Il Comunitarismo come autocritica razionale della tribù occidentale

ott 21st, 2019 | Di | Categoria: Primo Piano, Teoria e critica

COSTANZO PREVE

 

IL COMUNITARISMO COME AUTOCRITICA RAZIONALE DELLA TRIBU’ OCCIDENTALE. IL POLITICAMENTE CORRETTO COME FORMAZIONE IDEOLOGICA DOMINANTE DELLA’ATTUALE TRIBU’ OCCIDENTALE!

 

IGnothi  s’eautòn, conosci te stesso, diceva il vecchio detto oracolare delfico, ripreso dall’ateniese Socrate come fondamento della propria filosofia. In un certo senso, tutta la filosofia socratica e la posteriore filosofia occidentale può essere interpretata come una lunga e contraddittoria secolarizzazione razionalistica di questo detto delfico. E tuttavia questo programma di autoconoscenza si fonda su di una base molto fragile, in quanto presuppone che ci sia una parte razionale e filosofica del nostro io che si stacca dall’insieme delle componenti dell’io stesso per giudicare tutte le altre. La stessa educazione platonica (paideia), secondo la profonda interpretazione di Alessandro Biral, si basa sulla possibilità di separare metodologicamente le tre anime di cui è composto l’uomo per poi ricomporle sotto il dominio della sola anima razionale, la cui razionalità non consiste nell’annullare le altre due, ma nell’armonizzarle in una sola nuova unità armoniosa. Si tratta peraltro dello stesso programma di Pitagora, se pensiamo che Pitagora fa derivare il principio delle armonie matematiche, su cui i greci baseranno in seguito tutti i programmi di armonizzazione sociale fra le classi e fra gli interessi contrapposti dei ricchi e dei poveri, dalla scoperta delle armonie musicali. Se facciamo l’esempio quotidiano delle nostre esperienze, vediamo che ci è quasi impossibile conoscere veramente noi stessi, almeno nel nostro comportamento in rapporto con gli altri. Pensiamo ai conflitti, alle incomprensioni, alle vere e proprie menzogne o cattiverie che ci hanno contrapposti ai nostri genitori, al coniuge, ai figli, agli amici, ai compagni di lavoro e/o di lotta politica, o semplicemente ai veri e propri estranei. Ci accorgiamo che è difficilissimo ricostruire razionalmente le dinamiche di questi conflitti, perché tendiamo a retrodatare a posteriori i torti e le ragioni facendo sempre salve in ultima istanza le nostre ragioni.

E ciò avviene anche e soprattutto per quel soggetto trascendentale riflessivo, storico, geografico ed ideologico chiamato Occidente. E’ infatti sempre una parte dell’Occidente che giudica l’altra parte dell’Occidente, presupponendo ovviamente di rifarsi a valori migliori dell’altra. Nell’ultima intervista data da Lukàcs a Yvon Bourdet poco prima della sua morte, il più grande filosofo marxista del novecento (è una valutazione soggettiva mia, naturalmente) sostiene che il giudizio di valore fa parte integrante dell’esperienza umana, e non può esistere prima di essa e indipendentemente da essa. Lukàcs si esprime così: “se consideriamo la grande storia dell’etica, ci rendiamo conto che il concetto di valore partecipa di tutto ciò che l’uomo fa. L’uomo non può sfuggire alle scelte di valore, non può comportarsi come una cosa. Una pietra cade, è caduta, e non se ne parla più. L’uomo è in una posizione di scelta , deve decidere di fare questo o quello, di farlo in un modo o nell’altro, e così nascono tutti i problemi di valore”.

2- Ma quale è il criterio per sapere se i nostri valori sono migliori o peggiori di altri? Si dirà che il criterio è la ragione universalistica, che già Platone concepì come raddoppiamento dialettico della ragione ricavata dai rapporti geometrici fra grandezze calcolabili. Ma la ragione universalistica si origina genericamente sempre da una molteplicità di punti di vista particolaristici. La psicoanalisi di Freud, interpretata come il coronamento filosofico di uno scetticismo iperbolico, ci dice che il modo in cui ci autopercepiamo “razionalmente” è solo l’instabile e fragile punto di arrivo di un equilibrio precario, frutto di un insieme di complessi non risolti, di rimozioni orali, anali e genitali, di illusioni e di menzogne, eccetera. Ed in questo modo il programma che Freud aveva elaborato per dire agli uomini la verità su sé stessi (in un certo senso, una ripresa positivistica del vecchio programma delfico), si è rovesciata dialetticamente nel suo contrario andando ad arricchire il già vasto terreno dello scetticismo e del relativismo nichilistico.

Del resto, questo non è per nulla nuovo. Cartesio propose il suo programma razionalistico del Cogito ergo Sum sulla base del presupposto sofistico per cui il pensiero umano(il Cogito) era un principio più sicuro dell’esistenza empirica delle cose (il Sum, l’Essere), in quanto era possibile ipotizzare un diabolico genio maligno che ci ingannasse sull’esistenza dello stesso mondo esterno, per cui i sensi diventavano meno affidabili del pensiero “interno”. Anche in questo caso, Cartesio si rivela particolarmente inconseguente. Se infatti esistesse veramente un genio malvagio, per quale motivo non avrebbe potuto spingere la sua malvagità fino al punto da dotarci anche di una soggettività illusoria? Su questo punto è molto più coerente e conseguente la filosofia taoista cinese di Chuang Tse, per cui non è possibile in ultima istanza sapere se è un saggio che sogna una farfalla o una farfalla che sogna un saggio.

3- Questa breve introduzione filosofica è rivolta a porre in modo radicalmente aporetico e problematico il problema del se e in che modo, ed entro quali limiti, l’Occidente possa pensare se stesso o come universalità immediata (concezione apologetica) o come possibilità potenziale di universalità possibile (concezione critica). Di fronte a questo problema, credo che ci possano essere tre soluzioni possibili.                                     In primo luogo, una posizione di relativismo radicale. Ogni civiltà ha sempre e comunque una genesi comunitaria, e da questa genesi comunitaria non può uscire. Siamo allora costretti ad assumere il relativismo come orizzonte insuperabile. Su questa base relativistica, che in ultima istanza nega alla filosofia in quanto tale la possibilità di uscire dal proprio relativismo iniziale, si possono poi avere due varianti diversissime, e cioè una variante occidentalistica di tipo apologetico (Richard Rorty), ed una variante anti-occidentalistica di tipo critico (Alain de Benoist). E’ evidente che la seconda è immensamente più profonda ed intelligente della prima, ed è proprio per questo che viene emarginata, silenziata e diffamata dal Politicamente Corretto (su cui tornerò), ma sempre di relativismo si tratta.

In secondo luogo , una posizione di occidentalismo presupposto, arrogante e manifesto, in cui l’occidente si autodichiara la più grande civiltà del mondo, l’unica potenzialmente universalistica. A suo tempo la filosofia della storia di Hegel afferma qualcosa di simile, sostenendo che solo l’occidente (nella sequenza greci-romani-cristianesimo-riforma protestante tedesca) ha veramente saputo elaborare il concetto di libertà della coscienza individuale. Marx è rimasto in parte un suo allievo recalcitrante, in particolare nella importante (ma non unica) componente occidentalistica del suo pensiero, che fa l’apologia del pieno sviluppo del capitalismo (occidentale) come premessa del comunismo mondiale universale. E tuttavia, Marx ha avuto il merito inestimabile di pensare l’occidente come unità di emancipazione universalistica potenziale              (dynamei on) e di imperialismo colonialistico, di alienazione e di sfruttamento. Lenin ha raccolto questo insegnamento marxiano, ed è questa una delle ragioni ( non la sola ) per cui Lenin non può e non deve essere  “espunto” dalla scuola di Marx, ma ne resta un fondamento inaggirabile. Oggi viviamo in un momento storico in cui, dopo l’incresciosa e mai abbastanza rimpianta fine dell’esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta chiamato comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), l’occidentalismo si presenta nella forma più arrogante possibile. Pensiamo ai neo-conservatori americani, che oggi con il passaggio da Bush ad Obama hanno forse avuto una piccolissima e quasi irrilevante sconfitta tattica, ma che restano sempre vivi ed attivi come teorici estremisti del messianesimo imperiale USA. Pensiamo al ridicolo Marcello Pera, che sostiene una islamofobia aggressiva.             Pensiamo ad un gaglioffo francese della scuola dei “nuovi filosofi” (Pascal Bruckner), che incita gli occidentali a congedarsi dal “singhiozzo dell’uomo bianco” (sic!), a smetterla di continuare ad agitare il vecchio mito del “buon selvaggio” della tradizione illuministica, ed a proclamare arrogantemente la propria superiorità. Il Politicamente Corretto è una forma ingentilita ed ipocrita di questo occidentalismo, una forma soft che ritiene sia più spendibile nello spazio della globalizzazione di quanto sia la forma hard. E tuttavia non bisogna farsi illusioni: la forma hard dell’occidentalismo neoconservatore e islamofobo (l’islamofobia è la successione diretta dei vecchi antifascismo e anticomunismo) si differenzia tatticamente dalla forma soft del politicamente corretto, ma si tratta di una differenziazione puramente tattica che non riguarda la finalità strategica, e cioè l’affermazione dell’occidentalismo nel mondo.      In terzo luogo, per finire, c’è la posizione che vorrei riuscire a sostenere credibilmente non solo in questo capitolo, ma nell’intero saggio, e che definirò come compresenza contraddittoria della consapevolezza di essere interni, da un lato, ad una forma critica di occidentalismo, e di voler mantenere, dall’altro lato, una prospettiva filosofica ed un orizzonte politico di universalismo. E’ questo e solo questo, ovviamente, il comunitarismo che mi interessa. Se dico che mi interessa (al singolare) e non che ci interessa (al plurale), non è certo per solipsismo, individualismo o disprezzo verso gli altri. Al contrario. Dico mi, e non ci, perché non sono affatto sicuro che quanto io penso sia patrimonio anche di altri. Per più di quaranta anni mi sono non solo dichiarato ma anche pensato interiormente come “comunista”, dando per scontato che tutti gli altri che si dichiaravano tali avessero in mente le stesse cose che avevo in mente io. La realtà concreta mi ha disingannato. Coloro che ritenevo   miei “compagni” hanno accolto con gioia oscena e malcelata il crollo del comunismo storico novecentesco, hanno sostenuto il colpo di stato giudiziario extraparlamentare kafkianamente battezzato “mani pulite”, hanno bombardato la Jugoslavia sulla base di un genocidio inesistente confezionato a tavolino, e soprattutto hanno aderito ad un profilo culturale dissolutivo ed ultraindividualistico di cui parlerò più avanti.        Per questa ragione dico mi, e non ci. Il mi è una relativa sicurezza. Il ci una speranza razionale, non ancora una sicurezza.

4- L’autocritica dell’occidente deve quindi presupporre il fatto che se chi la fa è un “figlio critico” dell’occidente stesso non può essere sufficiente la pia e virtuosa affermazione di averlo rifiutato. Il rifiuto dell’occidente è soltanto l’altra faccia dialettica della sua oscena apologia imperialistica . L’occidentalismo non si supera attraverso la sua semplice virtuosa negazione. L’occidentalismo si elabora, e si elabora nella forma dialettica che ci ha consegnato il metodo di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito ed il contenuto critico di Marx nel Capitale.                                                          I sacrifici umani degli aztechi, il rogo delle vedove permesso da alcune varianti dell’induismo, le elaborate torture cinesi, l’etica nobiliare dei samurai giapponesi, eccetera, non sono per nulla migliori degli aspetti peggiori della tradizione occidentale, dai macelli dei giochi gladiatori romani ai roghi della Santa Inquisizione. Per questa ragione bisogna evitare sia l’oscena riproposizione Pera-Bruckner della superiorità occidentalistica sia l’interminabile lamento autocritico. Apologia e pentimento sono entrambi aspetti non dialettici di un atteggiamento fuorviante. Bisogna infatti essere ben coscienti di due cose, e cioè, primo, che siamo comunque interni alla tradizione occidentale, e secondo che ci collochiamo in forma radicale ed estrema nella sua variante autocritica.

E’ per questa ragione che non possiamo fare a meno della categoria filosofica di genere umano (Gattungswesen, Gemeinwesen), e che la rivendichiamo apertamente. Senza questa rivendicazione – lo dico subito con tutta la solennità necessaria – è inutile richiamarsi al comunitarismo, perché finiremmo necessariamente in una forma di occidentalismo chiamato “comunitarismo”, o in una inutile riproposizione di “comunitarismi” organicistici e tradizionalistici di destra e/o di sinistra. Sulla base di questa consapevolezza possiamo proseguire la discussione.

5– Ho preso a prestito il termine “tribù occidentale” dal saggio del filosofo italiano Rino Genovese (cfr. La tribù occidentale, Bollate Boringhieri, Torino 1995). Il saggio è modestissimo, ed è interessante soltanto perché è assolutamente “tipico” del nuovo codice unificato degli intellettuali della “tribù universitaria occidentale”. E’ Bene capirne appunto il “codice” che una volta clonato viene poi riprodotto in milioni di copie in questa tribù universitaria stessa.

Da un lato, questo codice prende atto correttamente del fatto che persino il modello illuministico di ragione, che gli illuministi stessi in falsa coscienza necessaria “borghese” ritenevano assolutamente universale ed universalizzabile, era semplicemente il frutto della secolarizzazione di una pretesa di universalità precedente, quella del monoteismo cristiano, che in comune con l’illuminismo ha appunto la rimozione sistematica della propria genesi storica particolare. In questo senso – per usare il lessico di Genovese – il codice illuministico (da cui Genovese fa derivare i posteriori idealismo, positivismo e marxismo) è frutto di una evoluzione della tribù occidentale, e non certo dell’umanità in generale. Su questo punto Genovese non dice peraltro nulla che non sia stato già detto, e mille volte meglio, da Nietzsche e dalla scuola di Francoforte.

Dall’altro , Genovese trae da questa analisi una conclusione relativistica, per cui la presa d’atto del carattere tribale- occidentalistico, e non universalistico, dell’intero pensiero occidentale, lo porta a  sostenere una sorta di “scetticismo liberale” (il termine è del capotribù di tutti costoro, e cioè Richard Rorty), per cui alla fine Genovese, dopo aver finto uno smarcamento tattico dalla “tribù occidentale”, ne confluisce all’interno in modo strategico, perché oggi appunto lo scetticismo liberale è diventato il codice d’accesso privilegiato alla Kultura (con il kappa) della tribù liberale stessa.

Il rovesciamento dell’assolutismo veritativo nello scetticismo relativistico e nichilistico, apparentemente incomprensibile, è in realtà un segreto di pulcinella per chi intende utilizzare il metodo di spiegazione dialettica, per cui una determinazione storica va sempre oltre se stessa, e si rovescia spesso nel suo (apparente) opposto. L’occidente, se vogliamo chiamarlo così, ha conosciuto storicamente prima una forma di società prevalentemente schiavista e poi una società prevalentemente feudale. In entrambi questi tipi di società prevaleva necessariamente un uso ideologico di una sorta di assolutismo veritativo (più esattamente, pseudo-veritativo), necessario ad una legittimazione politica di una società  in cui il dominio puro del valore di scambio era ancora limitato dalla strutturazione castale della società e soprattutto dalla permanenza di comunità, sia pure subalterne ed incorporate nella struttura piramidal della società. Certo questa “verità” era soltanto ideologica, e non aveva nulla a che fare con quelle che potremo chiamare le verità religiose, filosofiche o scientifiche. Si trattava soltanto di pseudo-verità ideologiche di legittimazione classista. E tuttavia, con l’avvento della produzione capitalistica di mercato, questa legittimazione pseudo-veritativa viene meno, e subentra una nuova legittimazione unicamente “performativa” (su questo punto Lyotard coglie un punto reale del problema), basata sull’estensione del puro valore di scambio. Ma il valore di scambio è per sua stessa natura assiologicamente neutrale, perché dipende soltanto dal differenziato potere d’acquisto. Ed il potere d’acquisto puro non ha alcun bisogno di una fondazione filosofica, per cui la parte più stupida di una categoria già di per se molto stupida come quella degli intellettuali  universitari può alzare al cielo gridolini di soddisfazione per la fine della metafisica e della fondazione del sapere. Ma il sapere senza fondamenti è unicamente il sapere della riproduzione della società del valore di scambio, che è appunto per definizione analitica una “società” senza fondamenti.

E’ questa la ragione per cui il codice preferito delle oligarchie al potere è quello sostenuto dallo sprovveduto Genovese. Da un lato, il sostenere che l’occidente è soltanto una tribù fra le tante favorisce l’estensione del mercato capitalistico puro al Medio Oriente, all’Africa, all’India ed alla Cina. Dall’altro, la conclusione di questo bilancio con la presa d’atto dello scetticismo liberale (se possibile direttamente anglofono per evitare i noiosi costi di traduzione) permette di liberarci del fastidioso e inquietante problema della verità dei rapporti sociali attuali. Se infatti vogliamo connotare questi rapporti sociali come falsi, ingiusti ed alienati, dobbiamo necessariamente rimandare ad un concetto di verità che ci consenta di connotarli come tali, ed è esattamente questo che il circo intellettuale oggi non può consentire in nessun modo. Ne risulta che il cosiddetto scetticismo liberale non è oggi soltanto una delle tante posizioni presenti nel circo pluralistico della filosofia universitaria globalizzata mondiale, ma è il codice di riferimento prevalente della fondazione ideologica contemporanea. Certo, esiste anche un codice di guerra di riserva assolutamente secondario, il codice islamofobico Magdi Allam-Oriana Fallaci-Pascal Bruckner, ma si tratta pur sempre di un codice di riserva in momenti di guerra guerreggiata per conto dell’impero USA e del suo sacerdozio sionista. In questo caso, gli intellettuali indossano le due principali divise interventiste, quella dei corpi militari e quella delle ONG (Organizzazioni non governative), e quella dei bombardamenti contro i terroristi e quella degli aiuti umanitari alle vittime dei bombardamenti stessi.

Ma qui siamo appunto già dentro alla tana dei serpenti velenosi dell’occidentalismo militare.

6- Non è qui ovviamente possibile per ragioni di spazio ripercorrere la formazione del codice identitario della tribù occidentale, anche perché in questa formazione storica prevalgono le rotture qualitative sulla presunta continuità. Fra il mondo greco e quello romano, ad esempio, vi è una rottura fortissima, quasi sempre variante esorcizzata dai sostenitori della cosiddetta “continuità” della civiltà occidentale. La stessa rottura fra l’ellenismo cristiano e la civiltà musulmana grazie alle conquiste arabe del VII e VIII secolo è per molti aspetti minore della rottura fra il mondo bizantino e il mondo carolingio, e la divisione fra cattolicesimo ed ortodossia non è altro che l’irrilevante sanzione tecnologica di due modi alternativi di vivere e di pensare. Il comunitarismo greco, infatti, si conservò nel successivo mondo bizantino e musulmano molto di più di quanto questo sia avvenuto nell’occidente latino. Ma qui entreremmo in un ambito culturale che so per decennale esperienza del tutto ignoto all’italiano medio, sia pure apparentemente “coltissimo”, per cui lascio cadere l’argomento per non annoiare il lettore, avvertendolo comunque che più di “tribù occidentale” bisognerebbe parlare di “tribù carolingia”. Per esprimermi in modo (solo apparentemente) paradossale, la grande tradizione dell’ellenismo antico è passata molto di più al successivo mondo arabo ed islamico di quanto sia passata all’individualismo feudale europeo. Negli ultimi duecento anni assistiamo ad una sostanziale vittoria del codice individualistico anglosassone (prima inglese e poi statunitense) sui due codici “fratelli nemici” francese e tedesco. L’Italia è un paese del tutto irrilevante a partire dal seicento europeo, ed il suo contributo al profilo europeo-occidentale non è stato superiore a quello di paesi come la Danimarca, il Portogallo o l’Ungheria. In una storia della costituzione del profilo occidentalistico dell’Europa i soli paesi che abbiano contato qualcosa sono stato l’Inghilterra, la Francia e la Germania, e tutto il resto è stato marginale, anche se a volte pittoresco ed interessante.

La Francia ha fatto una vera rivoluzione sociale contro l’assolutismo signorile, ed ha poi vissuto nell’ottocento almeno tre rivoluzioni a sfondo politico (1830, 1848 e 1871), per cui uno dei problemi del capitalismo globale è sempre stato quello di far finire l’”eccezione francese”, che è iniziata nel 1789 ed ha trovato l’ultima sua maestosa espressione nel generale Charles de Gaulle. Eccezione francese significa soprattutto sovranità nazionale e legittimazione della rivoluzione sociale, per cui la fine dell’eccezione francese ha sempre significato delegittimazione della sovranità nazionale e delegittimazione del diritto del popolo alla rivoluzione. Non è allora un caso che la cultura anglosassone sia sempre stata ferocemente antifrancese, insistendo sul fatto che la nazione è solo un inesistente “comunità immaginaria” inventata da poeti e letterati, e che la rivoluzione non è altro che un’utopia astratta che si rovescia necessariamente in dispotismo totalitario. I capitalisti hanno investito grandi speranze nel giullare mediatico Sarkozy per far finire l’eccezione francese, anche con l’aiuto della “quinta colonna” dei rinnegati locali         (Glocksmann, Furet, eccetera), ma personalmente non dichiarerei troppo presto la vittoria dei malvagi. Per tutti coloro che conservano un minimo di dignità culturale, la tradizione francese e la lingua francese sono la loro tradizione e la loro lingua. Questo, almeno, vale per me e per il mio profilo identitario. Io appartengo alla (forse) ultima generazione che ha due patrie, la propria e la Francia.

La Germania ha sempre conservato una cultura comunitaria e non del tutto individualistica, ed è questo che spiega il perché sia stata sempre stata definita una nazione “filosofica”. Filosofia, infatti, significa in questo caso elaborazione del rapporto fra il singolo e la comunità. Purtroppo questo rapporto, pensato in modo corretto dai tre grandi idealisti Fichte, Hegel e Marx (spero che al lettore non sia sfuggito questo voluto anche se scandaloso accostamento), si è mortalmente ammalato prima con Guglielmo II e poi con Hitler. Imperialismo e razzismo sono infatti patologie mortali del comunitarismo, e dopo il 1945 la Germania è stata “messa sotto tutela” non solo sul piano militare, ma soprattutto sul piano ideale, in modo che cessasse per sempre di essere un’alternativa politica potenziale all’individualismo anglosassone (indipendentemente dal fatto che lo potesse essere in modo semifeudale, socialdemocratico, comunista o nazionalsocialista).

7- La provvisoria vittoria darwiniana del modello anglosassone sui modelli politico-rivoluzionario francese e comunitario tedesco, sancito militarmente dagli esiti delle due guerre 1914-1918 e 1939-1945, può essere definita come una vittoria del rovesciamento del monoteismo in individualismo, o se si vuole del monoteismo messianico della elezione divina in santificazione idolatrica dell’individuo assoluto. Essa ha comportato la doppia delegittimazione del modello rivoluzionario francese e del modello comunitario tedesco, ma questo è avvenuto per severe ragioni strutturali, che la teoria di Marx permette di comprendere.      In breve, le esigenze sistemiche di riproduzione del capitalismo assoluto, postfascista e postcomunista, postborghese e postproletario, comportano sul piano sovrastrutturale delle ideologie e della triplice organizzazione degli intellettuali (ceto politico, circo mediatico, clero universitario) il primato del profilo individualistico anglosassone sui modelli politico-rivoluzionario francese e comunitario-nazionale tedesco. In proposito, la vittoria del modello anglosassone su quelli francese e tedesco deve essere indagata sotto due distinti punti di vista, uno storico-strutturale ed uno ideologico-sovrastrutturale. Dal punto di vista storico, l’impero inglese si è costituito con tre vittorie strategiche consecutive, prima contro l’impero spagnolo (a partire da sir Francis Drake fino alla guerra di successione spagnola del 1700-1713), poi contro l’impero francese (dalla guerra dei sette anni 1755-1763 fino alla sconfitta definitiva di Napoleone I nel 1815), ed infine contro l’impero tedesco (grande guerra 1914-1918). Chi vince in modo così evidente sui campi di battaglia vince inevitabilmente anche sul terreno delle ideologie         (in breve: empirismo scettico inglese contro razionalismo francese e idealismo tedesco). In più, l’impero inglese, vincitore tattico e perdente strategico nel 1945, ha consegnato il “testimone” all’impero americano su basi culturali e politiche abbastanza affini. Dal punto di vista culturale, il profilo ideologico anglosassone (Hobbes + Locke + Hume + Smith + Ricardo + Mill) è il solo che possa promuovere in modo rigoroso il primato dell’economia sulla politica, o più esattamente dell’autofondazione dell’economia crematistica su se stessa, laddove il modello francese legittima indirettamente la possibilità di una rivoluzione sociale ed il modello tedesco legittima indirettamente la fondazione comunitaria dell’economia. Il profilo occidentalistico attuale risulta quindi da una provvisoria vittoria darwiniana del modello inglese sui modelli francese e tedesco, di cui il modello russo-comunista del periodo       1917-1991 è soltanto una variante originale, come del resto aveva intuito anche Lenin (politica rivoluzionaria francese + filosofia classica tedesca interpretata dialetticamente).

8- La vittoria del profilo anglosassone su quelli francese e tedesco influenza anche direttamente l’attuale bilancio storico del novecento prevalente nel clero universitario-mediatico, e cioè l’immagine del novecento come secolo delle utopie sanguinose e delle ideologie assassine. Sono pochissimi i pensatori accademicamente riconosciuti che osano andare apertamente contro questo andazzo controrivoluzionario,  e fra essi si distingue il francese Alain Badiou (cfr. Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006). E’ ovvio che tutte le oligarchie dominanti (e noi oggi siamo dominati da una delle più feroci e crudeli, l’oligarchia capitalistico-finanziaria transnazionale) devono prima di tutto dominare sul presente e presentare il loro presente comu unico futuro possibile e praticabile, ma devono anche dominare simbolicamente sul passato, ricostruendo selettivamente il passato in modo da scegliere che cosa demonizzare e che cosa salvare e giustificare. Ciò avviene ovviamente in molti modi. L’epoca del più feroce e bestiale colonialismo viene presentata come belle époque, un’epoca che fu effettivamente molto bella per la grande borghesia capitalistica. Il colonialismo è anche presentato come tappa necessaria del progresso della civiltà. Ma è sui due temi della prima e seconda guerra mondiale, da un lato, e sul bilancio complessivo del novecento, dall’altro, che la visione manipolata del passato celebra i suoi più osceni trionfi.

9- La grande guerra fu un macello imperialistico imperdonabile, e fu vinta dallo schieramento relativamente peggiore. Il parametro essenziale per giustificare questo impegnativo giudizio è a mio avviso la distruzione di due grandi e sostanzialmente benemeriti imperi multinazionali, l’impero austro-ungarico e l’impero ottomano. Entrambi avevano ovviamente bisogno di radicali riforme in senso democratico, dal momento che nel primo dominavano esclusivamente le etnie tedesca ed ungherese e nel secondo di fatto dominava politicamente e militarmente soltanto l’etnia turca. In entrambi i casi, tuttavia, era del tutto possibile un’evoluzione federalistica di tipo democratico, sia a Vienna che a Costantinopoli. I banditi dell’intesa, con il supporto finale del fanatico protestante Wilson, crearono due infami crateri nell’Europa Centrale e nel Medio Oriente, destinati a suscitare i due orrori paralleli dello hitlerismo in Europa Centrale e del sionismo in Medio Oriente. La vulgata attuale sostiene che la colpa fu degli stati nazionali e del loro patriottismo sciovinistico. Menzogna. La colpa fu del buon vecchio imperialismo, e su questo punto la lettura di Lenin resta insuperata. E’ questa una delle ragioni per cui Marx viene talvolta ancora distrattamente omaggiato come classico universitario, mentre Lenin è demonizzato come barbetta asiatica mefistofelica. Come si vede, persino per un avvenimento di quasi cento anni fa ormai esiste la necessità di una sfacciata manipolazione post festum.

10- La seconda guerra mondiale 1939-1945 non è mai esistita se non come ricostruzione ideologica manipolata post festum.                                      In realtà, la cosiddetta seconda guerra mondiale è costituita da tre diverse guerre parzialmente sovrapposte, distinte in senso politico, ideologico e geopolitico. La prima guerra è quella che si svolse fra il 1939 ed il 1941 fra Germania ed Italia contro Francia ed Inghilterra. Si tratta di una guerra territoriale di vecchio tipo, ed è a tutti gli effetti soltanto un episodio terminale di rivincita della grande guerra 1914-1918. Certo, ci vanno di mezzo anche stati minori (Polonia, Grecia, Jugoslavia, Olanda, Norvegia, eccetera), ma ci vanno di mezzo sempre su basi territoriali-strategiche e non primariamente ideologiche. Churchill non è affatto migliore di Mussolini e di Hitler. Gandhi si compiace apertamente della vittoria di Hitler sulla Francia(?). Si tratta di una rivincita postuma dell’impero tedesco contro quello inglese. Mussolini, con la tipica stupidità dilettantesca italiana, fa un azzardo pokeristico che poi pagherà con l’essere appeso per i piedi fra gli sputi della plebaglia.

La seconda guerra è quella che si svolge fra il 1941 ed il 1945 fra la Germania hitleriana e la Russia staliniana. Si tratta di una guerra ideologica a tutti gli effetti (cosa che la prima non era stata), ed anzi di una doppia guerra ideologica, la guerra razziale fra germanesimo e slavismo (di cui è unico responsabile Hitler, mentre Stalin si difende con pieno diritto), e la guerra politica fra nazionalsocialismo e comunismo, da cui poi nascono tutti i movimenti partigiani europei, in cui dominano ovviamente i comunisti (Italia, Grecia, meno Francia e Polonia, eccetera).   Hitler alla fine ha avuto quello che si era meritato con l’aggressione del 1941 e con il modo razzistico con cui l’aveva condotta, mentre la Germania paga un prezzo oscenamente ingiusto e criminale con l’”asportazione” mongolica ed assiro-babilonese di Prussia Orientale, Slesia e Pomerania.                  La terza guerra, l’unica delle tre che  alla fine ha avuto veramente un esito storico-strategico, è stata la doppia guerra condotta dagli USA contro la Germania ed il Giappone fra il 1941 ed il 1945. Si tratta della guerra di fondazione dell’impero americano, l’equivalente della vittoria strategica di Roma contro Cartagine nelle guerre puniche. I bombardamenti del 1945 contro Dresda, Hiroshima e Nagasaki, l’espulsione di più di dieci milioni di tedeschi da terre che abitavano da più di un millennio, la morte pianificata per fame di milioni di prigionieri tedeschi arresisi, eccetera, dimostrano che in nessun modo i vincitori erano moralmente migliori dei vinti. In ogni caso, da più di sessant’anni l’Europa ed il Giappone sono occupati da basi nucleari americane, e questo solo fatto parla da solo sul bilancio della terza variante della seconda guerra mondiale.                       Tutto questo, ovviamente, non è in alcun modo una contorta e sofistica giustificazione di Hitler, Mussolini e dei loro alleati ungheresi e romeni. Al contrario. E’ semplicemente un ristabilimento elementare di alcune ovvietà storiche che la corporazione ideologica degli storici contemporanei ha contribuito a nascondere per mezzo secolo.

11- Più in generale, il Novecento (maiuscolo) è oggi fatto oggetto di demonizzazione, esorcizzazione e diffamazione per un fatto semplice ed elementare, che non è neppure difficile diagnosticare. Il novecento ha infatti visto un tentativo, purtroppo fallito, di ristabilire il primato della politica sull’economia, in forme ovviamente diverse e certamente non tutte moralmente legittime. Il primo e maggiore tentativo di ristabilire il primato della politica sull’economia, o più esattamente della decisione politica sulla autonomizzazione cannibalica dell’economia svincolata da ogni controllo politico reale, è stato il mai abbastanza rimpianto e lodato comunismo storico veramente esistito 1917-1991, la cui legittimazione non deve essere scolasticamente ricercata nella “lettera” di Marx (chi volesse farlo non la troverà mai), ma nella nuova situazione apertasi con il macello imperialistico del 1914. Il secondo è invece stato l’imperdonabile fenomeno del fascismo e del nazionalsocialismo, che definisco “imperdonabile” per la sua base colonialistica (Mussolini) e razzistica (Hitler). Inoltre, è noto che ci furono parecchi genocidi (i più noti furono quelli degli ebrei e degli zingari, per nulla nuovi ed inediti perché era già avvenuto in precedenza il genocidio del popolo armeno), che è impossibile giustificare neppure nella forma contorta della cosiddetta “contestualizzazione”. Se Hitler fosse stato solo un patriota tedesco lo si sarebbe potuto salvare o giustificare in qualche modo. I suoi progetti sterministici verso slavi ed ebrei non possono invece in alcun modo essere giustificati. Si hanno poi altri benemeriti tentativi di sottoporre l’economia al primato della politica, dal cosiddetto benefico e mai abbastanza lodato populismo terzomondista (l’argentino Peron, il brasiliano Vargas, l’egiziano Nasser, l’iracheno Saddam Hussein, eccetera) fino alla socialdemocrazia fiscale e redistributiva scandinava, oggi sciaguratamente risucchiata nel neoliberismo e nella teologia assassina dei cosiddetti “diritti umani”. E potremmo continuare. Ed è appunto questo che il concerto mediatico-universitario deve riuscire ad esorcizzare del Novecento. Non è allora un caso che al concerto neoliberale apertamente capitalistico si uniscano le sfiatate trombette della cosiddetta “sinistra”, un cui delirante esponente ha ricostruito il novecento come secolo del fordismo spersonalizzatore in cui il comunismo è definito in termini di applicazione del fordismo alla politica. Marx ha ragione: la tragedia trova sempre il modo di ripresentarsi come farsa.

12- Tutto questo configura la presente cultura del Politicamente Corretto come nuova forma dell’egemonia ideologica dell’attuale neoliberismo imperialista globalizzato. Bisogna però distinguere due tipi di Politicamente Corretto. Esiste un Politicamente Corretto linguistico-cerimoniale, che è una sorta di neo-lingua (l’orwelliana newspeak) della comunicazione sociale diffusa. Esiste poi un secondo tipo di Politicamente Corretto di tipo ideologico-culturale, di cui mi limiterò ad esaminare sommariamente sei dimensioni soprattutto italiane (internità all’occidentalismo americano imperiale, criminalizzazione del comunismo storico novecentesco come demoniaca leggenda nera, eternizzazione dell’antifascismo in assenza palese e conclamata di fascismo, religione olocaustica come sostituzione delle precedenti religioni monoteistiche tradizionali, teologia interventistica dei diritti umani come arma immediata di guerra, riduzione del conflitto politico a polarità idraulica di vasi comunicanti Destra/Sinistra come protesi di manipolazione politologica). Con questo, siamo appena all’inizio di una analisi veramente seria ed approfondita del codice ideologico dominante oggi. Bisogna però accontentarsi, perché le mie osservazioni sono ancora largamente introduttive. Quando la decifrazione di questo codice di manipolazione si sarà generalizzata, si saranno messe le prime basi per un pensiero politico di opposizione all’altezza dei conflitti presenti, e non quelli di cinquanta, cento o duecento anni fa. Simulare un conflitto i cui parametri storico-ideologici non sono più attuali non è infatti un segno di idiozia, ma è al contrario un gesto di raffinata astuzia, perché mentre gli imbecilli continuano ad impersonare ruoli completamente superati i “padroni del vapore” possono svolgere meglio le loro sporche manipolazioni.

13- Per comprendere le dinamiche strutturali della cultura americana non è molto utile la nota dicotomia marxiana fra Borghesi e Proletari, che in questa forma connota soltanto l’elemento economico ed economicistico della divisione fra proprietari privati dei mezzi di produzione e portatori astratti della propria forza lavoro da scambiare in modo ineguale con il capitale, secondo il modello del tutto astratto del primo libro del Capitale di Marx (1867). Forse è più utile rispolverare la vecchia dicotomia fra Patrizi e Plebei, non solo per l’incantesimo dell’analogia con il mondo antico, ma perché in uno schema politico imperiale la classe dominante diventa una sorta di patriziato e l’insieme delle classi dominate (ma parzialmente coinvolte nel godimento dei frutti del dominio imperiale) diventa una sorta di plebe.                                                                              La cultura patrizia americana è influenzata dai modelli europei almeno fino ai primi decenni del novecento. I patrizi americani si affermano soprattutto nelle città della costa occidentale (Boston, Baltimora, Filadelfia, New York, eccetera), fanno viaggi d’istruzione in Europa, imparano il francese e il tedesco, e in generale riconoscono all’Europa una sorta di primogenitura culturale, un po’ come i ricchi romani con il mondo ellenistico e la lingua greca. Questo patriziato di vecchio tipo è sostituito nella seconda metà del novecento da un arrogante patriziato apertamente e quasi oscenamente imperiale, che ostenta la sua ignoranza delle lingue straniere, biascica solo qualche parola di spagnolo per dare ordini ai propri autisti e alle proprie cameriere. In ogni caso, questo patriziato ha imparato da tempo a controllare il proprio linguaggio, ed a fingere rassegnazione se per caso la propria figlia intende sposare un negro (oh, pardon, un nero), come nell’emblematico film Indovina chi viene a cena? La cultura plebea americana vive di stereotipi razzisti e maschilisti ostentati senza vergogna: i neri sono negri, gli ebrei sono usurai, le ragazze-madri sono puttane, gli omosessuali sono froci, gli italiani sono mafiosi, i messicani sono bandoleros pigroni che non fanno niente se non riposarsi al sole, gli indiani sono scotennatori selvaggi, eccetera. Rilevo questo senza nessuna condanna moralistica. Sradicati dal loro contesto europeo, africano ed asiatico, gli immigrati conservano soltanto residui pittoreschi di culture tribali a base soprattutto religiosa, e vengono risocializzati come plebe sciovinista, maschilista, antisemita (tolto gli ebrei, ovviamente) ed omofobica.                                                            Tutto questo cessa intorno al ventennio 1960-1980, in cui la parte progressista del patriziato americano decide di lanciare un movimento di rettificazione linguistica e comunicativa che verrà poi chiamato Politicamente Corretto. Cerchiamo di studiarne le dinamiche strutturali in quattro distinti momenti.

14- E’ bene in proposito non lasciare equivoci di sorte. Il canone linguistico politicamente corretto, in quanto pressione sociale di interdizione della volgarità nella comunicazione, è un fatto positivo da un punto di vista umanistico generale, se lo interpretiamo appunto come momento di una unificazione ideale del genere umano. Chiamare spregiativamente gli omosessuali froci oppure i neri negri, e connotare i gruppi sociali minoritari con epiteti sprezzanti (italiani mafiosi, ebrei usurai, eccetera) è un male e non un bene, anche e soprattutto se tutto questo proviene dal “basso”, e cioè dalla plebe dominata dal patriziato progressista wasp (bianco, anglosassone e protestante). Si ha qui un tipico esempio della differenza filosofica fra genesi (Genesis) e validità (Geltung). Come ha a suo tempo mostrato Michel Foucault (cfr. Sorvegliare e Punire) la tortura e l’erogazione della pena di morte fra i più atroci tormenti (pensiamo al caso Damiens del 1758) furono progressivamente abolite non certo perché le classi dominanti fossero diventate più umane e “buone” (in realtà erano sempre carogne come e più di prima), ma perché alla forma di terrorizzamento dei dominati tramite scarnificazioni dei corpi, tipiche di un dominio ancora esterno alla produzione lavorativa, stavano subentrando nuove forme di sfruttamento “borghese” interne ai processi produttivi, che non richiedevano più squartamenti di corpi in quattro pezzi. E tuttavia, anche se tutto questo viene dall’alto e non certo dal basso, l’abolizione degli squartamenti pubblici è comunque un bene, perché qui non abbiamo a che fare solo con i prodromi dello scontro fra borghesi e proletari, ma siamo di fronte ad un problema genericamente umano, il superamento cioè dello squartamento pubblico del condannato a morte. I negatori sciocchi della categoria di Umanesimo avrebbero qui una buona ragione per riflettere, ma so bene che questo è impossibile, perché mi è nota la loro tracotanza positivistica. Non tutto, infatti, è riducibile allo scontro di soggettività come “maschere di carattere” (Charaktermasken, nel lessico di Marx), oppure di portatori astratti di ruoli sociali. Smettere di etichettare con disprezzo i neri e gli omosessuali segnala, indipendentemente dal portatore dell’iniziativa, un miglioramento in quella storia ideale eterna che è il rapporto etico fra particolarità ed universalità. E tuttavia, non è solo questo l’unico aspetto della questione.

15- Sarebbe ovviamente errato pensare che il Politicamente Corretto sia stato soltanto una sorta di autocritica spontanea degli elementi negativi della tradizione occidentale concessa con liberalità dalla parte più progressista del patriziato liberal. Questo patriziato ha semplicemente accolto spinte provenienti dal basso, e cioè da forme di auto-organizzazione apertamente politiche. In proposito, distinguerò quattro forme di auto-organizzazione, in ordine i neri, gli ebrei, gli omosessuali e le donne, le cui logiche di sviluppo devono essere tenute accuratamente distinte.          Per quanto riguarda i neri, è noto che la guerra civile americana 1861-1865 portò all’abolizione formale della schiavitù, ma mantenne il razzismo come elemento culturale strutturale della società americana, che ancora oggi respinge i matrimoni misti assai più di quanto questo avvenga in società con forte presenza di bianchi e di neri (Francia, Inghilterra, Cuba, Brasile, Colombia, ecc…ecc..). Movimenti di emancipazione dei neri costellano tutta la storia americana dalla fine dell’ottocento, ma il loro sostanziale insuccesso è dimostrato dal fatto che ancora nella guerra 1941-1945 vi erano forme di segregazione razziale persino nell’esercito. Veri e propri movimenti neri di massa non appaiono prima degli anni sessanta (Martin Luther King), ma da allora in poi una certa emancipazione nera dal razzismo precedente appare visibile. In una struttura imperiale di capitalismo assoluto e senza freni, ovviamente, questa emancipazione non può avvenire se non nella forma di creazione di oligarchie nere di ricchi (Obama, eccetera), e questo processo è ad esempio particolarmente chiaro e scandaloso nel Sudafrica del dopo apartheid. Nulla di strano. Il capitalismo non libera le etnie ed i popoli oppressi, ma ne coopta le élites nel suo meccanismo riproduttivo, come per altro avvenne già nell’impero romano, nell’impero spagnolo e poi nell’impero inglese. Per quanto riguarda gli ebrei, essi in America avevano sempre avuto posizioni di potere nell’alta finanza e nell’industri ideologica del divertimento organizzato (Hollywood, eccetera). Dato che il codice religioso anglosassone da Enrico VIII in poi è sempre stato veterotestamentario, contrapposto al codice cattolico prevalentemente neotestamentario, protestantesimo ed ebraismo hanno sempre avuto lo stesso libro sacro, assolutamente “non buonista”. Un codice che sterminava i nemici senza pietà e che presupponeva un mandato divino dato ad un certo popolo. Questo ripugnante codice funzionava con gli Amaleciti ed i Filistei come con i Sioux ed i Cheyennes, e per questa ragione non c’erano le basi per un vero antisemitismo razziale ed ideologico di massa (come positiva, ovviamente). E tuttavia è esistito un virulento antisemitismo americano (pensiamo al capitalista automobilistico Ford), che tuttavia dopo il 945 appare delegittimato. La comunità ebraica americana ha dato agli USA grandi intellettuali universalisti e progressisti, oltre a gran parte delle benemerite e mai abbastanza lodate e rimpiante élites socialiste e comuniste. L’ancoraggio degli ebrei “a sinistra” venne meno progressivamente con l’affermazione del sionismo e dello stato colonialista e razzista di Israele dopo il 1948, e questo spostamento epocale della comunità ebraica (non di tutta, ovviamente, ma della stragrande maggioranza) da “sinistra” a “destra” è stato uno dei fattori storici più importanti forse non della storia in generale, ma certamente della storia occidentale contemporanea. Le élites sioniste non sono solo riuscite ad imporre ad una Europa rimbecillita la religione olocaustica della espiazione eterna del Male assoluto e imparagonabile, ma ad imporre di fatto l’equazione antisionismo=antisemitismo, dogma del moderno sacerdozio idolatrico occidentalistico. Vi sono ovviamente negli USA voci ebraiche universalistiche discordanti (Chomsky, Finkelstein, eccetera), che vengono diffamate dai sacerdoti del sionismo come “ebrei che odiano se stessi”. Questo comportamento osceno ovviamente sembra parzialmente rilegittimare a posteriori l’altrettanto osceno ed ingiustificabile antisemitismo di Hitler come testimonia il fiorire nella rete dei blog antisemiti. In linea generale, nell’occidente di oggi il patriziato è giudeofilo e la plebe è giudeofoba. Ma evidentemente i centri direzionali della comunità ebraica non se ne preoccupano, perché ritengono di essere riusciti a stabilire una alleanza di lunga durata con le oligarchie imperiali USA. Ed in effetti, per il momento, questa è la situazione, che gli consente di massacrare a ripetizione il popolo martire palestinese nell’osceno silenzio complice di tutta la baracca mediatico-universitaria occidentale.

Per quanto concerne gli omosessuali, essi hanno lottato e lottano per una causa incondizionatamente giusta, e cioè per la piena legittimazione della loro visibilità pubblica. Nella modernità, che è sempre stata una secolarizzazione superficialmente laica di un sottostante strato religioso cristiano, l’omosessualità è sempre stata considerata un “peccato contro natura”, e questo fa si che il pià noto intellettuale omosessuale italiano (Gianni Vattimo) sia impegnato in una polemica contro Joseph Ratzinger per negare lo stesso concetto di “natura umana”, in alleanza con la variopinta banda accademica degli antropologi, che in buona compagnia con il loro santo protettore, Joseph De Maistre, sostengono di aver incontrato i Pigmei, i Bororo ed i Boscimani, ma di non avere mai incontrato la “natura umana”. Questa lotta mi sembra assurda, in quanto sunteggio qui la mia posizione filosofica) io credo contemporaneamente che la natura umana esista, e che il comportamento omosessuale non sia affatto contro natura, perché la natura comporta il pluralismo di comportamenti sessuali intimi, sia una sostanziale unicità della storia del genere umano inteso come un unico soggetto trascendentale riflessivo (Kant, poi la sua correzione idealista di Hegel, ed infine la correzione comunista e comunitaria di Marx). Considero invece una vera e propria fastidiosa degenerazione narcisistica la spettacolare ostentazione del travestitismo dei vari Gay Pride, e respingo anche la cosiddetta equiparazione del costume fra gli “omo” e gli “etero”. I cosiddetti “etero” danno luogo alle coppie normali che riproducono la specie umana, che in caso contrario si estinguerebbe, ed alla stessa etica del rapporto omosessuale di coppia resta interamente legittimo e pubblico, senza bisogno di ridicoli “matrimoni”, e tuttavia con termini di “movimenti femminili” e di “movimenti femministi”. Che il sesso femminile sia stato sacrificato a partire dalla rivoluzione neolitica dei cacciatori, guerrieri ed agricoltori mi sembra storiograficamente innegabile. Che la civiltà umana si sia sviluppata (quasi) dovunque (con eccezioni matriarcali) in modo patriarcale mi sembra un dato innegabile. Che una “correzione” civile di questa caratteristica sia legittima ed auspicabile, mi sembra parimenti del tutto giusto e degno di appoggio. Per questa ragione il riorire di movimenti femminili organizzati, nati timidamente a fine settecento, sviluppatisi nell’ottocento, e giunti sostanzialmente alla vittoria nel novecento, mi sembra una delle maggiori conquiste del secolo. Chi parla di comunismo comunitario e poi conserva riserve mentali (che magari si vergogna di esplicitare in pubblico) sulla piena uguaglianza dei due sessi, farebbe meglio a rivolgersi ai (pur esistenti) movimenti tradizionalistici, non importa se a base cristiana o pagana (Evola, Guénon, eccetera). Come ha sempre rilevato correttamente Domenico Losurdo, il comunismo storico novecentesco ha sempre favorito l’emancipazione femminile, laddove invece i movimenti fascisti e nazionalsocialisti hanno imboccato la strada sbagliata della “divisione integrale del lavoro produttivo” fera i due sessi, la donna nel privato e l’uomo nel pubblico. E tuttavia non si tratta di benevolenza maschile. Ormai la donna non è più disposta a farsi ricacciare nel privato, e la sua forza organizzata impedirebbe comunque qualunque antistorico programma di restaurazione.

Altra cosa è il cosiddetto “femminismo”, che a mio avviso non fa parte dei movimenti femminili veri e propri. Non intendo affatto nascondere ipocritamente la fortissima antipatia culturale che provo verso questo fenomeno, antipatia fortunatamente condivisa da molte donne anagrafiche, e che i vertici intellettuali femministi (fortissimi nel clero universitario dei cosiddetti gender studies) cercano di diffamare in termini di “maschilismo” (con tattica analoga a quella usata dai sionisti, che trattano da antisemita gli antisionisti). Ma così come gli ebrei in se non sono necessariamente sionisti, nello stesso modo le donne in se non sono necessariamente femministe.

Non sono ovviamente in grado di definire adeguatamente il femminismo. Nei ceti patrizi superiori di “destra” si è trattato di un episodio di crisi della vecchia forma borghese patriarcale, quella marcata dall’ostentazione pubblica degli attributi sessuali (barbe e baffi per gli uomini, busti, stecche di balene soffocanti e culi in evidenza per le donne), e della connessa subordinazione femminile (madre, ma anche mantenuta e puttana di lusso). Nei ceti plebei inferiori di “sinistra” si è trattato di un movimento separatista volto ad interrompere la precedente solidarietà della lotta di classe socialista e comunista, che aveva visto sempre insieme uomini e donne. Solo la stupidità, fattore storico di importanza almeno eguale a quello delle forze produttive, ha divulgato l’idea che il femminismo sia un movimento di “sinistra”, laddove invece la sua logica porta inesorabilmente alla rottura della solidarietà fra i sessi, all’individualismo narcisistico, e soprattutto alla delegittimazione della famiglia. E tuttavia il femminismo, particolarmente nella forma del differenzialismo filosofico, rappresenta una forma culturale talmente antiumanistica, ed è talmente impregnato di elementi congiunturali degenerativi, da poterne ipotizzare una veloce decadenza. Se tiene ancora, tiene perché è sovrarappresentato nei ceti mediatici ed universitari. Quanto ho detto sarà sembrato ad alcuni razionale, ed ad altri sgradevole, bigotto e reazionario. E tuttavia, se si vuole gettare un sasso nello stagno, è impossibile impedire che si allarghino i cerchi nell’acqua.

16- Fra qualche decennio, o forse fra qualche secolo (se le cose andranno particolarmente male) sarà chiara la logica del movimento del Politicamente Corretto nel delicato passaggio fra il secondo e il terzo millennio,. Sarà anche possibile inserire questa logica nello schema provvidenzialistico hegelo-marxiano, per cui il capitalismo, pur nel contesto della promozione dei suoi luridi scopi oligarchici, contribuisce in un certo senso a “spazzare via” residui inaccettabili del passato. Riprendendo la teoria di Vico della eterogenesi dei fini nelle azioni soggettive dei comportamenti umani (teoria interamente accettata e sviluppata da Hegel e da Marx), questi movimenti politicamente corretti saranno inquadrati in un processo di allargamento della base sociale, economica, politica e culturale della produzione capitalistica. Essa ha avuto una genesi bianca, maschile, anglosassone, protestante, ma con la sua mondializzazione geografica e sociale non poteva tenere fuori a lungo le donne, i neri, gli indiani ed i cinesi. Il capitalismo, infatti, segue una logica dell’eguagliamento nella diseguaglianza, una logica che sarebbe di facilissimo apprendimento e di semplice comprensione se i modi di pensare di Hegel e di Marx fossero riusciti ad imporsi sulle astrazioni destoricizzate dell’empirismo di Locke, dello scetticismo utilitaristico di Hume, del criticismo di Kant, ed infine della mentalità antifilosofica positivistica. Da un lato, il capitalismo tende a ridurre tutta la ricca varietà dei sessi, dei popoli, delle nazioni e dei costumi religiosi ad un unico codice di accesso, il codice di accesso alla produzione (il lavoro astratto) e del consumo, e questo può essere definito un processo di eguagliamento. Dall’altro, questo processo di eguagliamento, che sarebbe forse meglio definire di astrattizzazione (il soggetto astratto di Cartesio, il lavoro astratto di Smith, l’Io astratto di Kant, eccetera) è il presupposto formale per un processo materiale di moltiplicazione della diseguaglianza dei redditi, dei consumi, del sapere e del potere. Donne, neri, omosessuali, popoli coloniali prima dominati in modo brutalmente razzista, eccetera, devono essere inseriti nella normale riproduzione capitalista. E così le donne prima diventano avvocati, medici ed ingegneri, e poi addirittura soldati nei corpi speciali delle aggressioni imperialiste fatte in nome dei diritti umani. I neri vengono anch’essi cooptati nel sistema, al punto che addirittura uno di loro diventa imperatore supremo del mondo (Obama 2008). Solo gli sciocchi vedono in questo una  vittoria della cosiddetta “sinistra”. Si tratta, al contrario, di un maestoso inserimento nella base sociale della riproduzione capitalistica di due sessi nuovi (le donne e gli omosessuali) e di razze nuove (i neri, i cinesi, eccetera). Le plebi bianche ringhiano e borbottano, perché sanno perfettamente che  tutto questo gli farà ridurre le fette già ridotte di torta che avevano fido ad ora avuto a disposizione. Ma le bastonate dei naziskin ai neri ed agli immigrati, e le svastiche nei cimiteri ebraici, oltre ad essere politicamente e moralmente inaccettabili, sono anche storicamente il segnale della rabbia impotente dei perdenti storici. Per adesso, contro ogni stupido ottimismo di chi vede la fine del capitalismo dietro a ogni passaggio di crisi, possiamo soltanto sobriamente constatare che con l’allargamento delle sue basi sociali, sessuali e razziali il capitalismo non si indebolisce, ma al contrario si rafforza.

17- Vi è infine un ultimo aspetto del Politicamente Corretto Verbale da prendere in considerazione, a mio avviso ancora più importante del precedente. Il Politicamente Corretto Verbale non è soltanto un meccanismo di interdizione delle volgarità plebee di tipo razzista, maschilista, omofobico, eccetera, ma è anche e soprattutto un meccanismo di occultamento radicale della realtà. Se la prima variante è una espressione sovrastrutturale dell’allargamento della base sociale attiva del capitalismo che integra nuovi soggetti prima esclusi nella sua riproduzione, la seconda varietà rivela una difficoltà di legittimazione sociale dei nuovi comportamenti capitalistici. Si ha qui una piena applicazione del famoso principio di Orwell della Nuova Lingua (newspeak), non però nella forma della lingua di legno burocratica di tipo staliniano (langue de bois), ma nella forma della derealizzazione del reale, interamente sostituito da una sua simulazione virtuale. Dal momento che la guerra è il fenomeno collettivo più importante che possa esistere (mentre per il singolo è la malattia grave e incurabile), è ovvio che il principio linguistico massimo e principalissimo del Politicamente Corretto consiste nel chiamare “pace” la guerra. Da più di dieci anni questa ipocrisia sociale ha invaso la lingua italiana, un tempo lingua lodata per la sua bellezza ed espressività, per cui l’aggressione alla Jugoslavia del 1999 e l’invio di truppe d’occupazione prima in Afganistan e poi in Irak sono sempre sistematicamente stati chiamati “missioni di pace”. Ciò però non sembra provocare reazioni sociali di massa, il che significa che la corruzione morale della popolazione è già giunta ad uno stadio molto alto, e che la situazione può essere descritta secondo una vignetta del disegnatore Altan: “ Il trucco c’è, si vede, e non gliene frega niente a nessuno”. Vorrei insistere molto su questa relativa novità corruttrice, perché gran parte della cultura filosofica mondiale è cresciuta sulla base del presupposto per cui esisteva un vasto potenziale di interesse individuale e sociale allo smascheramento dei trucchi e delle falsità. Se invece entriamo in un tipo di società dello spettacolo e della simulazione (Debord, Baudrillard, eccetera) per cui invece il trucco c’è , si vede ad occhio nudo, e ciononostante non gliene frega più niente a nessuno, allora effettivamente vengono erosi i fondamenti della stessa civiltà occidentale, che si è sempre considerata una civiltà della verità, e si è sempre fisiologicamente divisa sul differenziato accertamento della verità stessa. Battistrada in questa corruzione semantico-culturale è stato anche in questo caso il sionismo colonialista e razzista, che ha sempre definito “processo di pace” il passare del tempo necessario per colonizzare la Palestina occupata dopo il 1948 ed il 1967 con insediamenti progressivi di coloni assassini. Tutto questo è perfettamente noto non solo ai diplomatici ma anche alla feccia mediatico-universitaria, e tuttavia si continua a fingere che “il processo di pace” ci sia, e sia soltanto messo  in pericolo da generici “estremisti”. Si può dire che quando la menzogna diventa indifferente si sia di fronte ad una vera crisi di civiltà. Il rifiuto della realtà, una volta stabilito al vertice, e cioè nel rapporto di inversione fra Guerra e Pace, con la Guerra chiamata Pace (nel linguaggio dell’impero e dei suoi multicolori fantocci ONU e ONG si parla della guerra come peace keeping e della repressione degli insorgenti come peace enforcing), cade poi a cascata in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Il pesce, comunque, uzza sempre a partire dalla testa. Il capitalismo deve promuovere una sorta di beato ottimismo verso il futuro, legato al ciclo delle aspettative imprenditoriali di vendita dei prodotti, ed è per questo che la pubblicità fa leva su corpi giovani in perfetto stato di salute. Un recente esempio di rimozione della vecchiaia e della morte si è avuto in recenti comportamenti di Silvio Berlusconi, incarnazione quasi comica dello spirito del capitalismo assoluto ed incondizionato, che procede da un lato a continui lifting, e dall’altro si mostra interessato ed entusiasta a proposito di studi avveniristici che promettono di portare la vita umana media a 130 anni circa. La rimozione ospedalizzata della morte nel moderno capitalismo, che sostituisce il teatro della morte signorile e proto-borghese, segnala che la morte è ormai l’oscenità suprema, in quanto interrompe il consumo, per definizione illimitato, laddove gli organi genitali maschili e femminili tendono a perdere ogni carattere osceno, ed a diventare sempre più gadgets e soprattutto stimoli sensoriali al consumo ulteriore. E’ evidente, infatti, che la pubblicità è il Viagra del capitalismo.

La rimozione della guerra e della morte comporta ovviamente una cascata di rimozioni linguistiche ulteriori. I sordi diventano non udenti, i ciechi non vedenti, le cameriere collaboratrici domestiche, gli spazzini operatori ecologici, eccetera. Persino i disabili diventano diversamente abili. Le maestre vengono invitate a non usare più la matita rossa, considerata traumatizzante, e gli stessi voti, considerati traumatizzanti, vengono sostituiti ipocritamente con espressioni verbali generiche. Questa ipocrisia verbale socialmente organizzata è fatta raramente oggetto di studio antropologico-sociale serio. Da come la vedo io, si tratta di un processo di riduzione sociale ad una antropologia dell’”io minimo”, secondo la corretta definizione di Christopher Lasch, per cui l’io è fatto oggetto di continua invasività  psico-pedagogica, e gli si toglie addirittura l’ultima risorsa naturale di cui dispone, e cioè la spontaneità del linguaggio. Ma mi rendo conto che l’analisi è appena iniziata, ed i fondamenti di una indicibile barbarie antropologica sono appena stati posti. Chi è ancora giovane infuturo ne vedrà certamente delle belle.

18. Ho passato in rassegna finora soltanto il Politicamente Corretto Verbale cercando di analizzarlo in termini hegelo-marxiani come unità di emancipazione e di manipolazione, in cui però oggi l’elemento manipolativo prevale sul precedente, frutto della sinergia di movimenti di emancipazione dal b asso e di selezione patrizio-imperiale dall’alto.

Il Politicamente Corretto Culturale, di cui analizzerò ora il funzionamento sociale insieme con sei espressioni principali, è però ancora più importante del precedente. Si tratta di un codice d’accesso flessibile al profilo culturale dell’oligarchia capitalistica contemporanea, al di fuori del quale vi sono soltanto nicchie culturali tollerate solo perché del tutto impotenti socialmente, politicamente, e soprattutto militarmente. Il comunismo comunitario, ad esempio, è oggi soltanto una nicchia culturale, e per questo non viene militarmente represso, perché è inutile reprimere militarmente ciò che socialmente impotente a livello generale. Se diventasse pericoloso verrebbe certamente represso, in quanto a suo tempo Lenin scrisse che persino i teoremi della geometria verrebbero messi fuorilegge se per caso in qualche modo diventassero incompatibili con la riproduzione capitalistica, la quale (si veda il recente esempio cinese) può tranquillamente avvenire anche in presenza della cosiddetta (e pochissimo rilevante) limitazione della cosiddetta “liberta d’espressione”.

In linea generale, il capitalismo non ama forme rigide di repressione della libertà d’espressione, perché il sistema è rafforzato dalla flessibilità ed indebolito dalla rigidità. I sistemi politici del comunismo staliniano, del fascismo, del nazionalsocialismo e dei populismi carismatico-autoritari si basano sulla repressione diretta della cosiddetta libertà di espressione, ma questo è un sintomo di debolezza e non certo di forza. Un sistema di capitalismo maturo applica alla produzione di idee lo stesso principio della produzione di merci, e respinge ai margini del mercato le idee fastidiose in modo che possano soltanto essere “vendute” in ambiti merceologici di nicchia.

Il codice d’accesso di massa al profilo consentito avviene oggi attraverso le griglie selettive del Politicamente Corretto Culturale, che possiamo definire come l’attuale (e provvisorio) coronamento dell’occidentalismo, e cioè del profilo culturale della civiltà occidentale. Siamo appena all’inizio di un serio studio di questo codice. Per il momento mi limiterò ad analizzare soltanto sei forme di questo codice di interdizione e di selezione, partendo purtroppo da un’ottica provinciale italiana ed europeo-occidentale.

19. Il pilastro più importante del codice culturale politicamente corretto, così come è gestito dall’unione di circo mediatico e di clero universitario di “commento”, è il presupposto di internità occidentalistica all’impero americano, messianico, monolingue ed ultracapitalistico. Per capire il funzionamento culturale dell’impero (o meglio, di qualsiasi impero) è  meglio congedarsi, educatamente ma fermamente e senza rimpianti, dallo schema liberale, che vede il conflitto epocale di civiltà fra gli occidentalisti liberal-conservatori ed i loro nemici terroristi-integralisti-nazisti-comunisti, e dallo schema di lontana origine marxista, che vede il conflitto classista bipolare fra borghesia e proletariato. Niente di tutto questo. Un simile modo di ragionare (liberali/totalitari e borghesi/proletari) significa fare del geocentrismo in epoca copernicana e del fissismo in epoca evoluzionistica. Nel momento in cui gli USA sono un impero, dicotomia all’interno dell’impero è quello fra patrizi e plebei. E’ meglio chiamarli così, scontando l’evidente inesattezza, piuttosto che illudersi. Tutti gli imperi della storia non sono mai caduti dall’interno, ma dall’esterno. Finchè durano, neutralizzano le loro plebi interne con il pane e con il circo (ed è giunto il momento che si riflette sulla ipertrofia dello spettacolo sportivo negli USA, ma vedo che non lo si fa!). La cultura imperiale viene gestita da una fusione specifica di circo mediatico e clero universitario, mentre fra la plebe viene diffuso a piene mani l’odio per gli intellettuali in quanto tali (teste d’uovo, eccetera).                             In uno scritto fondamentale sul funzionamento del sistema mediatico USA Noam Chomsky ha mostrato il suo (facile) enigma, che consiste nel fatto che è permesso, ed anzi incoraggiato, discutere dei mezzi in politica estera, mentre è interdetto (pena la marginalizzazione in nicchie politicamente irrilevanti) discutere sulla legittimità del fine, e cioè del dominio geopolitico USA nel mondo. L’incoraggiamento a discutere dei mezzi e l’interdizione a discutere dei fini è appunto il codice culturale di base di ogni impero che si rispetti. Aprire o chiudere Guantanamo? Si apre una discussione se sia meglio terrorizzare i potenziali terroristi oppure venire incontro ai vagiti buonisti e pecoreschi della cosiddetta “opinione pubblica europea ” (irrealtà inesistente). E’ meglio lo hard power o il soft power?E li sopra infiniti chiacchericci sulla scuola bombardatrice di Kagan e la scuola accarezzatrice di Nye! Più unilateralismo o più multilateralismo? Più realpolitik o più diritti umani?L’occidentalismo si difende meglio con il profilo cristiano (Marcello Pera, George Weigel), oppure con la rivendicazione del laicismo integrale        (la coppia sionista allucinata Pannella-Bonino)? E così via all’infinito. Noam Chomsky ha pienamente svelato le basi della simulazione sull’incoraggiamento alla discussione sui mezzi e sull’interdizione della discussione sui fini occidentalistico-imperiali USA. Tutto questo è del tutto normale che avvenga al centro dell’impero, in cui gli “intellettuali” hanno il compito di prospettare scenari strategici di potere, che implicano la discussione sul se sia meglio bombardare ed impiccare Saddam Hussein o se sia meglio ammorbidirlo e comprarlo, se sia meglio ricattare la Russia con la Georgia e la Cecenia e la Cina con il Tibet oppure se sia meglio non farlo, eccetera. La novità relativa sta nel fatto che negli ultimi trent’anni circa in Europa è avvenuta una colonizzazione integrale di questo atteggiamento di internità completa a questo punto di vista imperiale, gestita dallo stesso soggetto socio-culturale degli USA, la fusione fra circo mediatico e clero universitario. Certo, le tribù belanti dei residui della borghesia europea chiedono supplicando un pò più di multilateralismo e un po’ meno di unilateralismo, e si inginocchiano davanti al Primo Imperatore Negro perché corregga gli eccessi dell’Ultimo Imperatore Bianco. Ma le loro suppliche non possono essere ascoltate, perché l’impero è sempre impero, indipendentemente dal colore della pelle e dalle fattezze somatiche dell’imperatore.

La cultura patrizia dell’impero si unisce ovviamente all’esportazione del modello della sua cultura plebea, connotata in modo insuperabile da Adorno come “primitivismo di massa”. Mentre il circo mediatico è deputato alla gestione di questo primitivismo di massa (le cui interessantissime caratteristiche non possono essere analizzate qui per semplici ragioni di spazio), il clero universitario è invece deputato a produrre sofisticate ideologie per le teste d’uovo: fine della storia, conflitto di civiltà, novecento come secolo delle ideologie assassine, rovesciamento dell’utopia in terrore, necessità della islamofobia per difendere la nostra incomparabile civiltà occidentale, fine degli stati-nazionali, diffamazione delle identità nazionali come “comunità immaginarie”, imposizione del politicamente corretto linguistico, monolinguismo anglofono nella forma più empirica e paratattica possibile, in modo che non sia più neppure possibile concettualmente evocare il principio dialettico della totalità filosofica , eccetera.

Il principio del presupposto di internità occidentalistica è oggi una delle basi dell’ideologia imperiale. Essa non interdice la discussione, come facevano i primitivi sistemi di potere novecenteschi, ma anzi la favorisce, purché si accetti il presupposto di internità e la limitazione ferrea alla discussione dei mezzi migliori per promuoverla, laddove si da per scontato che il fine è buono. E invece no. Il fine è cattivo, indipendentemente dai mezzi usati, anche se i mezzi assassini sono ovviamente più scandalosi dei mezzi diplomatici. Non esiste comunismo comunitario possibile se non ci si chiama fuori integralmente dall’occidentalismo imperiale in tutte le sue forme. Se l’impero è questo, allora siamo con i barbari fuori dai confini.

Mi rendo conto che in questo modo si chiede molto, forse troppo. Le secessioni sono  indubbiamente dolorose. Eppure in questo casi si tratta di una secessione assolutamente indispensabile. Essere occidentalisti significa oggi essere imperiali, e allora discutere di critica al capitalismo e di fusione di comunismo e di comunitarismo appare una innocua menzogna di perditempo.

20. Come si è chiarito nel paragrafo precedente, bisogna avere il coraggio di passare da un presupposto di internità occidentalistica, critico fi che si vuole (una certa criticità è infatti benvenuta per “oliare” meglio i meccanismi della manipolazione “flessibile”) ad un presupposto di esternità integrale. Questa è la mossa decisiva. Tutti gli altri cinque punti che solleverò ora sono largamente secondari ed accessori. Il secondo pilastro del politicamente corretto culturale è la demonizzazione dell’intero fenomeno del comunismo storico novecentesco in quanto tale, e cioè la sua piena illeggittimizzazione storica (mi scuso per il termine pesante). Marx può essere scusato e addirittura recuperato, come filosofo utopista e come economista ricardiano e sismondiano, le critiche alla burocrazia di Gilas e di Trotzky possono essere ricordate come oneste messe in guardia, eccetera, ma la leggenda nera deve essere imposta come presupposto di ogni analisi. Data l’importanza del tema, per ora ne parlerò poco perché ci dedicherò un intero capitolo. E tuttavia, qualunque rilancio del comunismo comunitario (più esattamente, del comunismo con correzione qualitativa comunitaria) non può evitare le “forche caudine” del bilancio razionale del comunismo storico novecentesco e del giudizio storiografico sui suoi principali rappresentanti. Questo giudizio può essere severissimo (il mio personale giudizio è severissimo), ma la severità del giudizio, al di là di ogni consueta e spesso risibile giustificazione e contestualizzazione, non deve confondersi con la riduzione demonologica dell’intera esperienza comunista novecentesca ad orrore del sistema dei gulag o della figura demoniaca di Stalin.                                                            Vorrei essere ben capito e non frainteso. Sul sistema di Stalin si può essere totalmente apologetici (Ludo Martens) o parzialmente apologetici (Domenico Losurdo). Sull’eresia trotzkista si può essere totalmente apologetici (Ernest Mandel, Livio Maitan), oppure fortemente critici (come è il mio caso). Sul PCI italiano si può essere fortemente apologetici o fortemente critici. E potrei moltiplicare gli esempi. Ma qui siamo di fronte non ad un problema storiografico, e neppure ad un problema di giudizio politico. Qui siamo di fronte ad un problema di esorcizzazione religiosa dell’intera storia del comunismo storico novecentesco, il cui scopo è quello di far introiettare ai subalterno che non bisognerà provarci mai più, perché chi si azzarderà a provarci finirà inevitabilmente con il mettere al potere l’equivalente del baffo caucasico di Stalin. E dal momento che Stalin non è in effetti molto difendibile, il politicamente corretto ha avuto fiuto nell’individuare nella demonizzazione della sua figura il punto di minor resistenza. Per questa ragione, pur non essendo per nulla staliniano (al contrario, ritengo che non si possano fare concessione alla sua demonizzazione astorica. Ma data l’importanza del tema, mi spiegherò meglio nel capitolo apposito.

21. Un terzo pilastro del politicamente corretto, soprattutto in Italia (ma qui sto scrivendo in italiano) è l’eternizzazione dell’antifascismo in assenza totale di fascismo. Ora, eternizzare un “anti” in assenza dell’oggetto polemico contro cui questo “anti” si era legittimato a suo tempo è sempre un sintomo di debolezza e di carenza dei fondamenti di legittimità attuale di un sistema di valori. Mille cortine fumogene e mille urla scandalizzate non possono far si che questo non sia. Possono al massimo ritardare di decenni la necessità di comprendere questo semplice fatto: se si decide di essere “anti” qualcosa, bisogna che questo qualcosa sia pienamente attuale e presente. Oggi sdegnarsi dei crimini politici del fascismo (che personalmente non intendo affatto negare, in particolare i crimini coloniali, per me incondizionatamente i più odiosi) è attuale come sarebbe attuale lo sdegnarsi contro la repressione sanguinosa di Silla contro i seguaci di Mario.                                        Ovviamente, so bene quali sono gli interessi politici ed ideologici della eternizzazione dell’antifascismo sacralizzato in totale assenza di fascismo. Essi sono molti e variati. Nella Storia della prima repubblica italiana 1946-1992 (prima del colpo di stato giudiziario extraparlamentare denominato surrealmente “mani pulite”) l’antifascismo in assenza completa di fascismo è servito per colmare simbolicamente le carenze di legittimazione autonoma sia della DC che del PCI, e siamo pertanto nel puro regno di ciò che Marx chiamava ideologia e Pareto chiamava residui e derivazioni. Ma c’è dell’altro, ovviamente. In primo luogo, l’antifascismo in assenza completa di fascismo permette di tenere sempre libera una casella vuota, in cui sia sempre possibile mettere un nuovo faccione da accusare di fascismo (i fascisti Fanfani, Craxi, Berlusconi, Milosevic, Ahmadinejad, Bossi, eccetera). Nel deserto della politologia seria e differenziata, dominato oggi dalla contrapposizione rozza fra democrazia(buona) e populismo(cattivo), il fascismo adempie al ruolo di jolly nelle carte da gioco, che può sostituire qualsiasi altra carta particolare. Il borgomastro antisemita di Vienna diceva che era lui a scegliere chi era ebreo e chi no, come i proprietari terrieri brasiliani razzisti dicevano che erano loro a decidere chi era negro e chi no. Nello stesso modo una classe politica delegittimata, incapace di lottare contro la pauperizzazione e il lavoro flessibile e precario, può sempre inscenare cerimonie lustrali in cui mette in guardia dal Male Assoluto, e mentre gli idioti della platea volgono lo sguardo reverente verso il Male Assoluto si creano tutti i presupposti diversivi per compiere tutti i mali relativi necessari. Ma è ovviamente la casella vuota intercambiabile l’aspetto ideologico primario. In secondo luogo, per mezzo secolo l’antifascismo in assenza completa di fascismo è stato l’ideologia dominante dei partiti comunisti, a causa della carenza di legittimazione della teoria leniniana della dittatura del proletariato e della scarsa appetibilità del modello sovietico di società socialista. In questo modo però il marxismo è morto, perché non si può costringere una teoria critica a centottanta gradi come la teoria di Marx a fare da stampella “colta” alle cerimonie resistenziali. Inoltre questo continuo battere di tamburi sull’antifascismo in assenza totale e conclamata di fascismo ha paradossalmente legittimato sempre di più proprio il nemico storico dei comunisti, e cioè l’impero americano. Non sono stati infatti gli USA a “liberarci” sbarcando in Sicilia nel 1943 ed in Normandia nel 1944? Certo, c’erano anche i sovietici, che hanno avuto perdite molto maggiori, ma i sovietici non disponevano dei centri mediatici di Hollywood e delle centinaia di film di guerra contro i musi gialli giapponesi ed i mangiakrauti tedeschi. Ed in questo modo il vero erede ideologico della eternizzazione dell’antifascismo in assenza totale di fascismo è stato Silvio Berlusconi, con ai lati Gianfranco Fini e Gianni Alemanno (gli americani ci hanno liberati dal fascismo, il fascismo è il male assoluto, persino la chiesa non ha condannato abbastanza le leggi razziali, eccetera eccetera). Quanto dico potrà certo sembrare paradossale, ma lo sembrerà molto meno a chi pratica il pensiero dialettico e la comprensione del fatto che le determinazioni rigide dell’intelletto spingono sempre oltre se stesse. Mi congratulo con i soloni dell’antifascismo in assenza totale di fascismo e con gli eternizzatori simbolici della guerra civile terminata nell’aprile 1945. Alla fine di questi cerimoniali, in cui si è voluta tenere una casella “fascista” libera per i propri avversari politici contingenti, l’antifascismo è diventato un elemento ideologico di legittimazione imperiali USA (che infatti ci hanno “liberato” dal fascismo), gestito dalla triade antifascista Berlusconi-Fini-Alemanno.

22. Un quarto elemento del politicamente corretto, quello incondizionatamente più religioso e sacrale, è quello della religione olocaustica. Giudicando criticamente questa nuova religione, per ora esclusivamente americana ed europeo-occidentale, non si ha naturalmente alcuna perfida intenzione antisemitica e giudeofobica, e neppure ovviamente alcuna intenzione di giustificazione di Hitler o di negazione del fatto storico indiscutibile del genocidio degli ebrei. Il genocidio c’è, infatti, quando si ha intenzione di sterminare un popolo in quanto popolo, anche se alla fine non ci si riesce perché una parte di questo popolo si trova altrove o si sottrae alla morte con la fuga, l’emigrazione o la resistenza. Non ho dubbi sul fatto che Hitler avesse una intenzione genocida. Intorno ai numeri di questa strage di ebrei ritengo invece che ci si dovrebbe essere in proposito una libera discussione, e l’incarcerazione dei negazionisti mi sembra una conferma indiretta del carattere religioso preso dalla questione. Si può infatti oggi dire apertamente che Dio non esiste senza essere penalmente puniti, mentre diventa una fattispecie di reato penale essere “negazionisti”. Se si potevano ancora avere debbi sul carattere religioso assunto dal tema olocaustico, la sua trasformazione in fattispecie penale toglie ogni dubbio in proposito. Conosco solo due tabù legali alla libera discussione occidentale, l’esaltazione della pedofilia e la negazione dell’olocausto. Ci sarebbe molto da discutere in proposito, ma ragioni di spazio sconsigliano di soffermarcisi troppo.                                                      Il compito primario della religione olocaustica è ovviamente quello di suscitare un complesso di colpa atto a legittimare direttamente i comportamenti razzisti, crudeli e assassini del sionismo nel suo progetto di genocidio del popolo palestinese. Nella storia vi sono molti esempi di popoli genocidiati che diventano genocidi verso popoli più deboli. In linea di massima, bisogna liberarsi del principio assiro-babilonese della responsabilità individuale. Ma la religione olocaustica non può farlo, perché il suo scopo è appunto quello di incollare sulla nazione tedesca in quanto tale una responsabilità eterna e senza limiti. La Germania è un paese centrale per l’identità europea, ed inchiodare la Germania a un lutto inespiabile significa inchiodare tutta l’Europa. Al di là della legittimazione delle azioni criminali del sionismo, la religione olocaustica ha infatti come compito l’eternizzazione del complesso di colpa dell’Europa, in modo che questo complesso di colpa venga pagato con l’occupazione a tempo indeterminato dell’Europa da parte di basi militari USA potentemente armate. Capitale politica del mondo deve essere Washington, ma la capitale religiosa deve essere Gerusalemme, che per questo non può essere “spartita” con gli arabi, cui il sionismo razzista ed assassino l’ha rubata. Vi è però ancora una ragione, forse filosoficamente la principale. In un’epoca di crisi delle religioni monoteistiche tradizionali, in cui soltanto più la plebe ricorre a San Gennaro, Padre Pio e Lourdes, il patriziato laicista europeo è rimasto senza religione, ed è quindi necessario fornirlo di una nuova “religione storica per colti”, che è appunto la religione olocaustica. Essa non è invasiva su questioni comportamentali e sessuali, non vieta l’aborto e l’eutanasia, non possiede fastidiose “dottrine sociale”, accetta il più totale individualismo, e nello stesso tempo coltiva quello che Freud è il cuore di tute le religioni,  e cioè il senso di colpa (cfr. Totem e Tabù). La religione olocaustica è nata come religione patrizia di intellettuali europei materialisti e senzadio, e viene oggi incentivata con giornate della memoria e pellegrinaggi ad Auschwitz. La sua base teologica è costituita dalla cosiddetta imparagonabilità di Auschwitz con qualsiasi altro evento storico. Si tratta di un dogma irrazionalistico ed inaccettabile. Auschwitz è stata un fatto imperdonabile, inaccettabile e senza nessuna possibile giustificazione, ma non è stata affatto un fatto imparagonabile. Ad esempio Hiroshima le è del tutto paragonabile, e personalmente tendo addirittura a pensare, in una atroce e folle classifica dell’orrore, che è stata addirittura peggiore. In questo modo, ovviamente, ho bestemmiato la religione olocaustica, senza essere affatto né antisemita ne giudeofobico.  Ma, appunto, la religione olocaustica non ha nulla a che vedere con la religione ebraica, il popolo ebraico, l’antisemitismo storico, ecc…, trattandosi soltanto di una religione idolatrica per senzadio al servizio ideologico dei crimini del sionismo politico e della perpetuazione della minorità storica dell’uomo.

23- Un quinto elemento del politicamente corretto , particolarmente ipocrita ed odioso, è costituito dalla teologia interventistica dei diritti umani.E così come l’uso della religione per legittimare massacri razzisti (le crociate, i conquistadores, i coloni protestanti americani e sudafricani, eccetera) e particolarmente odioso, nello stesso modo è odioso veder utilizzare una tradizione culturalmente emancipativa, come è stata quella del diritto naturale. Carl Schmitt ha chiarito in modo impeccabile che il riferimento agli interessi dell’Umanità, in buona fede o in malafede, e sempre la copertura ideologica posticcia per la legittimazione di guerre imperiali di conquista. In una recente opera dedicata alla brigantesca guerra del Kosovo del 1999 Danilo Zolo ha chiarito che “chi dice Umanità “è quasi sempre un mascalzone ipocrita. Una delle ragioni-se non la principale-della correzione comunitaria del comunismo sta nel fatto che in questo modo si toglie al comunismo la pretesa di una esportazione astrattamente universalistica, e lo si vincola ferreamente al consenso della comunità in cui è concretamente praticato. La teologia interventistica dei diritti umani è invece una cosa sporca, che deve essere denunciata e che non ha oggi nessuna giustificazione.                                   Il punto di partenza storico di questa indegna porcheria sta forse nel messaggio al congresso americano di Roosevelt del gennaio 1941, in cui il presidente USA proclamava che bisognava assicurare a tutti gli uomini in tutto il m ondo quattro libertà universali: libertà di coscienza, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura. Sono passati quasi settant’anni da allora, un periodo di tempo già sufficiente per tentare un bilancio storico. Come l’impero USA sia riuscito in questo settantennio a garantire almeno tre di queste libertà (di coscienza, dal bisogno e dalla paura) è sotto gli occhi di tutti. Mai come oggi il mondo è stato tanto oppressivo e socialmente ingiusto. Un esperto italiano in diritti umani, particolarmente ipocrita, ha elencato una serie di violazioni in questo modo: massacri degli armeni, sterminio degli ebrei, gulag sovietici, dittature sudamericane, genocidio in Ruanda e stupri in Darfur. L’ipocrita dimentica alcune piccolezze come Hiroshima 1945, l’embargo assassino contro l’Irak 1991-2003, l’aggressione del criminale Bush contro l’Irak nel 2003, eccetera. Per questo togato mascalzone queste non sono violazioni dei diritti umani. Per questa ragione è possibile definire “diritto umano” tutto ciò che il criminale arbitrio imperiale decide sovranamente ed unilateralmente che si debba indicare come diritti umani. I diritti umani sono oggi a bombardamento ed a intervento incorporato. I tibetani ne hanno diritto, ma i palestinesi invece no. Gli albanesi ne hanno diritto, mentre i serbi invece no. E’ un peccato, perché la tematica universalistica dei diritti naturali dell’uomo è qualcosa di degno di essere esaminato con cura. Ed è un peccato che la loro incorporazione nei piani strategici e geopolitica dell’impero abbiano trasformato il pane in merda. Personalmente, quanto sento parlare di diritti umani, sospetto che in loro nome la disumanità proceda ed avanzi.

24. Sesto ed ultimo baluardo del politicamente corretto è la manipolazione politologica consistente nella sacralizzazione della dicotomia Destra/Sinistra intesa come omogeneità bipolare. Per omogeneità bipolare intendo il processo per cui le due polarità politiche, destra e sinistra appunto, diventano omogenee per quanto riguarda il giuramento imperiale occidentalistico, la demonizzazione del comunismo storico, l’antifascismo in assenza completa di fascismo, la religione olocaustica dell’eccezionalità imparagonabile di Auschwitz, ed infine la teologia interventistica dei diritti umani (i cinque elementi sopra indicati), e sulla base di questa conseguita omogeneità instaurano un sistema chiuso di vasi comunicanti per cui periodicamente perdono un po’ da una parte ed un po’ da un’altra, ma il sistema appare rafforzato dalla loro intercambiabilità unita al folklore televisivo delle loro microdifferenze enfatizzate. In Italia questo appare peraltro ad occhio nudo. Quanto più Berlusconi e Veltroni, Fini e D’Alema, eccetera, sono omogeneizzati politicamente dai cinque elementi sopraddetti (giuramento di fedeltà all’impero americano, leggenda nera sull’esperimento comunista, antifascismo rituale in assenza di fascismo, religione olocaustica di espiazione e di avallo del sionismo criminale, teologia dell’interventismo dei diritti umani con connessa fine del vecchio diritto internazionale fra stati), tanto più la dicotomia Destra/Sinistra, che per due secoli aveva realmente connotato profonde differenza politiche ed ideologiche, cessa di riprodurre queste differenze e diventa un meccanismo di stabilizzazione del sistema. Un tempo a negare la dicotomia Destra/Sinistra era la cultura tecnocratica della Destra, che insisteva sul fatto che gli esperti ed i tecnocrati erano in grado di condurre in modo “neutrale” la società, al di la dell’incompetenza fanatizzata dei cosiddetti ideologi. Auguste Comte fu il primo a sistematizzare questo punto di vista, e poi vennero i cosiddetti “elitisti” (Mosca, Pareto, eccetera). La Sinistra, invece, insisteva correttamente sul fatto che la società non era assimilabile ad un utensile o ad una locomotiva, ma era un insieme classista diviso in interessi contrapposti che non potevano essere guidati sulla base di una finzione di neutralità. Tutto questo però finisce con l’omogeneizzazione dei cinque punti sopra e indicati e soprattutto con l’accettazione di tutto l’arco parlamentare della piena legittimità insuperabile ed insormontabile della produzione capitalistica. Da quel momento il mantenimento della dicotomia, prima sensatissima, diventa pura simulazione e semplice protesi politologica per deficienti. Il lettore ha letto bene, e se per caso si indigna virtuosamente tanto meglio: per deficienti. A volte anche al parola “forte“ e scortese serve per svegliare dal “sonno dogmatico”, per usare un termine di Kant.

25. Fino a questo punto abbiamo-per così dire-spazzato il pavimento.   Ora però dovremo affrontare problemi più complessi di legittimazione del nostro punto di vista: una ricostruzione alternativa dell’intero pensiero occidentale, una ricostruzione dell’esperienza storica del comunismo novecentesco, e per finire un’interpretazione dei nuovi modelli culturali veicolati dalla cosiddetta “cultura di sinistra”.

 

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