Tempo di transizione

mag 21st, 2025 | Di | Categoria: Idee e proposte

 

Tempo di transizione

Pubblichiamo la relazione introduttiva svolta dal nostro redattore Danilo Ruggieri, al convegno promosso da L’Interferenza svoltosi a Roma sabato 17 Maggio dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro”. In considerazione del’alto livello del dibattito abbiamo deciso di pubblicare gli atti del convegno con gli interventi di tutti i relatori. Sarà ovviamente nostra cura avvertire i nostri lettori quando il lavoro sarà pronto. Inoltre nei prossimi giorni pubblicheremo sul canale youtube del nostro giornale i video con tutti gli interventi.

Come spesso avviene ai contemporanei, comprendere il proprio tempo è sempre un esercizio approssimativo e intrinsecamente politico quindi non neutro, entrano in gioco i contesti di appartenenza, le tradizioni di pensiero, le evoluzioni e contraddizioni poste dalla viva e mutevole realtà concreta ed è sempre stato non solo un esercizio intellettuale ma un terreno di scontro di idee e di pratiche politiche. Affrontare il pianeta Cina è la questione delle questioni, è un tema cruciale che sposta e definisce gran parte degli equilibri mondiali e che molto probabilmente segnerà la storia di questo secolo. I sommovimenti tellurici che scuotono il mondo e in particolare il villaggio occidentale sono il contesto a cui bisogna dedicare qualche breve riflessione prima di introdurre l’Oriente cinese.

La crisi del modello anglosassone a guida americana non è certo una novità, dopo l’ubriacatura post ’89-91, e le narrazioni sulla fine della storia, il capitalismo liberista atlantico ha pensato attraverso la finanziarizzazione estrema dell’economia occidentale di poter imporre l’egemonia del proprio impero sul resto del mondo attraverso l’arma del dollaro e le guerre. Brezinski in un libro rimasto relativamente famoso “La grande scacchiera” pubblicato nel ’97, prevedeva il XXI secolo come un secolo americano, in cui la Federazione russa in piena crisi economica e di identità, saccheggiata dai boiardi di stato eltsiniani al soldo delle oligarchie anglosassoni, sarebbe stata frantumata in un insieme di macroaree attraverso l’Ucraina porta d’accesso verso l’Eurasia e che la Cina  sarebbe entrata nel mercato capitalistico internazionale dei capitali e delle merci, (cosa che di fatto avviene nel 2001 con l’entrata nel WTO) e di conseguenza questa apertura avrebbe portato alla fine dell’egemonia comunista sulla società perché il partito comunista cinese non avrebbe potuto gestire con la sua forma mentis statalista e totalitaria le dinamiche “liberatrici” del mercato.

L’esito cinese sarebbe stato quello nella migliore delle ipotesi di una media potenza regionale dipendente dai flussi di capitali e di tecnologia americana, diventando un gigantesco e proficuo hub di produzioni a basso valore aggiunto. Quando si diventa prigionieri del proprio suprematismo e si crede di poter dominare con il soft power e o in alternativa con le proprie forze militari, si rischia di perdere di vista anche la complessità e la varietà degli scenari che la realtà produce. Chiaramente questo è stato un processo lungo e contradditorio, gli anni novanta del secolo scorso sono stati certamente contraddistinti dal dominio assoluto della potenza americana, e l’importazione dei suoi modelli politici e ideologici nel continente europeo e nell’insieme della comunità occidentale identificatasi presuntuosamente con la comunità internazionale delle nazioni e dei popoli del mondo. Poi è arrivata la grande crisi finanziaria americana partita dai mutui subprime del 2007-2008 che si è estesa ai debiti sovrani europei e il mondo liberista occidentale si è scoperto molto più fragile e dipendente dal resto del mondo. Nel frattempo il dragone cinese seguiva e applicava la strategia dei 24 caratteri ispirata da Deng Xiaoping: “Osserva con calma; consolida in silenzio le tue posizioni; nascondi le tue capacità; non avere fretta, ma lascia che il tempo lavori a tuo favore; mantieni sempre un basso profilo; non pretendere mai la leadership; fornisci qualche contributo alla creazione del bene pubblico internazionale della sicurezza economica e militare, per dimostrare le tue pacifiche intenzioni.”

La Cina accumulava risorse, conoscenze ed energie, entrava nel mercato mondiale e assumeva sempre più la funzione di fabbrica del mondo, in particolare per gli Usa che a oriente esternalizzavano le loro imprese, di fatto deindustrializzando gran parte del tessuto sociale.

Il percorso europeo è in parte diverso perché la Germania ha mantenuto un grande polmone manifatturiero, esternalizzando una parte della sua produzione soprattutto nell’est Europa.

I processi storici avanzano lentamente ma subiscono degli scossoni, delle accelerazioni, dei punti di rottura, gli anni venti del nostro secolo portano a maturazione le contraddizioni che, se vogliamo andare alla loro origine, risalgono alla grande crisi generale della metà degli anni ’70. Arriviamo alla crisi pandemica e lo scoppio della guerra per procura dell’asse atlantico in Ucraina contro la Federazione Russa, avvenimenti che segnano la storia di questi anni e forse anche dei prossimi decenni.

La Tendenza alla guerra, tante volte analizzata negli anni passati come possibile scenario di confronto tra grandi potenze, si tramuta in una guerra non più in potenza ma in pieno dispiegamento su scala mondiale con varie puntate geopolitiche.

Il 24 febbraio 2022 è un tornante della storia, dopo la seconda guerra mondiale non siamo mai stati così vicini a uno scontro diretto mondiale con conseguenze potenzialmente catastrofiche. A suo modo è un tassello decisivo anche la Dichiarazione congiunta della Federazione Russa e della Repubblica popolare cinese sulle relazioni internazionali che entrano in una nuova era e sullo sviluppo sostenibile globale firmata a Pechino durante le Olimpiadi invernali il 4 febbraio 2022, esattamente venti giorni prima dell’inizio dell’intervento diretto russo. Bene, da quel momento siamo entrati in una nuova fase storica dello scontro tra la ristretta cerchia dei paesi imperialisti a direzione anglosassone e un mondo che si può definire sud globale che vede nei paesi Brics, una possibile alternativa economica e geopolitica ma che è fondamentalmente legato da un comune intento: mettere fine a una gestione egemonica delle relazioni internazionali basata sull’ordine secondo le regole imposte da Washington e alleati. Non intendono più sottomettersi alla logica imperiale dei doppi standard, degli “interventi umanitari”, delle missioni militari volte a instaurare regimi filo occidentali, a promuovere colpi di stato in altri paesi attraverso rivoluzioni colorate e all’utilizzo della leva del dollaro e delle sanzioni come strumento di sottomissione delle nazioni.

Siamo in un momento in cui stanno venendo al pettine alcune questioni che riguardano direttamente il campo occidentale. La vittoria del Trumpismo in Usa registra la crisi delle classi dirigenti in USA, la difficoltà di poter continuare a marciare solo attraverso la leva finanziaria e monetaria o con imprese militari. E’ in tal senso in corso una ristrutturazione nel campo americano che significa anche mettere in campo una ritirata ordinata. Ciò non significa che l’America torna a un isolazionismo, impossibile anche a volerlo, ma che deve rimettere in sesto la sua economia in larga parte emigrata e che il suo complesso apparato militare industriale così com’è oggi non può essere sostenuto se non da un recupero dei fondamentali dell’economia, a partire dalla produzione manifatturiera e da una politica commerciale solida. Ma la spaccatura nelle elitè americane non si rimargina così facilmente, è una lotta senza esclusione di colpi.

Una cosa tiene insieme le due bande che si combattono negli Usa: la priorità strategica della zona Indo-Pacifico, contenere la potenza economica e tecnologica espansiva della Cina, fare cordone sanitario, ridimensionarla. Possiamo considerare ormai il dragone cinese la prima potenza economica del mondo, sia dal punto di vista manifatturiero e commerciale, ma anche ormai, grazie anche all’alleanza con la Russia, potenza politica di primo ordine, perno fondamentale negli equilibri internazionali e diplomatici. In un‘epoca in cui i punti fermi sono l’eccezione e non la regola, in cui quello che vale un anno diventa vecchio l’anno dopo, pensiamo al tema crisi dell’Occidente collettivo, dobbiamo evitare facili conclusioni e schematismi di comodo, l’ibridismo prevale sullo schema delle linee di demarcazione nette.

In questo marasma da crisi generale, foriero di guerra mondiale aperta, la natura della relazione tra Cina e Occidente collettivo è la contraddizione oggettiva della nostra epoca, segna lo spirito del tempo. Ecco perché approfondire in questo convegno il tema, ma non basteranno decine di convegni, servirà anche un lavoro politico collettivo degno dei tempi per avvicinarsi alla realtà delle cose. Partiamo da due particolarità storiche che segnano la Cina. Nel giro di trenta anni questo paese ha raggiunto uno sviluppo economico, sociale, tecnico e scientifico che non ha eguali nella storia umana (ne conosco solo uno paragonabile come esperimento parzialmente riuscito e mi riferisco allo sforzo titanico avvenuto nell’URSS negli anni trenta), ciò non si riduce al fatto di essere diventata de facto la prima potenza manifatturiera al mondo, ma anche e soprattutto di avere prodotto un vistoso e ingente progresso della società cinese nel suo complesso. “Tra il 1978 e il 2015, mentre le ricche economie capitaliste al centro del sistema mondiale ristagnavano in termini economici, la Cina ha visto aumentare di trenta volte il suo prodotto interno lordo reale”, come ha notato Yi Wen, economista e vicepresidente del Federal Reserve Board di ST.Louis: “La Cina ha compresso in una sola generazione i circa 150-200 (o più) anni di cambiamenti economici rivoluzionari vissuti dall’Inghilterra in due secoli, dagli Stati Uniti  in un secolo e mezzo e del Giappone in un secolo”. Ma non solo, è stata ed è ancora il primo paese per produzione manifatturiera, ma a differenza di 15 anni fa, ormai la Cina ha scalato la catena del valore della produzione mondiale di merci e servizi, assumendo un ruolo centrale in tutte le produzioni ad alto valore aggiunto. Questa crescita economica ha spostato il suo asse da una prima fase durata diversi anni di applicazione di un modello estensivo basato sulla velocità e la quantità della produzione a un modello di crescita economica che punta alla qualità del processo produttivo, alla sua possibile sostenibilità ambientale, e all’efficienza della produzione e allo sviluppo di un mercato interno dei consumi. Nel complesso, l’economia ha mostrato una tendenza verso le industrie di fascia medio alta e il piano decennale Made in China 2025, ne è stato il binario privilegiato di crescita. Questo è avvenuto non senza problemi, ostacoli, contraddizioni e disparità sociali anche profonde, tra regioni interne e costiere della Cina e tra le città in grandissima espansione urbanistica e le campagne. Ma va anche detto che questo enorme processo di trasformazione ha portato fuori dalla povertà diverse centinaia di milioni di cinesi, prodotto un miglioramento generale e trasversale tra le classi popolari e l’esistenza di un ceto medio urbano consistente. Come è stato possibile tutto questo nel giro di venti anni? Non si può dare una risposta univoca e necessiterebbe questa domanda di studi approfonditi e di un largo contributo specialistico, non mancano comunque studi in questa direzione ma quasi sempre sono di fattura occidentale. Recentemente grazie al lavoro delle edizioni Marx XXI è stata tradotta un’importante opera “Dialettica dell’economia cinese” scritta da Cheng Enfu, uno dei più eminenti marxisti cinesi, che definisce in maniera sistematica e supportata da analisi e dati economici il carattere socialista come preminente, regolatore non solo dell’economia ma dell’insieme dell’assetto sociale cinese. La natura dell’economia socialista di mercato è basata su alcuni fattori tra loro in connessione sinergica: 1) un sistema di molteplici diritti di proprietà basato sulla centralità pubblica, un sistema di distribuzione basato principalmente sui redditi da lavoro, un sistema di mercato dove convivono diverse tipologie di proprietà (pubblico, privato, cooperativo, misto pubblico-privato) guidato e governato dallo Stato. Quest’ultimo punto è quello più significativo perché contiene in sé la novità e anche le difficoltà nel comprendere la specificità cinese del socialismo che i cinesi considerano come fase primaria del socialismo. Come opportunamente fa notare Vladimiro Giacchè nell’introduzione a questa opera, la teoria dello stadio primario del socialismo e il concetto di economia socialista di mercato rappresentano esempi di innovazione nella tradizione marxista. Questo è il nodo, che fa dire ai comunisti cinesi, che la propria economia non è assimilabile alle tradizionali economie capitaliste che sono trainate fondamentalmente dal capitale finanziario e speculativo che dominano l’economia in particolare dei paesi occidentali. Chiaramente non mancano le contraddizioni, segni di debolezza, e soprattutto c’è un punto che rende l’esperimento cinese una questione su cui continuare a dibattere, e potenzialmente un crinale scivoloso: partendo dall’assunto che la lotta di classe in un paese in cui cresce il ceto medio e in cui i meccanismi di sviluppo del capitale e della borghesia non sono in sottrazione ma in espansione, i rischi di tenuta della direzione politica, cioè il partito comunista cinese, di trattare e gestire, come regolatore di ultima istanza, le contraddizioni ideologiche e politiche inconciliabili non è uno scenario alla lunga improbabile. E’ vero che il contesto sovietico in cui è maturato il collasso del sistema socialista è profondamente diverso da quello cinese e oltretutto la classe dirigente cinese a partire da Deng XiaoPing ha fatto i conti con le motivazioni profonde di quella crisi di identità e la politica di riforme introdotte negli anni novanta ne è una risposta. Ecco perché oggi la Cina rappresenta un punto cruciale per noi marxisti, una questione aperta su cui la cosa principale da fare è studiare e seguire attentamente l’esperimento socialista, ben sapendo che nel modello cinese di socialismo non esiste alcuna presunzione di renderlo un processo generalizzabile, né imitabile su scala internazionale. Va anche detto però che la proiezione internazionale della Cina attraverso i BRICS e in particolare con il progetto Belt and Road Iniziative (BRI) lanciato nel 2013, la prima grande iniziativa promossa dalla nuova direzione del Presidente Xi JinPing, ha segnato anche la postura geopolitica di questo paese che ha vissuto in un lungo isolazionismo autosufficiente, ma che oggi con un insieme di paesi del sud Globale e con l’alleanza strategica con la Russia si profila il paese oggettivamente guida di un cambiamento radicale degli equilibri internazionali. Su questo punto però serve fare chiarezza: premesso che siamo convinti sostenitori e sponsor attivi come collettivo del Giornale L’Interferenza della linea innovativa, progressista e oggettivamente antimperialista del multipolarismo dei Brics e della congiunta guida russo-cinese, non crediamo probabile concepire questo mondo in transizione come un preludio a una versione del XXI secolo dei paesi socialisti di novecentesca memoria. Per due ragioni: la prima è che tranne la Cina su cui oggi discutiamo e analizziamo il processo inedito e contradditorio di socialismo con caratteristiche cinesi, il resto dei paesi, a partire dalla Federazione Russa, hanno una scarsa omogeneità ideologica, sono essenzialmente  tenuti insieme da una legittima volontà di deoccidentalizzazione delle relazioni internazionali, e quindi, a nostro avviso l’esperimento multipolare dei Brics non è paragonabile neanche alla Conferenza dei non allineati di Bandung del 1954.

La seconda motivazione, ma forse più profonda, è che il socialismo come processo nazionale e internazionale di emancipazione dallo sfruttamento del capitale non può essere un processo operato solo dall’alto statuale, ma un processo sinergico di forze che a partire dalle masse popolari generalmente intese sappiano concepire nella lotta un nuovo ordine. Purtroppo realisticamente siamo lontani da ciò. L’opera di un vincente multipolarismo può fungere da levatrice potenziale di una rinascita del movimento socialista anche in Occidente, è condizione necessaria e auspicabile ma non sufficiente. Dobbiamo faticosamente scrollarci ancora di dosso le macerie dell’89, soprattutto qui mi riferisco al marxismo occidentale, di cui parla nel suo ultimo libro Losurdo, con uno spirito antidogmatico e aperto a raccogliere lezioni dai paesi che oggi stanno portando a termine l’atto finale del processo di decolonizzazione. Concludo la mia breve introduzione sottolineando che la crisi del marxismo occidentale è data essenzialmente dalla scarsa comprensione ad analizzare la realtà  in una chiave interpretativa sistematica e organica, la negazione della totalità, in una chiave socialista  e anticapitalista; ciò di fatto conduce da troppo tempo a sostituire la praxis materialista con una chiave interpretativa del mondo moralistica, relativistica, politicamente corretta, che accentua di fatto il processo di totale subalternità ideologico e culturale alla visione del mondo imperiale e suprematista dell’Occidente e in particolare della sua potenza guida, gli Usa e dell’annesso “giardino” europeo.  Ma come ci ricorda anche Draghi gli anni della buona vita, semmai ci sono stati per le masse popolari, sono finiti e allora la vecchia talpa della prassi materialista deve riprendere a lavorare.

La rottura del marxismo occidentale con la rivoluzione anticoloniale è anche il rifiuto di farsi carico dei problemi in cui questa s’imbatte con la conquista del potere. Anche a tal proposito chiaro è il contrasto tra marxismo occidentale e orientale. Assuefatto al ruolo di opposizione e di critica e in varia misura influenzato dal messianismo, il primo guarda con sospetto o riprovazione al potere che il secondo è chiamato della vittoria della rivoluzione a gestire”

Domenico Losurdo “Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere” 2017

Tempo di transizione – l’interferenza

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