Borghesia e post-borghesia: Intervista a Costanzo Preve:

gen 21st, 2022 | Di | Categoria: Interviste

Borghesia e post-borghesia: Intervista a Costanzo Preve:

di Luigi Tedeschi Costanzo Preve – 02/05/2006

 

 

1.       Il concetto di libertà, intesa come libertà politica, economica, culturale è alla base della rivoluzione dell’’89 e delle successive evoluzioni del secolo XIX, il “secolo borghese”. Tale nuova dimensione dell’uomo può essere riassunta in tutto ciò che viene definito “pensiero laico”, quale orizzonte in cui l’uomo, liberatosi della fede religiosa e dei concetti politici e filosofici non conformi al razionalismo illuminista, cioè di tutta quella cultura che impedisse il pieno dispiegamento della propria libera individualità e fosse quindi libero artefice della sua storia e del suo destino. Ma, eliminata ogni prospettiva trascendente, a questo individuo, isolato dal contesto storico-sociale, non rimane che il vincolo unificante costituito dai rapporti economici. La stratificazione sociale derivante dallo sviluppo dell’economia di mercato e il sostanziale stato di ineguaglianza che ne consegue, vanificano le premesse libertarie della rivoluzione liberale. E’ dunque il sistema economico a determinare la condizione esistenziale dell’uomo, anziché la libera individualità. Il borghese allora, nell’ambito ideologico laico-liberale, non è il risultato delle scelte dettate dalla propria libertà di coscienza, ma il risultato delle circostanze (economiche) che lo producono? Esiste un finalismo nella cultura liberale già insito nelle premesse egualitarie e libertarie, inteso come un economicismo a priori insito nella natura umana?

 

Per iniziare con il piede giusto una conversazione sul “borghese”, e prima ancora di parlare di libertà e di economia,è bene proporre una definizione di “borghese”. In estrema sintesi, si tratta di un concetto plurale e metamorfico, che rispecchia una realtà plurale e metamorfica. Dell’aspetto metamorfico parlerò nelle risposte successive. Per quanto riguarda l’aspetto plurale, direi che il “borghese” è una sintesi di cinque diverse determinazioni interconnesse e cioè della somma di una determinazione storica (o più esattamente, storico – geografica), economica, politica, sociologica ed infine culturale. Esaminiamole separatamente.

La determinazione storico-geografica di borghese vede questa figura nascere fra il cinquecento ed il settecento europeo, svilupparsi nell’ottocento (che è anche il secolo della sua massima fioritura), declinare nel novecento e (a mio avviso) tendere alla sparizione in questo secolo appena iniziato. Sono allora contrario a “retrodatare” questo concetto, estendendolo a gruppi mercantili e protocapitalistici anteriori (equites romani, banchieri medioevali, eccetera), in quanto non si fa in questo modo che creare calderoni ed incrementare confusione. Il “borghese” è geograficamente un prodotto dell’occidente, e solo dell’ occidente. La sua “estensione”, legata prima al colonialismo, poi all’imperialismo ed infine alla cosiddetta “globalizzazione”, ne rappresenta però anche l’evoluzione metamorfica verso qualcosa d’altro.

La determinazione economica vede nel cosiddetto “borghese” il portatore storico dell’accumulazione capitalistica e poi di conseguenza l’estensore all’intera società dei rapporti capitalistici di produzione. Questo è il “borghese” nel senso di. Sombart, di Max Weber e soprattutto di Karl Marx. Nello stesso tempo, come vedremo, l’identificazione tipica del marxismo economicistico fra Borghesia e Capitalismo è riduzionistica, ed in questo modo finisce con l’essere fortemente fuorviante.

La determinazione politica vede nel borghese una figura fortemente intenzionata ad abbattere i sistemi politici feudali-signorili (o più esattamente tardo-feudali e tardo-signorili, in quanto nelle fasi “non tarde”di questi sistemi il borghese tenda piuttosto ad integrarsi in essi, e cioè a “nobilitarsi”), e quindi una figura interessata al costituzionalismo liberale. Il costituzionalismo liberale, infatti, “raddoppia” nella sfera politica ciò che nella sfera economica è il mercato delle merci (tra cui la forza-lavoro, la più importante di tutte le merci) e dei capitali. Per questa ragione il “borghese” è spontaneamente liberale, e quindi ovviamente non solo non è né fascista né comunista, ma neppure “democratico”, per lui la sacralità del mercato è più importante di quella del principio di maggioranza, ed ovviamente ancor più di quella del principio di partecipazione popolare. Per lui la “partecipazione” di fatto è coincidente con la partecipazione consumo.

La determinazione sociologica vede la “borghesia” strutturarsi in un insieme articolato di gruppi stratificati, che all’origine hanno ancora “sopra” la nobiltà e “sotto” il proletariato. Gradatamente tutti i residui nobiliari vengono assorbiti, mentre vengono tenuti aperti canali, sempre stretti e controllatissimi, di “imborghesimento” di strati proletari legati alla politica di intermediazione e di consenso e/o all’attività imprenditoriale diffusa.

La determinazione culturale, infine,vede la borghesia interessata prima al razionalismo laico (l’illuminismo settecentesco), poi all’esaltazione della scienza e della tecnica collegate alla produzione mercantile (le varie forme di positivismo), e non può infine sfuggire alla consapevolezza tragica della contraddittorietà dei propri stessi valori (Nietzsche, Heidegger, varie forme di nichilismo, eccetera).

Come si vede, la figura del “borghese” è all’incrocio di queste cinque determinazioni fondamentali. Per questa ragione essa è tanto complessa, inquietante e sfuggente. Nella tua domanda tu ti mostri consapevole del fatto che il cosiddetto “laicismo”, che si autointerpreta in modo ingenuamente apologetico come un “progresso” rispetto alle superstizioni religiose ed alle culture popolari e contadine (per non parlare delle culture comunitarie dei cosiddetti “selvaggi” da colonizzare), porta in sé in realtà come dinamica immanente una tendenza all’economicismo capitalistico. Il “laicismo”parte sicuramente da Voltaire, ma altrettanto sicuramente evolve fino ad Eugenio Scalfari, a Marco Pannella, eccetera. Per il marxismo è una tragedia (o meglio, una tragicommedia) che nessun Angusto Del Noce “marxista” l’abbia fino ad oggi. capito in modo sufficientemente chiaro. Le critiche “esterne”, infatti, non servono mai all’autocomprensione di un movimento, che deve riuscire a produrle dall’interno. Ma su questo è bene ovviamente tornare.

 

2.       Borghesia e proletariato sono stati identificati da Marx in poi come gli elementi essenziali dello sviluppo economico sociale dell’occidente. L’antagonismo sociale e le conseguenti prospettive rivoluzionarie di stampo marxista sono ormai problematiche storicamente tramontate dopo il crollo del comunismo e l’avvento del capitalismo globale. Se dunque la classe operaia non è riuscita ad esplicare le proprie potenzialità rivoluzionarie, la stessa borghesia viene oggi falcidiata e svuotata delle proprie capacità produttive dalla economia finanziaria globale. Il modello economico sociale borghese – capitalista, ha potuto svilupparsi grazie a questa dialettica antagonista con il proletariato, che ha costituito sia un elemento necessario alla logica produttiva che un fattore complementare alla evoluzione della borghesia in tema di espansione dei consumi. Se il proletariato non fu capace di distruggere e/o assorbire la borghesia, quest’ultima non è stata capace di coinvolgere nella sua evoluzione il proletariato e la complementarietà di entrambi sarebbe dimostrata proprio dal fatto che la fine del proletariato sia stata contemporanea a quella di una borghesia che nella struttura neocapitalista globale non ha più alcun ruolo. Le cause della fine della borghesia non sono forse da ricercarsi nel proprio particolarismo morale, economico, sociale che ha determinato la propria incapacità di far evolvere e assimilare a sé il proletariato (relegato a sacca di consumo), generando in tal modo anche la propria autodistruzione?

Dico subito di condividere nell’essenziale la tesi che proponi in forma di. domanda. Sulla cosiddetta “complementarietà” fra borghesia e Proletariato e sul “peccato originale” economicistico e riduzionistico dell’egemonia borghese (o più esattamente sulla mancata egemonia borghese) sono anche pienamente d’accordo. Permettimi allora di riformulare integralmente a modo mio lo stesso problema che tu mi hai posto.

Borghesia e Proletariato sono le due metà complementari, o più esattamente le due metà in correlazione essenziale, di un unica totalità sociale “olistica”, che in quanto olistica è organicamente unitaria. Si tratta infatti di una totalità dialettica, nel senso di Platone e di Hegel, e tu sai che nella mia interpretazione “idealistica” di Marx il fatto che la dialettica in Marx sia di fatto molto simile a quelle precedenti di Platone e di Hegel non è un male (come lo è, ad esempio,per Galvano Della Volpe, Lucio Colletti o Louis Althusser), ma anzi è un bene inestimabile. Ora, la contraddizione dialettica fra Borghesia e Proletariato non è (ripeto, non è) né una semplice “interazione” né tantomeno una semplice “opposizione reale”. Le interazioni e le opposizioni reali permettono di pensare i due- termini della contraddizione come originariamente indipendenti, mentre in questo caso così non è. I termini dialettici sono opposti in correlazione essenziale, e non esistono l’uno senza l’altro neppure in via ipotetica. In una coppia l’uomo e la donna possono essere pensati indipendentemente, e la coppia è appunto uno spazio di interazione, non di contraddizione dialettica. Due eserciti in battaglia sono due entità in opposizione reale, non in contraddizione dialettica, e infatti possono anche essere pensati in pace o in stato di armistizio, così come il conflitto sindacale fra metalmeccanici e confindustriali.

Ho fatto questa sommaria premessa filosofica per far capire che chi non sa distinguere da un lato la contraddizione dialettica e dall’altra l’interazione e/o l’opposizione reale non è all’atto pratico in grado di capire il rapporto fra Borghesia e Proletariato all’interno di un’unica totalità olistica, che è il legame sociale capitalistico. Questi due poli crescono insieme, si sviluppano insieme, mutano insieme e muoiono insieme, esattamente come i proprietari di schiavi e gli schiavi ed i feudatari ed i servi della gleba. Chi ragiona in termini ascendenti e discendenti, e cioè di proletarizzazione dei borghesi e/o di imborghesimento dei Proletari rischia di non cogliere il processo dialettico che ci interessa.

Non esiste ovviamente quello che tu chiami “un economicismo a priori insito nella natura umana”. A mio avviso, per farla corta, l’uomo è dal punto di vista dell’antropologia filosofica un essere caratterizzato da cinque determinazioni fondamentali, nessuna delle quali permette di parlare di un economicismo a priori. L’uomo è un essere sociale, politico e comunitario (il politikòn zoon di Aristotele), è un essere dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo (lo zoon logon echon sempre di Aristotele), un essere che ha un bisogno incoercibile ed assoluto di riconoscimento, da parte di un altro (Hegel, ma anche Lévinas), un essere generico che progetta la propria configurazione sociale (l’ontologia di Karl Marx), ed infine un animale fortemente simbolico (Cassirer). Avrai notato che in questa sommaria elencazione io non ho volutamente inserito presunte tendenze all’accaparramento economico individualistico, alla concorrenza di mercato, ed in generale alla proprietà privata capitalistica fatta passare surrettiziamente per un 2diritto naturale”. Nella mia personale concezione filosofica, l’uomo non e caratterizzato né dal cosiddetto “dono”, come ritiene la scuola francese anti-utilitarista (Mauss, Caillois, Latouche, eccetera) né dal cosiddetto “mercato” inteso come virtuosa mano invisibile (Hume, Smith, eccetera). L’uomo può adattarsi sia al dono che al mercato. Semplicemente, il dono è preferibile razionalmente al mercato, perché dà luogo ad una configurazione sociale più solidale, da un lato, e meno istericamente orientata alla crescita ecologicamente distruttiva, dall’altro.

Oggi stiamo assistendo ad una virtuale “fusione” fra Borghesia e Proletariato nell’ambito di una nuova (e sostanzialmente inedita, e quindi non ancora adeguatamente studiata società monoclassista dei consumi). Per società monoclassista dei consumi (più esattamente, della tecnica orientata ai consumi) non intendo ovviamente una società egualitaria, e tantomeno “giusta”, ma al contrario una società caratterizzata da differenziali di potere, denaro, consumi e status sempre- più crescenti e scandalosi. Questi “differenziali”, però, non possono più essere intesi nella loro genesi e nel loro sviluppo nei termini della vecchia definizione di Borghesia (che ricordo essere di cinque tipi, storico-geografico, economico, politico, sociologico e culturale). E’ chiaro che siamo in attesa di una nuova teoria, che tarda a venire per ragioni sia soggettive che oggettive.

 

3.       Lo smembramento della società in classi appare oggi quanto mai evidente nell’attuale neocapitalismo, sempre più elitario e dirigista, cui fa riscontro la progressiva proletarizzazione dell’intera società. La stratificazione sociale è determinata ormai dai vari livelli di consumo e la mobilità sociale è praticamente nulla. Osserviamo, che mentre il proletariato ha smarrito da tempo la propria coscienza di classe integrandosi nella società dei consumi e assimilando l’egoismo e il particolarismo “borghese”, le elites capitaliste, sempre più selettive ed autoreferenti nei loro processi decisionali, affermano invece apertamente la loro coscienza, cultura e costumi di classe dominante, fino a costituire un “modello” di riferimento per tutta la società. La piccola borghesia, in via di estinzione, fa sopravvivere la sua coscienza di classe, identificandosi con gli interessi, la cultura, le scelte delle elites capitaliste. Il ceto medio produttivo, vede la propria possibilità di sopravvivenza all’ombra del grande capitale finanziario, che nella realtà è l’antitesi dei propri interessi. In questa società possiamo definire l’attuale borghesia come una forma di “coscienza ideologica” che sopravvive alla estinzione della borghesia stessa, una volta perduta la propria funzione produttiva e quindi anche la propria ragion d’essere. Inoltre, si può parlare di mera “coscienza ideologica borghese” dal momento che il neocapitalismo non necessita del particolarismo egoista della piccola borghesia, ma non ha altro bisogno di megaconsumo di massa, data la sua dimensione economica e culturale unificante su scala globale?

In questa domanda tu abbozzi una tua proposta di lettura sociologica articolata dell’attuale modello sociale, che nel mio linguaggio definirei sommariamente un modello post-borghese (ed ovviamente post-proletario, perché come ho sostenuto nella mia precedente risposta non ci può essere l’una senza l’altro e viceversa) ed ultra-capitalistico. Consentimi allora di tentare anch’io un’articolazione del mio modello post-borghese ed ultracapitalistico, e cioè di un capitalismo “totalitario” senza classi che ha metabolizzato la sua precedente fase borghese e proletaria. Tieni conto però che mentre nel campo della filosofia rivendico una pur modesta solida professionalità, nel campo della sociologia sono un dilettante puro. Detto questo, penso che in un primo ancora incerto approccio alla struttura sociale contemporanea potremmo immaginare una sorta di piramide a quattro piani: al vertice una nuova classe dominante mondiale post-borghese, subito una classe media globale occidentalizzata (western-type global middle class), sotto ancora un post-proletariato flessibile, precario ed integrato in un sistema performativo dei consumi differenziati, ed infine alla base un nuovo esercito industriale di riserva di immigrati. E’ evidente che questo discorso non riguarda il mondo intero, ma solo la sua parte “occidentale”.

Iniziamo con il vertice della piramide, la nuova classe dominante mondiale post-borghese. Essa rappresenta storicamente un quinto stadio (non definitivo, perché non esiste “fine della storia” se non nei deliri di onnipotenza del clero della nuova religione imperiale USA) di una precedente progressione artico1ata (pre-borghesia, proto-borghesia, medio-borghesia, tardo-borghesia e appunto ora post-borghesia). Questa post-borghesia è il frutto della fusione fra una componente vetero-borghese ancora intrisa di valori nobiliari, sia pur modificati, ed una recente componente neo-borghese di arricchiti con la pezze al sedere, sia pure pezze ornate di borchie d’oro massiccio. Questa fusione di snob con la puzza al naso e di “furbetti del quartierino” è un fenomeno, mondiale, e non certo solo una pittoresca degenerazione romanesca. Dal punto di vista culturale, questa post-borghesia è frutto di un livellamento verso il basso quasi incredibile, e questo spiega il doppio fenomeno dello smantellamento della vecchia scuola borghese nata circa duecento anni fa sia l’incredibile volgarità della produzione televisiva. Filosoficamente parlando, si tratta della fine della “coscienza infelice” di hegeliana memoria, che fu sempre matrice della inquietudine delle precedenti avanguardie intellettuali, indifferentemente di destra e/o di sinistra, da Julius Evola a Amedeo Bordiga, da Ezra Pound ad Antonio Gramsci.

Passiamo al secondo strato della piramide, la classe media globale occidentalizzata (western-type global middle class).Questa classe media senza coscienza infelice, priva di tentazioni fasciste e/o comuniste, si definisce principalmente sulla base dei due parametri del reddito e delle forme di consumo “colto”, (abbigliamento, arredamenti, viaggi culturali, eventi, presenzialismo  mondano-mediatico, accesso a servizi scolastici e medici di buon livello, conoscenza dell’inglese, relativa sicurezza del reddito, voto politico di centro con sfumature puramente “estetiche” di sinistra e “religiose” di destra, eccetera). Questa classe media globale occidentale non ha più le vecchie inquietudini della piccola borghesia, e quindi non è più attratta dagli “estremi” politico-culturali. Filosoficamente nichilista, il suo nichilismo relativistico dipende però esclusivamente dal livello del reddito. Quando quest’ultimo calasse in modo radicale, ci si potrebbe aspettare riorientamenti culturali ancora per ora imprevedibili. I giornali e la produzione editoriale sono “tarati” per i suoi gusti, laddove la televisione è invece “tarata”per la classe che le sta al di sotto e di cui ora parlerò.

Il terzo strato è il post-proletariato flessibile, precario ed integrato in un sistema performativo di consumi differenziati. Il circo mediatico-televisivo è “tarato” quasi esclusivamente su questo terzo strato, e rappresenta l’e­quivalente post-moderno del vecchio clero religioso medioevale basato sul la predicazione. Con la fine della produzione fordista e del suo raddoppiamento economico keynesiano questo strato sociale resta ovviamente “industriale” (il cosiddetto post-industriale è un’invenzione di furbastri per il consu­mo degli idioti), ma perde le sue basi organizzative e sindacali che ne ave­vano permesso la precedente rappresentanza politica (indifferentemente populista, laburista, socialdemocratica comunista occidentale eccetera). Ogni possi­bilità “rivoluzionaria” futura passa necessariamente dallo scollamento econo­mico e politico fra questo terzo stato ed il secondo, laddove il primo ad il quarto non mi sembrano decisivi.

Il quarto strato, infine, è composto dalle ondate di immigrati poveri con cui i dominanti del primo strato indeboliscono il potere contrattuale del terzo, laddove il secondo viene conquistato dalle ideologie del multiculturalismo e dalla società-arcoba1eno (di cui però solo appunto il terzo stato è chiama­to a pagare i costi). E con questo termino questa sommaria radiografia socio-logica che mi hai stimolato a fare.

 

4.       Tu hai delineato nel tuo libro “Marx inattuale”, i concetti di storia e materia elaborati dalla filosofia del ‘700, propri della cultura borghese del tempo. Definisci tale concezione della storia come “concetto trascendentale riflessivo in cui il nuovo soggetto borghese può pensare astrattamente la propria universalizzazione e dunque anche la propria <mondializzazione>”. La storia è dunque vista come succedersi di eventi coerenti in funzione di un finalismo predeterminato, inteso come affermazione necessaria dell’economicismo liberale. Tali radici culturali sono oggi di gran voga e questa visione storicistica appare più che mai una tesi ideologico-giustificazionista del mondo globalizzato. In tale ambito culturale, dominato da un determinismo storico progressista, che coinvolge oltre che la storia passata anche l’avvenire futuribile dell’umanità, non si finisce per negare alla radice la storia stessa, riducendola ad un processo temporale giunto al suo fatale e definitivo compimento con l’affermazione dell’economicismo borghese-capitalista? La storia infatti non sarebbe più suscettibile di ulteriori sviluppi se non in senso verticale, progressivo, univoco, indifferenziato. Non è un caso che Fukujama abbia fatto coincidere l’avvento della globalizzazione capitalista con la “fine della storia”. Ci si chiede, infine, se, dal momento che la borghesia è stata fagocitata dallo sviluppo progressivo della sua stessa storia, il suo frutto più maturo, il neocapitalismo non possa subire nel tempo un analogo destino.

La teoria di Fukuyama sulla “fine della storia” non deve essere minimamente presa sul serio, e quindi non merita un esame di tipo filosofico. Merita invece una precisazione di tipo ideologico, in quanto la teoria di Fukuyama è un sintomo (minore) del delirio di onnipotenza che il crollo largamente inat­teso del comunismo storico novecentesco (1917-1991) ha avuto sulle classi dirigenti americane. In realtà, anche per quest’ultime oggi la storia continua in una variante religiosa imperfettamente secolarizzata, nella forma dell’Impero del Bene che deve difendersi contro il continuo ripresentarsi diabolico in forme diverse delle incarnazioni storiche del Male. La filosofia dell’Impero tende allora per sua natura a scindersi in due parti. Da un lato, la nuova teologia dei neo-con, ce sono poi degli “atei devoti”, in quanto il loro Dio non è un Essere Supremo, ma semplicemente l’Occidente, o più esatta­mente un’idolatria demoniaca dell’Occidente. Dall’altro, la componente libera­le tollerante dei campus, incarnata bene da Richard Rorty, in cui si scommette sulla capacità di ottenere l’egemonia intellettuale sul mondo globalizzato non con i bombardamenti al fosforo o all’uranio impoverito, ma con una inter­minabile e piacevole conversazione fra scettici liberali. Il predicatore fondamentalista di Omaha e lo scettico liberale di Boston (pronuncia basn) dovrebbero costituire i due poli ideali estremi in cui lo spazio filosofico imperiale viene “picchettato”. Se l’Europa accetta tutto questo è filosoficamente morta.

Per finire vorrei ricondurmi ad una tesi sulla natura del cosiddetto “post-moderno” avanzata recentemente dal David Harvey, che non intendo assume­re integralmente ma solo adottare come ipotesi. Secondo Harvey siamo di fron­te ad uno spostamento simbolico della rappresentazione “borghese” (Harvey non distingue fra borghesia e capitalismo, ma all’atto pratico e come se lo facesse) dal Tempo allo Spazio, e cioè dalla Storia alla Geografia, il che comporta una risoluzione integrale della Storia in Geografia, e cioè ancora del Progresso (temporale) in Globalizzazione (spaziale). Dal momento che si tratta di una ipotesi stimolante, la formulerò a modo mio in modo largamente indipendente dallo stesso Harvey.

Come tu ricordi nella domanda, l’immagine “borghese” del mondo si costituisce sulla duplice base dei concetti di Storia e di Materia, in cui la storia or­ganizza il tempo e la materia lo spazio. Fra questi due concetti il più importante e quello di Storia, perché soltanto attraverso il concetto di storia è possibile costruire una metafisica del Progresso. Il Progresso non è soltan­to la metafora filosoficamente raffinata del “progredire” illimitato dell’ac­cumulazione capitalistica, ma certo è anche quest’ultima. L’organizzazione simbolica dello scorrimento del Tempo è quindi fondamentale per la costituzione dell’immagine borghese del mondo, perché le dà l’insieme di ideologie di legittimazione per la distruzione di tutte le forme di vita comunitaria precedenti, sia di quelle “interne” (contadini, braccianti ed artigiani da proletarizzare e da trasformare in lavoratori salariati capitalistici), sia soprattutto quelle “esterne” (popoli detti primitivi o arretrati da colonizza­re e da sottomettere, distruggendone in primo luogo ogni forma di proprietà comunitaria ed introducendo la proprietà privata).

Questo Progresso Temporale è però funzionale ad un progetto “a tempo”, e cioè ad un progetto che ha come limite temporale di “scadenza” il compimento della globalizzazione capitalistica al mondo intero. Una volta realizzato integral­mente questo compimento il mito del Progresso diventa sostanzialmente inutile, o se si vuole marginale, anche se continua ad essere un articolo di espor­tazione spendibile per tutti i popoli ed i gruppi sociali rimasti fino ad oggi relativamente estranei all’accumulazione capitalistica (ed è il caso oggi della maggioranza delle popolazioni della Cina, dell’India e dell’Africa,  che sono “sfasate” di più di un secolo con il vero e proprio occidente capitalistico). Il Tempo si trasforma così in Spazio, e la Storia si trasforma così in Geografia. Non si tratta tanto di progredire (in senso temporale), quanto di estendere (in senso spaziale) il modello di riproduzione sociale comples­siva dell’occidente all’intero pianeta. Al del progresso sì sostituisce il mito della globalizzazione.

Ovviamente tutto questo è temporaneo, e non è per nulla la fine della storia. Ma si tratta di  un “temporaneo” che può durare molti decenni, e che va dunque oltre la prevedibile durata della vita non solo di coloro che come noi sono di “mezza età” ma anche di coloro che sono più giovani. Per me le odierne resistenze alla globalizzazione, presentate come resistenze al progresso (qui la mistificazione spaziale si incontra con quella temporale), sono in realtà paradossalmente quanto di più “progressistico” esista al mondo. Far capire questo paradosso (effettivamente non di facile comprensione, in quanto implica il possesso della dialettica) oggi il compito principale di una filosofia del presente e di un buon uso dell’universalismo.

 

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