Elogio dell’Antiamericanissmo!

lug 29th, 2019 | Di | Categoria: Documenti storici

 

Domenico Losurdo

 

1. Mito e realtà dell’antiamericanismo di sinistra

L’ultima guerra contro l’Irak è stata accompagnata da un singolare fenomeno ideologico; si è cercato di mettere a tacere il movimento di protesta di un’ampiezza senza precedenti, che in tale occasione si è sviluppato, lanciando contro di esso l’accusa di antiamericanismo. E questo, più ancora che come un atteggiamento politico errato, è stato dipinto e viene tuttora dipinto, in previsione delle nuove guerre che si profilano all’orizzonte, come un morbo, come un sintomo di disadattamento rispetto alla modernità e di sordità alle ragioni della democrazia.

Tale morbo – si afferma – accomuna antiamericani di sinistra e di destra e caratterizza le pagine peggiori della storia europea; e dunque – si conclude – criticare Washington e la guerra preventiva non promette nulla di buono. Sarebbe facile replicare richiamando l’attenzione sull’antieuropeismo che sta montando dall’altra parte dell’Atlantico e che ha una lunga tradizione alle spalle. Dà soprattutto da pensare che in questo clima ideologico e politico, nessuno ricorda più il terrore scatenato dal Ku Klux Klan, in nome della difesa del «puro americanismo» ovvero dell’«americanismo al cento per cento», contro i neri e i bianchi colpevoli di mettere in discussione la white supremacy (in MacLean 1994, 4-5, 14).

Dileguata dalla memoria è anche la caccia maccartista alle streghe sospettate di nutrire idee o sentimenti un-american . Ma interroghiamoci sulla questione principale. Ha un qualche fondamento storico la tesi della convergenza, in chiave antidemocratica, dell’antiamericanismo di sinistra e di destra? In realtà, il giovane Karl Marx definisce gli Stati Uniti come il «paese dell’emancipazione politica compiuta», ovvero come «l’esempio più perfetto di Stato moderno», il quale assicura il dominio della borghesia senza escludere a priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici (cfr. Losurdo 1993, 21-2).

Già qui si può notare una certa indulgenza: più che essere assente, negli Stati Uniti la discriminazione censitaria assume una forma «razziale». Ancora più sbilanciato in senso filo-americano è l’atteggiamento di Engels. Dopo aver distinto tra «abolizione dello Stato» in senso comunista, in senso feudale, o in senso borghese, egli aggiunge: «Nei paesi borghesi l’abolizione dello Stato significa la riduzione del potere statale al livello del Nord-America. Qui i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l’emigrazione all’Ovest della sovrappopolazione proletaria. L’intervento del potere statale, ridotto ad un minimo ad Est, non esiste affatto ad Ovest» (Marx-Engels 1955, VII, 288).

Oltre che di abolizione dello Stato (sia pure in senso borghese), l’Ovest sembra essere sinonimo di ampliamento della sfera della libertà: non c’è cenno alla sorte riservata ai pellerossa, così come si tace della schiavitù dei neri. Analogo è l’orientamento dell’ Origine della famiglia , della proprietà privata e dello Stato : gli Stati Uniti vengono indicati come il paese in cui, almeno per certi periodi della sua storia e certe parti del suo territorio, l’apparato politico e militare separato dalla società tende a ridursi a zero (Marx-Engels 1955, XXI, 166). Siamo nel 1884: in questo momento, i neri non solo vengono privati dei diritti politici conquistati immediatamente dopo la guerra di Secessione, ma sono costretti ad un regime di apartheid e sottoposti ad una violenza che giunge sino alle forme più efferate di linciaggio.

Nel Sud degli USA, era forse debole lo Stato, ma era tanto più forte il Ku Klux Klan, espressione certo della società civile, la quale, però, può essere essa stessa il luogo dell’esercizio del potere, e di un potere anche brutale. Proprio l’anno prima della pubblicazione del libro di Engels, la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale una legge federale che pretendeva di vietare la segregazione dei neri sui luoghi di lavoro o sui servizi (le ferrovie) gestiti da compagnie private, per definizione sottratti ad ogni interferenza statale.

E’ soprattutto importante notare che, sul piano della politica internazionale, Engels sembra riecheggiare l’ideologia del Manifest Destiny , come emerge dalla celebrazione della guerra contro il Messico: grazie anche al «valore dei volontari americani», «la splendida California è stata strappata agli indolenti messicani, i quali non sapevano cosa farsene»; mettendo a profitto le nuove gigantesche conquiste, «gli energici Yankees» danno nuovo impulso alla produzione e alla circolazione della ricchezza, al «commercio mondiale», alla diffusione della «civiltà» ( Zivilisation ) (Marx-Engels 1955, VI, 273-5).

A Engels sfugge un fatto denunciato invece con forza, in quello stesso periodo di tempo, dai circoli abolizionisti statunitensi: l’espansione degli Stati Uniti aveva significato un’espansione dell’istituto della schiavitù. Per quanto riguarda la storia del movimento comunista propriamente detto, è noto il fascino che taylorismo e fordismo esercitano su Lenin e Gramsci. Ancora oltre va Bucharin nel 1923: «Abbiamo bisogno di sommare l’americanismo al marxismo» (in Figes 2003, 24).

Un anno dopo, al paese che pure ha partecipato all’intervento contro la Russia sovietica Stalin sembra guardare con tanta simpatia da rivolgere un significativo appello ai quadri bolscevichi: se vogliono essere realmente all’altezza dei «principi del leninismo», devono saper assimilare «lo spirito pratico americano». «Americanismo» e «spirito pratico» stanno qui a significare non solo concretezza ma anche insofferenza per i pregiudizi, rinviano in ultima analisi alla democrazia. Come Stalin chiarisce nel 1932: gli Stati Uniti sono certo un paese capitalistico; tuttavia, «le tradizioni nell’industria e nella prassi produttiva hanno qualcosa del democratismo, ciò che non si può dire dei vecchi paesi capitalistici dell’Europa, dove è ancora vivo lo spirito signorile dell’aristocrazia feudale» (cfr. Losurdo 1997, 81-6).

A suo modo Heidegger ha ragione allorché rimprovera a Stati Uniti e Unione Sovietica di rappresentare da un punto di vista metafisico, il medesimo principio, consistente nello scatenamento della tecnica e nella «massificazione dell’uomo» (Losurdo 1991 a, 90). Non c’è dubbio che i bolscevichi si sentono fortemente attratti dall’America del melting pot e del self made man .

Altri aspetti, invece, risultano ai loro occhi decisamente ripugnanti. Nel 1924, Correspondance Internationale (la versione francese dell’organo dell’Internazionale Comunista) pubblica l’articolo di un giovane indocinese approdato negli USA, il quale, mentre nutre ammirazione per la rivoluzione americana, prova orrore per la pratica del linciaggio che nel Sud colpisce i neri. Uno di questi spettacoli di massa viene descritto in modo impietoso:

«Il nero viene messo a cuocere, è abbrustolito, bruciato. Ma egli merita di morire due volte piuttosto che una sola volta. Pertanto egli viene impiccato, più esattmente è sottoposto a impiccagione ciò che resta del suo cadavere… Quando tutti sono sazi, il cadavere viene tirato giù. La corda è tagliata in piccoli pezzi, venduti da tre a cinque dollari l’uno».

E, tuttavia, lo sdegno per il regime di white supremacy non sfocia affatto in una condanna indiscriminata degli Stati Uniti: sì, il Ku Klux Klan rivela tutta «la brutalià del fascismo», ma esso finirà con l’essere sconfitto, oltre che dai neri, ebrei e cattolici (le vittime a vario livello di questa brutalità), da «tutti gli americani decenti» (in Wade, 1997, 203-4). Non siamo certo in presenza di un antiamericanismo indifferenziato.

 

 2. Uno «splendido Stato del futuro»

Sì, il giovane indocinese assimila il Ku Klux Klan al fascismo. Epperò, le somiglianze tra i due movimenti non sfuggono ai testimoni americani del tempo. Non poche volte, con giudizio di valore positivo o negativo, essi paragonano gli uomini in divisa bianca del sud degli Stati Uniti alle «camice nere» italiane e alle «camice brune» tedesche. Dopo aver richiamato l’attenzione sui tratti comuni al Ku Klux Klan e al movimento nazista, una studiosa statunitense dei giorni nostri ritiene di poter giungere a questa conclusione:

«Se la Grande depressione non avesse colpito la Germania con tutta la forza con cui in effetti la colpì, il nazionalsocialismo potrebbe essere trattato come talvolta viene trattato il Ku Klux Klan: come una curiosità storica, il cui destino era già segnato» (MacLean 1994, 184).

E cioè, più che la diversa storia ideologica e politica, a spiegare il fallimento dell’Invisible Empire negli Stati Uniti e l’avvento del Terzo Reich in Germania sarebbe il diverso contesto economico.

Può darsi che questa affermazione sia eccessiva. Epperò, quando, per mettere a tacere le critiche contro la politica di Washington, si ricorda il contributo essenziale che gli Stati Uniti, assieme ad altri paesi (a cominciare dall’Unione Sovietica) hanno dato alla lotta contro la Germania hitleriana e i suoi alleati, si dice solo una parte della verità; l’altra parte è costituita dal ruolo notevole che i movimenti reazionari e razzisti americani hanno svolto nell’ispirare e alimentare in Germania l’agitazione da ultimo sfociata nel trionfo di Hitler.

Già negli anni ’20, tra il Ku Klux Klan e i circoli tedeschi di estrema destra si stabiliscono rapporti di scambio e di collaborazione all’insegna del razzimo anti-nero e antiebraico. Ancora nel 1937, Rosenberg celebra gli Stati Uniti come uno «splendido paese del futuro»: esso ha avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che adesso si tratta di mettere in pratica, «con forza giovanile», mediante espulsione e deportazione di «negri e gialli» (Rosenberg 1937, 673). Basta dare uno sguardo alla legislazione varata subito dopo l’avvento del Terzo Reich, per rendersi conto delle analogie con la situazione esistente nel Sud degli Stati Uniti: ovviamente, in Germania sono in primo luogo i tedeschi di origine ebraica ad occupare il posto degli afro-americani.

Hitler si preoccupa di distinguere nettamente, anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto a quella degli ebrei nonché dei pochi mulatti viventi in Germania (a conclusione della prima guerra mondiale, truppe di colore al seguito dell’esercito francese avevano partecipato all’occupazione del paese). «La questione negra» – scrive sempre Rosenberg – «è negli Usa al vertice di tutte le questioni decisive»; e una volta che l’assurdo principio dell’uguaglianza sia stato cancellato per i neri, non si vede perché non si debbano trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei» (Rosenberg 1937, 668-9).

Tutto ciò non deve stupire. Elemento centrale del programma nazista è la costruzione di uno Stato razziale. Ebbene, quali erano in quel momento i possibili modelli? Certo, Rosenberg fa riferimento anche al Sud-Africa: è bene che permanga saldamente «in mano nordica» e bianca (grazie a opportune «leggi» a carico, oltre che degli «indiani», anche di «neri, mulatti e ebrei»), e che costituisca un «solido bastione» contro il pericolo rappresentato dal «risveglio nero» (Rosenberg 1937, 666).

Ma l’ideologo nazista sa in qualche modo che la legislazione segregazionista del Sud-Africa è stata largamente ispirata dal regime di white supremacy , messo in atto nel sud degli Stati Uniti dopo la fine della Ricostruzione (Noer 1978, 106-7, 115, 125). E, dunque, rivolge il suo sguardo in primo luogo a questa realtà. D’altro canto, è anche per un’altra ragione che la repubblica d’oltre Atlantico costituisce un motivo di ispirazione per il Terzo Reich.

Hitler mira non ad un espansionismo coloniale generico bensì alla costruzione di un Impero continentale, mediante l’annessione e la germanizzazione dei territori orientali immediatamente contigui al Reich. La Germania è chiamata a espandersi in Europa orientale come in una sorta di Far West, trattando gli «indigeni» alla stregua dei pellerossa (Losurdo 1996, 212-6) e senza mai perdere di vista il modello americano, di cui il Führer celebra «l’inaudita forza interiore» (Hitler 1939, 153-4). Subito dopo averla invasa, Hitler procede allo smembramento della Polonia: una parte è direttamente incorporata nel Grande Reich (e da essa vengono espulsi i polacchi); il resto costituisce il «Governatorato generale» nell’ambito del quale – dichiara il governatore generale Hans Frank – i polacchi vivono come in «una sorta di riserva»: sono «sottoposti alla giurisdizione tedesca» senza essere «cittadini tedeschi» (in Ruge-Schumann 1977, 36). Il modello americano è qui seguito persino in modo scolastico: non possiamo non pensare alla condizione dei pellerossa.

 3. Lo Stato razziale tra Stati Uniti e Germania

E’ un modello che lascia traccia profonde anche a livello categoriale e linguistico. Il termine Untermensch , che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione di Under Man .

Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo ( The Menace of the Under Man ) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca ( Die Drohung des Untermenschen ) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta ad indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», coi quali bisogna procedere ad una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà.

Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), l’autore americano è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime compreso Adolf Hitler , ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli Untermenschen , ovvero degli «indigeni» dell’Europa orientale. Negli Stati Uniti della white supremacy così come nella Germania in cui prende sempre più piede il movimento sfociato poi nel nazismo, il programma di ristabilimento delle gerarchie razziali si salda strettamente col progetto eugenetico.

Si tratta in primo luogo di incoraggiare la procreazione dei migliori, in modo da sventare il pericolo di «suicidio razziale» ( Rasseselbstmord ) che incombe sui bianchi: a suonare l’allarme è, nel 1918, Oswald Spengler, il quale però, a tale proposito, si richiama all’insegnamento di Theodore Roosevelt (Spengler 1980, 683). E, in effetti, nello statista americano, l’evocazione dello spettro del «suicidio razziale» ( race suicide ) ovvero della «umiliazione razziale» ( race humiliation ) va di pari passo con la denuncia della «diminuzione delle nascite tra le razze superiori», ovvero «nell’ambito dell’antico ceppo dei nativi americani»: ovviamente, il riferimento è qui non ai «selvaggi» pellerossa ma ai Wasp (cfr. Roosevelt 1951, I, 487 nota 4, 647, 1113; Roosevelt 1951, II, 1053).

Si tratta, altresì, di scavare un abisso incolmabile tra razza dei servi e razza dei signori, depurando quest’ultima degli elementi di scarto e mettendola in condizione di affrontare e stroncare la rivolta servile che, sull’onda della rivoluzione bolscevica, si sta delineando a livello planetario. Anche in questo caso, una ricerca storica spregiudicata conduce a risultati sorprendenti. Erbgesundheitslehre ovvero Rassenhygiene , un’altra parola-chiave dell’ideologia nazista, non è altro, in ultima analisi, che la traduzione tedesca di eugenics , la nuova scienza inventata in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocento da Francis Galton e che, non a caso, conosce i suoi massimi trionfi negli Stati Uniti: qui è più che mai acuto il problema del rapporto tra le «tre razze» e tra «nativi» da un lato e massa crescente di immigrati poveri dall’altro. Ben prima dell’avvento di Hitler al potere, alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, vede la luce a Monaco un libro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come modello di «igiene razziale».

L’autore, vice-console dell’Impero austro-ungarico a Chicago, celebra gli Stati Uniti per la «lucidità» e la «pura ragion pratica» di cui danno prova nell’affrontare, e con la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso: violare le leggi che vietano i rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali può comportare anche 10 anni di reclusione e, ad essere condannabili, oltre ai protagonisti , sono anche i loro complici (Hoffmann 1913, IX, 67-8). Dieci anni dopo, nel 1923, un medico tedesco, Fritz Lenz, si lamenta del fatto che, per quanto riguarda l’«igiene razziale», la Germania è ben addietro rispetto agli USA (Lifton 1986, 29).

Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e “scienziati” della razza continuano a ribadire: «Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro» (Günther 1934, 465). Le misure eugenetiche varate subito dopo la Machtergreifung mirano a sventare il pericolo della «Volkstod» (Lifton 1986, 30), della «morte del popolo» o della razza. E di nuovo siamo ricondotto al tema del «suicidio razziale». Per sventare il pericolo del suicidio della razza bianca, che sarebbe poi il suicidio della civiltà, non bisogna esitare alle misure più energiche, alle soluzioni più radicali, nei confronti delle «razze inferiori» ( inferior races ): se una di esse – tuona Theodore Roosevelt – dovesse aggredire la razza «superiore» ( superior ), questa reagirebbe con «una guerra di sterminio» ( a war of extermination ), chiamata «mettere a morte uomini, donne e bambini, esattamente come se si trattasse di una Crociata» (Roosevelt 1951, II, 377). Significativamente, ad una vaga «ultimate solution» della questione nera accenna un libro apparso a Boston nel 1913 (Fredrickson, 1987, 258 nota); più tardi, invece, i nazisti teorizzeranno e cercheranno di mettere in pratica la «soluzione finale» ( Endlösung ) della questione ebraica.

 4. Il nazismo come progetto di white supremacy a livello planetario

Nel corso di tutta la loro storia, gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare in modo diretto i problemi derivanti dall’incontro con “razze” diverse e con la massa di immigrati provenienti da ogni angolo del mondo. D’altro canto, il furibondo movimento razzista che si sviluppa alla fine dell’Ottocento è la risposta alla grande rivoluzione rappresentata dalla guerra di Secessione e dal periodo di Ricostruzione radicale.

Mentre gli ex-proprietari schiavisti sono momentaneamente privati dei diritti politici in quanto ribelli, i neri passano dalla condizione di schiavitù alla piena cittadinanza politica; non poche volte, entrano a far parte degli organismi rappresentativi, divenendo così in qualche modo legislatori e dirigenti dei loro ex-padroni. Diamo ora uno sguardo alle esperienze e alle emozioni, che sono alle spalle dell’agitazione sfociata poi nel nazismo.

Se tra Otto e Novecento il Ku Klux Klan e i teorici della white supremacy bollano gli Stati Uniti scaturiti dall’abolizione della schiavitù e dalla massiccia ondata di immigrati provenienti ora anche dall’Oriente o da paesi ai margini dell’Europa come una «civiltà bastarda» (MacLean 1994, 133) o come una «cloaca gentium» (Grant 1917, 81) , l’Austria nella quale il futuro leader nazista si forma, gli appare, nel Mein Kampf , come un caotico «conglomerato di popoli», come una «babilonia di popoli» ovvero un «regno babilonico», lacerato da un «conflitto razziale» (Hitler 1939, 74, 79, 39, 80), che sembra doversi concludere con una catastrofe: avanza il processo di «slavizzazione» e di «cancellazione dell’elemento tedesco» ( Entdeutschung ), col tramonto quindi della superiore razza che aveva colonizzato l’Oriente e vi aveva apportato la civiltà (Hitler 1939, 82).

La Germania dove poi Hitler approda conosce, in seguito alla disfatta della prima guerra mondiale, sconvolgimenti senza precedenti, paragonabili in qualche modo a quelli verificatisi nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione: ben al di là della perdita delle loro colonie, i tedeschi sono costretti a subire l’occupazione militare delle truppe di colore al seguito delle potenze vincitrici.

Ora, a giudicare sempre dal Mein Kampf , anche la Germania si è trasformata in un «miscuglio razziale» (Hitler 1939, 439). Ad acuire la sensazione del pericolo di un definitivo tramonto della civiltà provvede poi la rivoluzione d’Ottobre che, rivolgendo ai popoli coloniali l’appello a ribellarsi, sembra sancire ideologicamente l’«orrore» dell’occupazione militare nera; per di più essa scoppia e giunge al potere in un’area abitata da popoli tradizionalmente considerati ai margini della civiltà.

Come nel Sud degli Stati Uniti gli abolizionisti vengono bollati come rinnegati della propria razza ovvero quali negro-lovers , così traditori della razza germanica e occidentale appaiono agli occhi di Hitler prima i socialdemocratici e poi, a maggior ragione, i comunisti. In ultima analisi, il Terzo Reich si presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra totale e della guerra civile internazionale, di reagire al pericolo del tramonto e del suicidio razziale dell’Occidente e della razza superiore, realizzando un regime di white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca.

5. Antisemitismo e antiamericanismo? Spengler e Ford

La campagna in corso contro coloro che osano criticare la politica di guerra preventiva di Washington ama associare l’antiamericanismo all’antisemitismo.

E di nuovo si rimane stupiti per il dileguare della memoria storica. Chi ricorda ancora la celebrazione del «genuino americanismo di Henry Ford» ad opera del Ku Klux Klan (in MacLean 1994, 90)?

Ad essere qui oggetto di ammirazione è il magnate dell’industria automobilistica, che si impegna a denunciare la rivoluzione bolscevica come il risultato in primo luogo del complotto ebraico e che a tale scopo fonda una rivista di larga tiratura, il Dearborn Independent : gli articoli qui pubblicati vengono raccolti nel novembre 1920 in un volume, L’ebreo internazionale che subito diventa un punto di riferimento dell’antisemitismo internazionale, tanto da poter esser considerato il libro che più di ogni altro ha contribuito alla celebrità dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion .

E’ vero, dopo qualche tempo Ford è costretto a rinunciare alla sua campagna, ma intanto è stato tradotto in Germania e ha incontrato grande fortuna. Più tardi diranno di essersi ispirati a lui o di aver da lui preso le mosse gerarchi nazisti di primo piano come von Schirach e persino Himmler. Il secondo in particolare racconta di aver compreso «la pericolosità dell’ebraismo» solo a partire dalla lettura del libro di Ford: «per i nazionalsocialisti fu una rivelazione».

Seguì poi la lettura dei Protocolli dei Savi di Sion :

«Questi due libri ci indicarono la via da percorrere per liberare l’umanità afflitta dal più grande nemico di tutti i tempi, l’ebreo internazionale»; com è chiaro, Himmler fa uso di una formula che riecheggia il titolo del libro di Henry Ford.

Potrebbe trattarsi di testimonianze in parte interessate e strumentali. E’ un dato di fatto però che nei colloqui di Hitler con Dietrich Eckart, la personalità che ha avuto su di lui la maggior influenza, lo Henry Ford antisemita è tra gli autori più frequentemente e positivamente citati.

E, d’altra parte, secondo Himmler, il libro di Ford assieme ai Protocolli , avrebbe svolto un ruolo «decisivo» (ausschlaggebend ) oltre che sulla sua formazione, anche su quella del Führer . Anche in questo caso, risulta evidente la superficialità della contrapposizione schematica tra Europa e Stati Uniti, come se la tragica vicenda dell’antisemitismo non avesse coinvolto entrambi. Nel 1933 Spengler sente il bisogno di fare questa precisazione: la giudeofobia da lui apertamente professata non va confusa col razzismo «materialistico» caro agli «antisemiti in Europa e in America» (Spengler 1933, 157).

L’antisemitismo biologico che soffia impetuoso anche al di là dell’Atlantico viene considerato eccessivo persino da un autore pure impegnato in una requisitoria contro la cultura e la storia ebraica in tutto l’arco della sua evoluzione. E’ anche per questo che Spengler appare pavido e inconseguente agli occhi dei nazisti. I loro entusiasmi si rivolgono altrove: L’ebreo internazionale continua ad essere pubblicato con grande onore nel Terzo Reich con prefazioni che sottolineano il decisivo merito storico dell’autore e industriale americano (nell’aver fatto luce sulla «questione ebraica») e evidenziano una sorta di linea di continuità da Henry Ford a Adolf Hitler! (cfr. Losurdo 1991 b, 84-5).

La polemica in corso su antiamericanismo e antieuropeismo pecca di ingenuità: essa sembra ignorare gli scambi culturali e le influenze reciproche tra America e Europa.

Nel primo dopoguerra, Croce non aveva avuto difficoltà a sottolineare l’influenza che Theodore Roosevelt aveva esercitato su Enrico Corradini, il capo nazionalista poi confluito nel partito fascista (Croce, 1967, 251). Agli inizi del Novecento, lo statista americano aveva compiuto un viaggio trionfale in Europa, nel corso del quale aveva ricevuto una laurea honoris causa a Berlino e aveva conquistato – a notarlo questa volta è Pareto – numerosi «adulatori» (Pareto 1988, 1241-2, § 1436).

La rappresentazione secondo cui gli Stati Uniti costituirebbero una sorta di spazio sacro, immune dai morbi e dagli orrori dell’Europa, è un prodotto soprattutto della guerra fredda. Non bisogna mai perdere di vista la circolazione del pensiero tra le due rive dell’Atlantico: sì, l’americano Stoddard inventa la categoria-chiave del discorso ideologico nazista ( Untermensch ), ma nel far ciò egli ha alle spalle un soggiorno di studio in Germania e la lettura della teoria cara a Nietzsche del superuomo (Losurdo 2002, 886-7).

D’altro canto, mentre guarda con ammirazione al mondo della white supremacy, la reazione tedesca avverte ripugnanza e disprezzo nei confronti del melting pot . Rosenberg riferisce sdegnato che a Chicago una «grande cattedrale« cattolica «appartiene ai nigger». C’è persino un «vescovo nero» che vi celebra la messa: è l’«allevamento» di «fenomeni bastardi» (Rosenberg 1937, 471).

A sua volta, Hitler sentenzia e denuncia che «sangue ebraico» scorre nelle vene di Franklin Delano Roosevelt, la cui moglie ha comunque un «aspetto negroide» (Hitler 1952-54, II, 182, conversazione del 1 luglio 1942).

6. Gli Stati Uniti, l’Occidente e la Herrenvolk democracy

A questo punto, chiaramente ideologica o mitologica si rivela la tesi della convergenza tra antiamericanismo di destra e di sinistra. In realtà, sono proprio gli aspetti messi in stato d’accusa dalla tradizione che dall’abolizionismo giunge sino al movimento comunista a suscitare simpatia e entusiasmo sul versante opposto. Quel che è amato dagli uni è odiato dagli altri, e viceversa.

Ma gli uni e gli altri si trovano dinanzi al paradosso che caratterizza la storia degli Stati Uniti sin dalla sua fonadzione e che è stato così formulato, nel Settecento, dallo scrittore inglese Samuel Johnson: «Come spiegare che ad acclamare più rumorosamente la libertà sono coloro i quali sono impegnati nella caccia ai neri?» (in Foner 1998, 32). E’ un fatto: la democrazia nell’ambito della comunità bianca si è sviluppata contemporaneamente ai rapporti di schiavizzazione dei neri e di deportazione degli indios.

Per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli USA, a detenere la presidenza sono proprietari di schiavi, e proprietari di schiavi sono anche coloro che elaborano la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione. Senza la schiavitù (e la successiva segregazione razziale) non si può comprendere nulla della «libertà americana»: esse crescono assieme, l’una sostenendo l’altra (Morgan 1975). Se la «peculiar institution» (la schiavitù) assicura il ferreo controllo delle classi «pericolose» già sui luoghi di produzione, la mobile frontiera e la progressiva espansione ad Ovest disinnescano il conflitto sociale trasformando un potenziale proletariato in una classe di proprietari terrieri, a spese però di popolazioni condannate ad essere rimosse o spazzate via. Dopo il battesimo della guerra d’indipendenza, la democrazia americana conosce un ulteriore sviluppo, negli anni ‘30 dell’Ottocento, con la presidenza Jackson: la cancellazione, in larga parte, delle discriminazioni censitarie all’interno della comunità bianca va di pari passo col vigoroso impulso impresso alla deportazione degli indios e col montare di un clima di risentimento e di violenza a danno dei neri.

Una considerazione analoga può essere fatta anche per la cosiddetta «età progressista» che, partendo dalla fine del secolo scorso, abbraccia i primi tre lustri del Novecento: essa è caratterizzata certo da numerose riforme democratiche (che assicurano l’elezione diretta del Senato, la segretezza del voto, l’introduzione delle primarie e dell’istituto del referendum ecc.), ma costituisce al tempo stesso un periodo particolarmente tragico per neri (bersaglio del terrore squadristico del Ku Klux Klan) e indios (spogliati delle terre residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione che intende privarli persino della loro identità culturale). A proposito di questo paradosso che caratterizza la storia del loro paese, autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato di Herrenvolk democracy , cioè di democrazia che vale solo per il «popolo dei signori» (per usare il linguaggio caro poi a Hitler) (Berghe 1967; Fredrickson 1987).

La netta linea di demarcazione, tra bianchi da una parte e neri e pellerossa dall’altra, favorisce lo sviluppo di rapporti di uguaglianza all’interno della comunità bianca. I membri di un’aristocrazia di classe o di colore tendono ad autocelebrarsi come i “pari”; la netta disuguaglianza imposta agli esclusi è l’altra faccia del rapporto di parità che s’instaura tra coloro che godono del potere di escludere gli «inferiori». Dobbiamo allora contrapporre positivamente l’Europa agli Stati Uniti? Sarebbe una conclusione precipitosa e errata.

In realtà, la categoria di Herrenvolk democracy può essere utile anche per spiegare la storia dell’Occidente nel suo complesso. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’estensione del suffragio in Europa va di pari passo col processo di colonizzazione e con l’imposizione di rapporti di lavoro servili o semiservili alle popolazioni assoggettate; il governo della legge nella metropoli s’intreccia strettamente con la violenza e l’arbitrio burocratico e poliziesco e con lo stato d’assedio nelle colonie. E’ in ultima analisi lo stesso fenomeno che si verifica nella storia degli Stati Uniti, solo che nel caso dell’Europa esso risulta meno evidente per il fatto che le popolazioni coloniali, invece di risiedere nella metropoli, sono da questa separati dall’oceano.

7. Missione imperiale e fondamentalismo cristiano nella storia degli USA

E’ su un piano diverso che possiamo cogliere le reali differenze nello sviluppo politico e ideologico tra le due rive dell’Atlantico. Dopo essere stata profondamente segnata dalla grande stagione dell’illuminismo, alla fine dell’Ottocento l’Europa conosce un processo ancora più radicale di secolarizzazione: a ritenere ormai ineluttabile la «morte di Dio» sono sia i seguaci di Marx sia i seguaci di Nietzsche. Ben diverso è il quadro che presentano gli Stati Uniti.

Nel 1899, la rivista Christian Oracle spiega così la decisione di cambiare il suo nome in Christian Century : «Crediamo che il prossimo secolo sarà testimone, per la cristianità, dei più grandi trionfi di tutti i secoli e che esso sarà più autenticamente cristiano di tutti quelli precedenti» (in Olasky 1992, 135). In questo momento è in corso la guerra contro la Spagna, accusata dai dirigenti USA di privare ingiustamente Cuba del suo diritto alla libertà e all’indipendenza, per di più ricorrendo, in un’isola «così vicina ai nostri confini», a misure che ripugnano al «senso morale del popolo degli Stati Uniti» e che rappresentano una «disgrazia per la civiltà cristiana» (in Commager 1963, II, 5). Richiamo indiretto alla dottrina Monroe e appello alla crociata in nome al tempo stesso della democrazia, della morale e della religione s’intrecciano strettamente per scomunicare per così dire un paese cattolicissimo e conferire il carattere di guerra santa a tutti gli effetti ad un conflitto che avrebbe consacrato il ruolo di grande potenza imperiale degli USA.

Più tardi, il presidente McKinley spiega la decisione di annettere le Filippine con un’illuminazione di «Dio Onnipotente» che, dopo prolungate preghiere in ginocchio, finalmente, in una notte sino a quel momento particolarmente angosciosa, lo libera da ogni dubbio e indecisione. Non era lecito, lasciare nelle mani della Spagna la colonia o cederla «alla Francia o alla Germania, i nostri rivali commerciali in Oriente»; e neppure era lecito affidarla agli stessi filippini che, «inadatti all’autogoverno», avrebbero fatto piombare il loro paese in una condizione di «anarchia e malgoverno» ancora peggiori di quelli prodotti dal dominio spagnolo: «Non ci restava null’altro che mantenere le Filippine, che educare i filippini, innalzandoli, civilizzandoli e cristianizzandoli, e, con l’aiuto di Dio, fare il nostro meglio per loro, come nostri fratelli, per i quali, anche, Cristo è morto. E allora andai a letto, mi addormentai e dormii profondamente» (in Millis 1989, 384).

Oggi sappiamo degli orrori che ha comportato la repressione del movimento indipendentista nelle Filippine: la guerriglia da esso scatenata fu fronteggiata con la distruzione sistematica dei raccolti e del bestiame, rinchiudendo in massa la popolazione in campi di concentramento dove era falcidiata da inedia e malattie e in certi casi ricorrendo persino all’uccisione di tutti i maschi al di sopra dei dieci anni (McAllister Linn 1989, 27, 23). E, tuttavia, nonostante l’ampiezza dei «danni collaterali», la marcia dell’ideologia della guerra imperial-religiosa conosce una nuova trionfale tappa col primo conflitto mondiale. Subito dopo l’intervento, in una lettera al colonnello House, così Wilson si esprime a proposito dei suoi «alleati»: «Quando la guerra sarà finita, li potremo sottoporre al nostro modo di pensare per il fatto che essi, tra le altre cose, saranno finanziariamente nelle nostre mani» (in Kissinger 1994, 224). Indipendentemente da ciò, non ci sono dubbi sul fatto che «agiva un forte elemento di Realpolitik» (Heckscher 1991, 298) nell’atteggiamento da Wilson assunto sia nei confronti dell’America Latina che del resto del mondo. E, tuttavia, ciò non gli impedisce di condurre la guerra come una Crociata nel senso persino letterale del termine: i soldati americani sono «crociati» protagonisti di una «trascendente impresa» (Wilson 1927, II, 45, 414) di una «guerra santa, la più santa di tutte le guerre», destinata a far trionfare nel mondo la causa della pace, della democrazia e dei valori cristiani. E di nuovo, interessi materiali e geopolitici, ambizioni egemoniche e imperiali e buona coscienza missionaria e democratica si fondono in un’unità indissolubile e irresistibile.

Con questa medesima piattaforma ideologica, gli USA affrontano gli ulteriori conflitti del Novecento. Particolarmente significativa è la vicenda della guerra fredda. Uno dei suoi protagonisti, Foster Dulles, è, secondo la definizione di Churchill, «un puritano rigoroso». Egli è orgoglioso del fatto che «nel dipartimento di Stato nessuno conosce la Bibbia meglio di me». Il fervore religioso non è un affare privato: «Sono convinto che abbiamo bisogno di far sì che i nostri pensieri e pratiche politiche riflettano in modo più fedele la fede religiosa secondo cui l’uomo ha la sua origine e i suo destino in Dio» (in Kissinger 1994, 534-5.). Assieme alla fede, altre fondamentali categorie della teologia irrompono nella lotta politica a livello internazionale: i paesi neutrali che si rifiutano di prender parte alla Crociata contro l’Unione Sovietica si macchiano di «peccato», mentre gli USA che si pongono alla testa di tale Crociata sono il «popolo morale» per eccellenza (in Freiberger 1992, 42-3).

A guidare questo popolo che si distingue da tutti gli altri per la sua moralità e la sua vicinanza a Dio è, nel 1983, Ronald Reagan. Questi dà impulso alla fase culminante della guerra fredda, destinata a sancire la disfatta del nemico ateo, con un linguaggio esplicitamente e squillantemente teologico «Nel mondo c’è peccato e male e dalla Scrittura e da Gesù Nostro Signore siamo obbligati ad opporci ad essi con tutte le nostre forze» (in Draper 1994, 33). Veniamo infine ai giorni nostri. Nel discorso che inaugura il suo primo mandato presidenziale, Clinton non è meno religiosamente ispirato dei suoi predecessori e del suo successore: «Oggi celebriamo il mistero del rinnovamento americano». Dopo aver ricordato il patto intercorso tra «i nostri padri fondatori» e «l’Onnipotente», Clinton sottolinea: «La nostra missione è senza tempo» (Lott 1994, 366).

Riallacciandosi a questa tradizione e radicalizzandola ulteriormente, George W. Bush ha condotto la sua campagna elettorale proclamando un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo» (Cohen 2000). Come si vede, nella storia degli Stati Uniti la religione è chiamata a svolgere a livello internazionale una funzione politica di primo piano. Siamo in presenza di una tradizione politica americana che si esprime con un linguaggio esplicitamente teologico. Più che alle dichiarazioni rilasciate dai capi di Stato europei, le «dottrine» di volta in volta enunciate dai presidenti statunitensi fanno pensare alle encicliche e ai dogmi diffuse o proclamati dai pontefici della Chiesa cattolica.

I discorsi inaugurali dei presidenti sono delle vere e proprie cerimonie sacre. Mi limito a due esempi. Nel 1953, dopo aver invitato i suoi ascoltatori ad inchinare il capo dinanzi a «Dio onnipotente», rivolgendosi direttamente a Lui, Eisenhower esprime questo auspicio : « che tutto possa svolgersi per il bene del nostro amato paese e per la Tua gloria. Amen» (Lott 1994, 302). In questo caso balza agli occhi con particolare evidenza l’identità che c’è tra Dio e America. A quasi mezzo secolo di distanza il quadro non cambia. Abbiamo visto in che modo si apre il discorso inaugurale di Clinton. Ma vediamo in che modo si conclude. Dopo aver citato la sacra «Scrittura», il neo-presidente termina così: «Da questa vetta della celebrazione noi udiamo una chiamata al servizio nella valle. Abbiamo sentito le trombe. Abbiamo fatto il cambio della guardia. Ed ora, ciascuno a suo modo e con l’aiuto di Dio, dobbiamo rispondere alla chiamata. Grazie e che Dio vi benedica tutti» (Lott 1994, 369). E di nuovo, gli Stati Uniti sono celebrati come la città sulla collina, la città benedetta da Dio.

Nel discorso pronunciato subito dopo la sua rielezione, Clinton sente il bisogno di ringraziare Dio di averlo fatto nascere americano. Dinanzi a questa ideologia, anzi a questa teologia della missione l’Europa si è sempre trovata a disagio. E’ nota l’ironia di Clemenceau a proposito dei quattordici punti di Wilson: il buon Dio aveva avuto la modestia di limitarsi a dieci comandamenti! Nel 1919, in una lettera privata, John Maynard Keynes definisce Wilson «il più grande impostore della terra» (In Skidelsky, 1989, p. 444). In termini forse ancora più aspri si esprime Freud, a proposito della tendenza dello statista americano a ritenersi investito di una missione divina: siamo in presenza di «spiccatissima insincerità, ambiguità e inclinazione a rinnegare la verità»; d’altro canto, già Guglielmo II riteneva di essere «un uomo prediletto della Provvidenza» (Freud, 1995, 35-6).

Ma qui Freud si sbaglia; egli rischia di accostare due tradizioni ideologiche assai diverse. E’ vero, anche l’Imperatore tedesco non disdegna di abbellire con motivi religiosi le sue ambizioni espansionistiche: rivolgendosi alle truppe in partenza per la Cina, egli invoca la «benedizione di Do» su un’impresa chiamata a stroncare nel sangue la rivolta dei Boxers e a diffondere il «cristianesimo» (Röhl 2001, 1157); è incline a considerare i tedeschi come «il popolo eletto di Dio» (Röhl 1993, 412). Lo stesso Hitler dichiara di sentirsi chiamato a svolgere «l’opera del Signore» e di voler obbedire alla volontà dell’«Onnipotente» (Hitler 1939, 70, 439), tanto più che i tedeschi sono «il popolo di Dio» (in Rauschning 1940, 227). D’altro canto, è noto e famigerato il motto Gott mit uns (Dio con noi)… E, tuttavia, non bisogna sopravvalutare il peso di queste dichiarazioni e di questi motivi ideologici.

In Germania (la patria di Marx e di Nietzsche) il processo di secolarizzazione è assai avanzato. L’invocazione della «benedizione di Dio» da parte di Guglielmo II non viene presa sul serio neppure nei circoli sciovinisti: almeno agli occhi dei loro esponenti più avveduti (Maximilian Harden), ridicoli appaiono il ritorno ai «giorni delle Crociate» e la pretesa di «conquistare il mondo al Vangelo»; «così gironzolano attorno al Signore i visionari e gli speculatori furbi» (in Röhl 2001, 1157). Sì, prima ancora di ascendere al trono, il futuro imperatore celebra i tedeschi come «il popolo eletto di Dio», ma a prenderlo in giro è già la madre, figlia della regina Vittoria e incline, semmai, a rivendicare il primato dell’Inghilterra (Röhl 1993, 412). E’ un punto, quest’ultimo, su cui conviene riflettere ulteriormente.

In Europa i miti genealogici imperiali si sono in una certa misura neutralizzati a vicenda; le famiglie reali erano tutte imparentate tra di loro sicché, nell’ambito di ognuna di esse, si affrontavano idee di missione e miti genealogici imperiali tra loro diversi e contrastanti. A screditare ulteriormente queste idee e queste genealogie ha inoltre provveduto l’esperienza catastrofica di due guerre mondiali; d’altro canto, nonostante la sua finale sconfitta, qualche traccia ha pur lasciato nella coscienza europea la decennale agitazione comunista condotta in nome della lotta contro l’imperialismo e in nome del principio dell’uguaglianza delle nazioni. Il risultato di tutto ciò è chiaro: in Europa risulta priva di credibilità ogni idea di missione imperiale e di elezione divina agitata da questa o quella nazione; non c’è più spazio per l’ideologia imperial-religiosa che un ruolo così centrale occupa negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda in particolare la Germania, la storia che va dal Secondo al Terzo Reich presenta un’oscillazione tra la nostalgia di un paganesimo guerresco e incentrato attorno al culto di Wotan e l’aspirazione a trasformare il cristianesimo in una religione nazionale, chiamata a legittimare la missione imperiale del popolo tedesco. Questo secondo tentativo trova la sua espressione più compiuta nel movimento dei Deutsche Christen , i «cristiani tedeschi». Poco credibile a causa già del processo di secolarizzazione che, oltre alla società nel suo complesso, aveva investito la stessa teologia protestante (si pensi a Karl Barth e a Dietrich Bonhoeffer) e poco credibile altresì a causa delle simpatie paganeggianti dei dirigenti del Terzo Reich, questo tentativo non poteva avere che scarso seguito. La storia degli Stati Uniti è, invece, attraversata in profondità dalla tendenziale trasformazione della tradizione ebraico-cristiana in quanto tale in una sorta di religione nazionale che consacra l’ exceptionalism del popolo americano e la missione salvifica a lui affidata.

Ma questo intreccio di religione e politica non è sinonimo di fondamentalismo? Non è un caso che il termine fondamentalismo compare per la prima volta in ambito statunitense e protestante e come auto-designazione positiva e orgogliosa di sé. Possiamo ora comprendere i limiti dell’approccio di Freud e Keynes: ovviamente, nelle amministrazioni americane che via via si succedono non mancano gli ipocriti, i calcolatori, i cinici, ma non c’è motivo per dubitare della sincerità ieri di Wilson oggi di Bush jr. Non bisogna perdere di vista il fatto che siamo in presenza di una società scarsamente secolarizzata, nell’ambito della quale il 70 per cento degli abitanti crede nel diavolo e più di un terzo degli adulti pretende che Dio parli loro direttamente (Gray 1998, 126; Schlesinger jr., 1997).

Ma questo è un elemento di forza, non già di debolezza. La tranquilla certezza di rappresentare una causa santa e divina facilita non solo la mobilitazione corale nei momenti di crisi, ma anche la rimozione o bagatellizzazione delle pagine più nere della storia degli Usa. Sì, nel corso della guerra fredda Washington ha inscenato in America Latina sanguinosi colpi di Stato e imposto feroce dittature militari, mentre in Indonesia, nel 1965, ha promosso il massacro di alcune centinaia di migliaia di comunisti o di filo-comunisti; ma, per spiacevoli che possano essere, questi dettagli non sono in grado di offuscare la santità della causa incarnata dall’«Impero del Bene». E’ più vicino alla verità Weber allorché, nel corso della prima guerra mondiale, denuncia il «cant» americano (Weber 1971, 144). Il «cant» non è la menzogna e neppure, propriamente, l’ipocrisia cosciente; è l’ipocrisia di chi riesce a mentire anche a se stesso; è un po’ la falsa coscienza di cui parla Engels. Sia in Keynes sia in Freud si manifestano al tempo stesso la forza e la debolezza dell’illuminismo. Largamente immunizzata dall’ideologia imperial-religiosa che imperversa al di là dell’Atlantico, l’Europa si rivela tuttavia incapace di comprendere adeguatamente questo intreccio tra fervore morale e religioso da un lato e lucido e spregiudicato perseguimento dell’egemonia politica, economica e militare a livello mondiale dall’altro.

Ma è questo intreccio, anzi questa miscela esplosiva, è questo peculiare fondamentalismo a costituire oggi il pericolo principale per la pace mondiale. Più che ad una nazione determinata, il fondamentalismo islamico fa riferimento ad una comunità di popoli, i quali, non senza ragione, ritengono di essere il bersaglio di una politica di aggressione e di occupazione militare. Il fondamentalismo statunitense, invece, trasfigura e inebria un paese ben determinato che, forte della sua consacrazione divina, considera irrilevante l’ordinamento internazionale vigente, le leggi puramente umane. E’ in questo quadro che va collocata la delegittimazione dell’Onu, la sostanziale messa fuori gioco della Convenzione di Ginevra, le minacce rivolte non solo ai nemici ma persino agli «alleati» della Nato.

8. Dalla campagna contro la «drapetomania» alla campagna contro l’antiamericanismo

Oltre che a combattere il «male» e a diffondere i valori cristiani e americani, la guerra contro l’Irak, e le altre che si profilano all’orizzonte, hanno il compito di espandere la democrazia nel mondo. Quale credibilità ha quest’ultima pretesa? Ritorniamo al giovane indocinese che abbiamo visto denunciare, nel 1924, l’orrore dei linciaggi contro i neri. Dieci anni più tardi, egli ritorna nella sua terra d’origine per assumere il nome, divenuto poi celebre in tutto il mondo, di Ho Chi Minh. Nel momento dei feroci bombardamenti scatenati da Washington avrà pensato il dirigente vietnamita all’orrore della violenza anti-nera scatenata dai campioni della white supremacy ? In altre parole, l’emancipazione degli afro-americani e la conquista da parte loro dei diritti civili e politici ha realmente significato una svolta oppure gli Stati Uniti continuano in sostanza ad essere una Herrenvolk democracy , anche se gli esclusi non sono più da ricercare sul territorio metropolitano ma al di fuori di esso, come d’altro canto a lungo si è verificato nell’ambito della storia della «democrazia» europea? Possiamo esaminare il problema da una diversa prospettiva, a partire da una riflessione di Kant: «Cos’è un monarca assoluto ? E’ colui che quando comanda -la guerra deve essere,- la guerra segue». Ad essere qui presi di mira non sono gli Stati dell’Antico regime, bensì l’Inghilterra, che pure aveva alle sue spalle un secolo di sviluppo liberale (Kant 1900, 90 nota). Dal punto di vista del grande filosofo, il presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere considerato dispotico due volte. In primo luogo, a causa dell’emergere negli ultimi decenni di una «imperial presidency» che, nell’intraprendere azioni militari, mette spesso il Congresso dinanzi al fatto compiuto. In questa sede, ci interessa soprattutto il secondo aspetto: la Casa Bianca decide in modo sovrano quando le risoluzioni dell’Onu sono vincolanti e quando non lo sono; decide in modo sovrano chi sono i rogue States , contro i quali è lecito imporre l’embargo, affamando un intero popolo, ovvero è lecito scatenare l’inferno di fuoco, compresi i proiettili ad uranio impoverito e le cluster bombs che continuano ad infierire sulla popolazione civile ben al di là della fine del conflitto. Sempre in modo sovrano, la Casa Bianca decide l’occupazione militare di questi paesi per tutto il tempo che essa ritiene necessario, condannando all’ergastolo o incarcerando i loro dirigenti e i loro «complici». Contro di loro e contro i «terroristi» è lecito ricorrere anche al targeted killing , ovvero ad un killing tutt’altro che targeted , ad esempio il bombardamento di un normale ristorante dove si ritiene che possa trovarsi Saddam Hussein… E’ chiaro che le garanzie giuridiche non valgono per i «barbari». Anzi, a ben guardare, come dimostra il Patriot Act , la rule of law non si applica neppure per coloro che, pur non essendo« barbari» nel senso stretto del termine, sono tuttavia sospettabili di fare il loro gioco. E’ interessante esaminare la storia alle spalle dell’espressione « rogue States ». A lungo, tra Sei e Settecento, in Virginia i semi-schiavi, gli schiavi a tempo di pelle bianca, allorché venivano catturati dopo la fuga cui spesso cercavano di far ricorso, erano marchiati a fuoco con la lettera R (che stava per « Rogue »): resi così immediatamente riconoscibili, non avevano più via di scampo. Più tardi, il problema dell’identificazione veniva risolto definitivamente sostituendo ai semi-schiavi bianchi gli schiavi neri: il colore della pelle rendeva superflua la marchiatura a fuoco, il nero era già di per sé sinonimo di Rogue . Ora ad essere marchiati come «Rogue» sono interi Stati. La Herrenvolk democracy è dura a morire… Ma questa è una storia vecchia. Nuova è invece l’insofferenza crescente che Washington mostra nei confronti degli «alleati». Anche loro sono chiamati a inchinarsi, senza troppe tergiversazioni, al volere della nazione eletta da Dio. Ben si comprendono le perplessità e le reazioni negative che provoca l’atteggiarsi da parte del presidente degli Stati Uniti a sovrano planetario non vincolato e non limitato da nessun organismo internazionale. Ed ecco che gli ideologi della guerra gridano allo scandalo per il diffondersi di questo morbo terribile che, come sappiamo, è l’antiamericanismo. Per singolare che sia tale reazione, essa non è priva di analogie storiche. Alla metà dell’Ottocento, nel sud degli Stati Uniti il regime schiavista è vivo e vitale. E’, tuttavia, già si diffondono i primi dubbi e le prime inquietudini: aumenta il numero degli schiavi fuggitivi. Questo fenomeno non solo allarma ma stupisce gli ideologi della schiavitù e della white supremacy : com’è possibile che persone “normali” si sottraggano ad una società così bene ordinata e alla gerarchia della natura? Deve senza dubbio trattarsi di un morbo, di una turba psichica. Ma di cosa propriamente si tratta? Nel 1851, Samuel Cartwright, chirurgo e psicologo della Louisiana, ritiene finalmente di poter giungere ad una spiegazione che egli comunica ai suoi lettori dalle colonne di un’autorevole rivista scientifica, il «New Orleans Medical and Surgical Journal». Prendendo le mosse dal fatto che nel greco classico drapeths è lo schiavo fuggitivo, lo scienziato conclude trionfalmente che la turba psichica, il morbo che spinge gli schiavi neri alla fuga è per l’appunto la «drapetomania» (in Eakin, 2000). La campagna ai giorni nostri in corso contro l’antiamericanismo ha molti punti di contatto con la campagna scatenata oltre un secolo e mezzo fa contro la drapetomania!

 


Riferimenti bibliografici Richard Cohen, 2000 No, Mr. Lieberman, America Isn’t Really God’s Country , in «International Herald Tribune» dell’8 settembre, p. 7 (nell’articolo si parla erroneamente di Lieberman, ma il giorno dopo, a p. 6, sempre dell’IHT è apparsa la rettifica)

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