precipitosamente invecchiata. Oggi il quarto quarto dei duecento stati nei quali è ripartito il mondo in sistemi giuridico-politici statali, mostra indici di riproduzione men che dimezzati, sono tutti paesi sviluppati e ipersviluppati, c’è dentro tutta l’Europa, inclusa la parte orientale che mostra tali indici per ragioni diverse dall’ipersviluppo sebbene di pari intensità negativa.

La nostra metafisica influente si è molto concentrata sull’essere e gli enti, ma ogni ente è ontologicamente fatto e dedito a relazioni o -a due vie- interrelazioni. Ci è tornato utile semplificare e bloccare l’essere e gli enti come in uno scatto fotografico. Se avessimo considerato, come avremmo dovuto fare, l’essere in sé e l’essere in relazione, la questione si sarebbe di molto complicata. Oggi, realisticamente, non possiamo più fare a meno di non considerarlo.

Il nostro immaginario è talmente colonizzato dal sistema di pensiero liberale che usiamo “atomo” o “atomizzati” come sinonimo di monade, di entità irrelata ed isolata. Ma gli atomi sono invero gli oggetti più sociali che esistano, tutti gli atomi tranne un piccolo gruppo di gas detti “nobili”, tende irresistibilmente ad unirsi con altri per fare molecole secondo mirabili “affinità elettive”. Come enti ontologicamente dediti all’interrelazione siamo diventati metafora dell’isolamento dice della potenza della manipolazione dell’immaginario. E’ evidente che proviamo imbarazzo per il concetto di relazione.

Così, dobbiamo notare che la grande inflazione varietale di individui e stati (triplicati anche esse in settanta anni), si è accompagnata ad una enorme arborizzazione del groviglio delle interrelazioni umane: individuali e sociali, intellettuali, interstatali, economiche, finanziarie, valutarie, ecologiche, tecnologiche, dei trasporti, culturali. Tante varietà, tante interrelazioni, in poco tempo storico, un inedito clamoroso, “epocale”.

Varietà in interrelazioni è la definizione di sistema alla base della cultura della complessità. Nella realtà sono e siamo tutti sistemi. Quark fanno protoni e neutroni che con elettroni fanno atomi che fanno molecole. Nel mondo fisico sono tutte molecole, organiche ed inorganiche. Le inorganiche fanno pianeti, asteroidi, stelle e sistemi orbitanti intorno a queste, orbitanti in galassie, orbitanti in ammassi di galassie. Le organiche fanno natura, vegetale, animale, umana.

Ma anche l’universo immateriale è fatto tutto di sistemi. Grafemi, fonemi, alfabeti o repertori di segni sono le varietà con cui componiamo discorsi, scritti, idee, concetti, immagini di mondo, lingue, narrazioni, credenze, ideologie.

Il sistema è proprio di una ontologia complessa. La complessità è data in vario grado dal tipo di composizione e comportamento di un sistema. Ogni sistema può essere -in genere- scomposto in sottosistemi ed ogni sistema è -in genere- dedito ad interrelazione con altri sistemi. Tutto ciò che è la grana dell’Essere si trova in un contesto. Il contesto ha dei bordi, i limiti, entro questi limiti si svolge la danza dell’essere complesso. Il contesto è influito ed influisce sulla danza e su ogni sistema. Quando osserviamo tutto ciò, noi tagliamo il tempo in un preciso modo per quanto arbitrario. È importante, per uno sguardo complesso, avere coscienza del tratto di tempo che si sceglie per l’inquadratura, Se ci piace o ci è utile inquadrarlo come evento o durata o lunga durata o quanto lunga.

Siamo così impercettibilmente passati dalla definizione di una ontologia sistemica ad una gnoseologia complessa. La complessità è quindi cifra della realtà e dovrebbe corrispondere a pari cifra dei nostri apparati cognitivi. Quanto detto degli ultimi settanta anni, dice della inflazione di complessità del mondo, ma proprio la sua brevità e l’inerzia che connota i sistemi culturali, dice anche dello spaventoso ritardo di allineamento tra “rei et intellectus” noterebbe Tommaso d’Aquino. Il nostro intelletto ha ancora le forme del moderno, soprattutto quello del XIX secolo o della sua sfilacciata fine che abbiamo definito post-moderna, ma consiglio di non esagerare l’attenzione e questa coda recente che nei libri di storia meriterà forse una nota a piè di pagina.

Tra mondo naturale ed umano e mondo umano mentale c’è il mondo sociale. Stati, sovrastati, modi economici, società, habitus, culture, ogni altro aspetto componente i nostri giochi di convivenza, che sono ancora quelli moderni e sono riflessi nell’immagine di mondo ovvero la nostra onto-gnosoelogia che abbiamo detto ancora attardata a tempi terminati o terminanti.

Ciò configura il primo e più importante rischio esistenziale per qualità e consistenza stessa della nostra vita: il disadattamento. Il centro del nostro problema oggi non è la sesta estinzione di massa, è il disadattamento ad un mondo cambiato e che continua a cambiare profondamente e velocemente. Due sistemi si dicono reciprocamente adatti quando convivono in una qualche forma ordinata dinamica di compossibilità lungo il tempo, sono disadatti quando questo condizioni di compossibilità sono minime o nulle. Qui, allora, l’ordine va a disordine e da disordine a caos. C’è un preciso limite nella scala del caos, entro il quale si può esistere oltre il quale non si può esistere.

Noi umani, individualmente e socialmente siamo enti intenzionali, la natura non lo è. A noi, quindi, attiene l’espressione “ti devi adattare”. La natura ha altra logica, è sempre adattata anche se produce catastrofi a noi le catastrofi piacciono meno visto l’imperativo ontologico che recita: vivi il più a lungo e la meglio possibile. Ma attenzione, come nel mito greco del Letto di Procuste, adatto si dice in due modi. Noi dobbiamo adattarci alla realtà ma abbiamo anche facoltà di manipolare la realtà per rendercela più adatta. Il primo modo è passivo, il secondo attivo, in tre milioni di anni di ominazione abbiamo fatto tanto dell’uno che dell’altro. Ancora oggi siamo convinti di non dover cambiare se riusciamo con le tecnologie e manipolare il contesto turbolento che ci chiederebbe un cambiamento profondo di alcuni nostri modi di stare al mondo. La nostra intenzionalità tecnologica tende ad avere funzione omeostatica, ma non è detto che ciò sia sempre possibile, dipende dall’entità della discontinuità storica di ciò che è successo nel contesto.

Ecco allora che tornando al nostro rischio di disadattamento per via della corposa, improvvisa e rapida inflazione di complessità reale e il ritardo delle forme cognitive e sociali attardate alla tradizione ancora solo moderna, “dovremo adattarci” significa sia capire bene cos’è la realtà oggi e nell’immediato domani a cui dovremo adattarci, sia capire bene cosa dovremmo fare agendo su immagine di mondo e forme sociali per renderle adatte al nuovo contesto. Ciò presuppone il cambiamento, ma un cambiamento intenzionale, una rarità o unicità anche questa dello sviluppo storico della specie. Di solito cambiamenti e storia li abbiamo subiti e solo dopo, compresi.

Ogni società è una polis e l’attività con la quale la organizziamo e viviamo è la politica. La possiamo così intendere il nostro “veicolo adattivo”. Ci rifugiamo nel sistema sociale-politico-giuridico come faremo in un sottomarino per scendere alle profondità oceaniche, ambiente per il quale non siamo naturalmente adatti. Ci domandiamo allora quale sia la forma politica migliore per adattarci alla nuova era complessa, quale favorisce di più il cambiamento adattivo necessario, quale protegge di più, quale mostra facoltà di migliore intermediazione tra i nostri bisogni di ordine e l’esigenza di avere a che fare con fenomeni e contesti altamente disordinati dall’inflazione di complessità.

Riteniamo, sulla scorta delle esperienze e casi pratici studiati multi-inter-trans-disciplinariamente dentro la cultura della complessità (una onto-gnoseologia dedicata a studiare questo tipo di fenomeni) che i sistemi migliori o forse gli unici utili siano i sistemi adattativi. I sistemi adattativi sono in equilibrio dinamico tra l’essere ed il divenire, sono flessibili, resilienti, autopoietici, autorganizzati. Secondo la disciplina economica moderna, il “mercato” è uno di questi sistemi. Il corrispettivo politico della logica del sistema-mercato è la democrazia. Stante la differenza fondamentale per la quale mentre il mercato è fatto di cose ed atti inintezionali, un sistema politico e sociale umano è pieno di intenzionalità individuale e collettiva. Né il sistema dell’Uno, né quello dei Pochi, mostrano facoltà adattative per tutto il sistema, le mostrano solo per la propria parte. L’unico sistema politico che almeno in potenza le mostra è il sistema democratico, il sistema dei Molti. L’unico sistema che promette di promuovere l’interesse generale di sistema e non quello particolare di parti del sistema.

Ma qui qui, abbiamo capito che con “democrazia reale” s’intende qualcosa di ben diverso da ciò a cui di solito riserviamo l’uso del concetto. Ecco perché abbiamo sviluppato l’analisi pregressa, per cercare di capire che tipo di sistema ci servirebbe per darci le migliori chance di adattamento alla grande inflazione di complessità.

Tale sistema, in primis, prevede che l’ordinatore sociale (ciò che ordina e dà gli ordini) sia politico e non economico com’è oggi nella natura capitalistico-neoliberale delle nostre società. La nostra società è ordinata a mercato non dalla democrazia, dall’economico non dal politico. Ciò si configura come massimo pericolo, sia perché l’ordine economico in genere, capitalistico e neoliberale occidentale nello specifico peggiorativo, subirà gravi disordini figli di pronunciato disadattamento (si pensi il problema dei limiti ambientali e di risorse, alle diseguaglianze, ai feedback di conflitto geopolitico, il “fine ciclo” storico del sistema moderno), sia perché natura della polis è la politica ed esser natura significa esser adattati in via genetica e genealogica cioè storica.

Dentro un ordinatore politico, abbiamo detto mostra facoltà maggiormente adattive nel governo dei Molti anziché dell’Uno o dei Pochi, ma abbiamo anche detto che tale governo per esser pienamente democratico dovrà non avere intermediari tra la società umana e le scelte adattive, i cambiamenti da apportare. Questo perché è tutto il sistema che deve sapere con cosa ha davvero a che fare, realisticamente, ed è tutto il sistema che deve intenzionalmente decidere il suo interesse generale ovvero le forme che deve darsi per esser davvero adattativo. Tutto il sistema, la società e gli individui componenti, deve essere a contatto diretto col problema dell’ordine e del disordine, della relazione col contesto, con i feedback, con i prezzi delle decisioni per potersi dire pienamente adattativo. Deve cioè darsi consapevolezza per animare la sua intenzionalità.

L’elenco dei problemi cui andiamo incontro non si fa fatica a dire spaventoso: fine del ciclo storico occidentaledivergenza obiettiva delle traiettorie tra Stati Uniti d’Ameria e stati disuniti europeiripensamento obbligato della stessa consistenza dello Stato-nazione di taglia europeo che proviene del XV-XVI secolo, da cui il necessario ripensamento dello stesso concetto di sovranità, dello Stato, del ruolo delle burocrazie e funzionari di sistema. Dalla trentina di conflitti permanenti su cui si articolerà la transizione Cina-USA al sempre possibile anche se forse non probabile rischio atomico. La stessa evoluzione del fatto militare sia in tecnica e progetto che in acquisizione, anche solo “difensiva”. Un fine ciclo storico che significa anche fine ciclo del sistema capitalistico occidentale, da decenni su rotta “guadagnare tempo” che altro non è stata in grado di fare che distruggere la stratificata varietà sociale tornando alla più semplificata e odiosa delle partizioni Pochi vs Molti. Il senso proprio dell’accoppiata salario-lavoro come gioco principale sociale ed esistenziale, visto che il lavoro umano andrà sempre più a contrarsi per sostituzione macchina o elettronica digitale. Nonché per obbligate cautele ambientali e climatiche o improvvisi divieti di flusso di scambi per ragioni geopolitiche oltreché fine del soddisfacimento dei bisogni individuali mentre si continuano ad ignorare quelli sociali. L’immenso ed inquietante campo dello sviluppo tecnologico in cui andranno fatte ed imposte scelte per contenerne l’impeto potenzialmente distopico. Coì per l’intero, estremamente complesso campo ecologico-ambientale-climatico in sé. Migrazioni disordinanti figlie anche di demografie differenti e differenti geografie. Convivenza di civiltà spinte in modalità condominio dopo l’esser a lungo state stese in spazi molto più ampi e meno obbligatoriamente connessi. Visioni, piani e aspettative sul futuro diverse, perché diversa è la provenienza di ciclo storico. Cosa sanno le nostre popolazioni soggette a questa Grande Transizione di tutto ciò? Come faranno a delegare qualcuno a gestirle sempre esista quel qualcuno quando élite, funzionari, popolo sono ormai tutti su uno standard medio sotto-determinato rispetto alla fase storica? Come altrimenti pensare di modificare il mondo, la forma sociale, le nostre culture per favorirci un adattamento? E che senso avrebbe anche solo adattarsi passivamente a tutto questo che non è un nuovo ordine, ma il caos totale?

Per questo quando diciamo qui democratico, intendiamo democratico radicale ovvero basato su estrazione dei principi della forma antica che diede il concetto di democrazia alla radice. La finta alternativa della democrazia intermediata non è democrazia, ma regime oligarchico sebben temperato. Non è per purismo definitorio che rifiutiamo la versione temperata o per piglio ideale ma per ragioni strettamente funzionali, o il sistema è capace di libera autopoiesi ed autorganizzazione o non sarà pienamente adattativo. In questa fase storica, si consiglia ritornare a pesanti dosi di realismo.

A dire che solo l’esposizione realistica e diretta delle persone alle problematiche di compatibilità tra mondo complesso e forme sociali, darà loro piena facoltà di trovare le soluzioni adattive. Ciò stante la promozione dei principi estratti nelle pregresse analisi. Questa consapevolezza realista, ancorché potenziata da nuovi principi di formazione, informazione, distribuzione e dibattito, previa liberazione di tempo da lavoro travasato in tempo di vita e di cui parte andrà riservata all’attività politica civile, è il cuore della facoltà autopoietica ed autorganizzativa di una reale democrazia. Far fare questo lavoro ad un tiranno per il nostro bene o alle varie oligarchie è condannarsi a vari tipi di esiti barbarici, irrigidimenti, follie egoiste, guerre, sciame di conflitti, acuirsi delle diseguaglianze fino al non improbabile ritorno di forme di guerra civile dentro catastrofi ambientali o climatiche. Proprio quella “stasi” che portò gli ateniesi a reinventare la democrazia come regolazione dinamica del disordine con tendenze caotiche.

Gli Ateniesi non “inventarono” la democrazia, la democrazia aveva lontanissime origini pre-civili ed anche lungo l’emersione mesopotamica della civiltà, probabilmente nelle città-Stato. Sbaglia chi la ritiene una invenzione tarda, un frutto ideale ed utopico del pensiero speranzoso. Forme di democrazia sono l’esito naturale dell’associazione umana nei piccoli gruppi, tanto quanto oligarchia o le élite lo sono dei grandi. Da cui il punto cardinale di ogni teoria politica tra piccoli e grandi gruppi in contesti a loro volta diversi già nota dal XVIII secolo (dal ginevrino Rousseau in poi). Gli Ateniesi furono semmai gli “ultimi democratici”, coloro che provarono ad estendere il formato fino alle massime dimensioni già ragguardevoli di più di 100.00o persone, tagliando diritti (donne), escludendo identità (non ateniesi di generazione), poggiandosi sul lavoro terzo (schiavile), dando al sistema una prospezione coloniale ed indubbiamente commettendo anche un discreta sfilza di errori.

Per questo abbiamo inquadrato il problema come una scelta senza terze vie tra democrazia e barbarie, stante un significato radicale, alla radice, della stessa democrazia. Stante che la soluzione al problema delle dimensioni non può essere quella di B. Constant di mettere uno strato oligarchico tra massa e realtà.

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Si propone quindi una convergenza politica delle tante anime del disagio anti-capitalista e anti-oligarchico. Prima di promuovere la propria visione del mondo (socialista, riformista, comunista, femminista, ecologista, tecnicista, decrescista etc.), abbiamo bisogno di un gioco comune in cui disputarcele con finalità attuative e non solo ideali. È appena ricorso l’anniversario della morte di Antonio Gramsci. Gramsci per primo e fino ad oggi unico, capi che c’è un’altra via, un altro campo del politico, la battaglia culturale. Agire su ciò che la gente pensa è forse via anche più breve e fattiva di agire su ciò che la gente fa, poiché l’uomo fa spesso ciò che prima pensa. Quel Gramsci ordinovista già a suo tempo accusato di “culturalismo”, come se le società umane non fossero in primis niente di meno e niente di più che propriamente “culture”. Un millennio e mezzo di chiesa cristiana mostra un potere di dar forma alla società ed alla mentalità ben maggiore di quanto ha espresso spesso l’agone propriamente politico per non parlare di quello economico. Siamo culture fatte da animali che fanno “faber” e pensano “sapiens” prima di fare, se fare, cosa fare, perché fare.

Nel prossimo intervento, il quarto, che esula da questo trittico teorico, inviteremo chi vuole e può a pensare come si possa costituire non l’ennesimo partito o movimento, ma una forma di intellettuale collettivo che la di là delle nostre differenze ideali e ideologiche, trovi un possibile terreno comune nel promuovere gradi progressivi di democrazia reale, invece che sprofondare nella barbarie. Guardando un filmato della Fondazione Gramsci sulla biblioteca del sardo, c’era la costa di quel “Il tradimento dei chierici” di Julian Benda che denunciava come proprio ai tempi della IWW, gli intellettuali che sono la versione laica dei chierici, lasciarono il presidio della propria funzione culturale trasformandosi in volgari politici. Pensiamoci, traiamo insegnamenti dalla storia, cerchiamo di essere all’altezza del nostro uso pubblico e privato dell’intelligenza. Non abbiamo più una classe sociale di riferimento, non abbiamo più il moderno Principe del partito, va bene, ma siamo sicuri di non poter comunque mettere in campo un soggetto “intellettuale collettivo” col quale promuovere una nuova egemonia di democrazia reale? Come fare? Cosa fare? Da dove iniziare se non discutendone assieme?

Possiamo cercare noi intelletti di cimentarci nella risposta al fatidico “che fare?”, chi altro sennò? Prima di cambiare il mondo, possiamo condividere una idea comune del come farlo, con quale processo prima ancora che con quale finalità? Chi vuol venire ad alimentare l’ennesima onda che si infrangerà contro lo scoglio? prima o poi lo scoglio si sgretolerà, è la sua natura perdere consistenza contro l’acqua testarda. Ma l’acqua testarda ha bisogno di massa ed impeto ondulatorio, ogni sua molecola deve venire a farsi onda.

Superando la trita dicotomia tra rivoluzione e riformismo socio-liberale, invitiamo a puntare sia l’idea che il suo perseguimento pratico verso una forma di democrazia radicale che possa dare casa comune a tutte le molecole di acqua testarda. Che possa darci un veicolo adattivo alla nuova Era complessa. Altrimenti, alle nostre società oggi “come navi in tempesta”, rimarrà come orizzonte, per l’ennesima volta, solo lo scoglio.

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