Samir Amin: una spallata contro l’eurocentrismo (Ma occorre essere ancora più radicali)

giu 20th, 2023 | Di | Categoria: Dibattito Politico

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Samir Amin: una spallata contro l’eurocentrismo

(Ma occorre essere ancora più radicali)

di Carlo Formenti

 

Premessa

Samir Amin è, con Giovanni Arrighi e Gyorgy Lukács, uno dei tre autori che più hanno indirizzato i miei sforzi di rileggere il marxismo alla luce dell’attuale realtà storica (1). I testi raccolti sotto il titolo Eurocentrismo e pubblicati da La Città del Sole (tradotti da Nunzia Augeri e introdotti da Giorgio Riolo) sono di estrema importanza, sia perché consentono di approfondire alcuni temi di fondo che Samir Amin aveva affrontato in lavori precedenti, sia perché permettono di valutare, assieme al suo decisivo contributo alla critica del marxismo occidentale, anche alcuni limiti intrinseci a tale critica. Limiti che gli hanno impedito, come cercherò di dimostrare qui di seguito, di sbarazzarsi del tutto del più tenace dei pregiudizi della tradizione teorica con cui pure ha polemizzato per tutta la vita: mi riferisco all’idea secondo cui spetterebbe al socialismo realizzare le “promesse mancate” della modernità borghese. Ma procediamo con ordine. Prima di entrare nel merito degli argomenti trattati nel volume, è il caso di premettere le definizioni che Samir Amin dà di alcuni concetti fondamentali che ricorrono nel testo.

Culturalismo. Qualsiasi teoria, in apparenza coerente, che si vorrebbe olistica, fondata sull’ipotesi di invarianti “culturali” che avrebbero il potere di persistere oltre le trasformazioni apportate dai sistemi economici, sociali e politici (pag. 31).

Modernità. È l’affermazione che l’essere umano, individualmente e collettivamente, può e deve fare la propria storia (pag. 37).

Sotto determinazione. Questo concetto distingue il metodo di Samir Amin da quello del marxismo meccanicistico e dogmatico, secondo il quale la logica di ogni istanza sociale è rigidamente sovra determinata dalle “leggi” dell’economia. Per Amin, ogni istanza segue al contrario una logica propria, indipendentemente dal fatto che il suo stato sia quello di determinata in ultima istanza (l’economico nei sistemi capitalisti) o di dominante (il politico nei sistemi tributari, il culturale nel futuro comunista). Tali logiche non sono necessariamente complementari: entrano in conflitto e non si può predeterminare quale di esse prevarrà (cfr. pag. 104). Questa visione richiama quella di Lukács, laddove costui parla della totalità sociale come “complesso di complessi” (2) ognuno dei quali non è riducibile a “sovrastruttura” rispetto ai rapporti economici. Tanto per Lukács quanto per Amin la libertà si definisce partire da questo conflitto fra logiche che permette di scegliere fra alternative possibili.

Società tributarie. La “rivoluzione tributaria” consiste, secondo Amin, nella transizione dalle antiche forme di organizzazione sociale fondate sulla parentela all’interno di piccole comunità a una serie di organizzazioni sociali basate sul predominio del potere politico dello stato (cfr. pag. 78). Samir Amin rigetta la visione dei cinque stadi evolutivi teorizzata da Stalin ma, come vedremo, finisce per proporre a sua volta un’articolazione dell’evoluzione storica in stadi (il che, a mio avviso, confligge con il suo approccio critico nei confronti delle astrazioni pseudo universaliste del culturalismo).

Quanto ai concetti di eurocentrismo e di capitalismo realmente esistente non è il caso di sintetizzarli qui in poche righe, nella misura in cui sono il prodotto di un’ampia e complessa argomentazione che discuterò nelle prossime pagine. Un’ultima avvertenza: l’articolo non segue l’ordine espositivo del libro ma ne raggruppa i temi senza tenere conto del fatto che nel testo di Samir Amin essi vengono affrontati in parti distinte, spesso non contigue.

 

La critica dell’economicismo e il concetto di capitalismo realmente esistente

Samir Amin prende le distanze dagli autori che riducono il marxismo a economia politica del capitalismo: chi si propone di analizzare le leggi dell’economia “pura”, argomenta, non si occupa del capitalismo realmente esistente in quanto sistema totale (3) economico, sociale e politico, ma descrive un capitalismo immaginario, si allontana, cioè, dalla via tracciata da Marx, dalla sua scelta di porre il feticcio della merce al centro della specificità del capitalismo, onde descriverne la differenza dai sistemi precedenti, nei quali l’istanza dominante non era l’economia, mentre nel capitalismo la legge del valore domina tutto e l’economia di mercato diventa società di mercato (4). Ma soprattutto il merito storico di Marx consiste nell’aver descritto il capitalismo come un sistema che si muove da squilibrio a squilibrio, e nell’aver spiegato tale dinamica come il riflesso dei mutamenti nei rapporti di forza sociali: sono questi ultimi che determinano la storia del capitalismo realmente esistente. Per farla breve: economia e politica sono inseparabili, e l’economia pura è un mito.

Ciò detto, Samir Amin sottolinea come il marxismo non abbia sviluppato la questione del potere e della politica (i modi di dominio) così come ha fatto con l’economia (i modi di produzione). L’approccio economicista tende a ignorare questo limite e a ridurre il tutto alla logica dell’economia ritenendo di poterne prevedere gli effetti futuri, laddove, se è vero che il futuro si costituisce con le lotte sociali, occorre ammettere che esso è per definizione imprevedibile (5). Se a ciò si aggiunge l’affermazione secondo cui “non esistono leggi generali della transizione”, per cui quest’ultima può essere analizzata solo a posteriori (6), è evidente che siamo in presenza di una visione che si discosta radicalmente da qualsiasi interpretazione determinista/meccanicista del marxismo; una visione che ruota appunto attorno al concetto di sotto-determinazione (vedi sopra).

A permetterci di capire la realtà del capitalismo realmente esistente non sono le astrazioni elaborate dai teorici (marxisti e non) dell’economia politica, bensì l’analisi concreta della storia della conquista del mondo da parte del capitalismo; una storia che dimostra come tale conquista non abbia reso omogenee tutte le società del pianeta, allineandole al modello europeo, ma abbia al contrario generato un sistema mondo (7) sempre più polarizzato, cristallizzato in centri sviluppati e periferie arretrate; polarizzazione che, sostiene Amin, rappresenta la contraddizione più esplosiva del nostro tempo.

Pur di fronte al dato indiscutibile di tale polarizzazione, la visione economicista ne mistifica il senso, descrivendo il sistema mondiale come un insieme di formazioni capitalistiche più o meno progredite ma tutte in marcia verso lo stesso esito finale. Viceversa Amin, al pari degli altri teorici dello scambio ineguale e della dipendenza (8), considera il sistema capitalista come un insieme mondializzato, complesso e polarizzato nel quale è il tutto a determinare le parti e non l’inverso. Se si adotta tale approccio è inevitabile giungere alla conclusione che la polarizzazione è una caratteristica costitutiva del capitalismo mondiale, per cui i paesi detti “sottosviluppati” non sono ritardatari in cammino sulla via che li condurrà, prima o poi, a raggiungere quelli più avanzati.

A partire dagli anni Settanta, in concomitanza con il completamento del processo di decolonizzazione delle nazioni africane, asiatiche e latinoamericane, le sinistre occidentali hanno considerato esaurita la fase dell’alleanza fra lotte di liberazione nazionale e lotte di classe nei paesi del centro, liquidando come “terzomondiste” le posizioni di chi insisteva a considerare il conflitto fra Nord e Sud del mondo come parte integrante della lotta di classe a livello mondiale. A partire da allora i marxismi occidentali, accantonate le tesi di Lenin sulla lotta antimperialista, sono regrediti alla visione meccanicista/economicista pre-leninista che, da un lato riduce la lotta di classe alla polarità operai/padroni, dall’altro mette sullo stesso piano i conflitti sociali all’interno dei paesi sviluppati con quelli all’interno dei paesi periferici. In questo modo le enormi differenze di reddito fra le classi lavoratrici dei primi e dei secondi non sono più attribuite allo sfruttamento dei centri nei confronti delle periferie, ma vengono ricondotte, accettando le tesi degli economisti borghesi, a fattori endogeni, come i bassi livelli di produttività all’interno dei paesi periferici.

Samir Amin rovescia il punto di vista, dimostrando come la vera causa vada ricercata nei trasferimenti di valore dalla periferia al centro, resi possibili dal fatto che, mentre le economie del capitalismo centrale sono autocentrate, l’accumulazione nella periferia è determinata fin dall’origine dalle esigenze del centro. L’unica condizione che consentirebbe ai paesi periferici di avviare un processo di sviluppo autonomo, fondato su fattori endogeni, sostiene Amin, è il loro sganciamento (delinking) dal processo di accumulazione mondializzato.

Non ho qui lo spazio di approfondire il concetto di delinking, al centro di molti altri lavori di Samir Amin ai quali rinvio (9), per cui passo direttamente ad affrontare il tema centrale del libro, vale a dire l’eurocentrismo. Mi accosterò a questa categoria per gradi, discutendo prima il concetto di società tributaria e il ruolo che Samir Amin attribuisce alle rivoluzioni religiose associate alla transizione fra società comunitarie e società tributarie.

 

La funzione della religione nella divergenza fra percorsi evolutivi delle società tributarie

La religione è l’oppio dei popoli? Ridurre il giudizio di Marx sul fenomeno religioso a questa battuta, argomenta Samir Amin, non è solo sbagliato: è uno dei peggiori abbagli del marxismo dogmatico e “materialista volgare”, nella misura in cui rimuove il fatto che gli esseri umani non possono evitare di porsi l’interrogativo relativo al senso della vita. L’uomo è un “animale metafisico”, per cui le religioni rappresentano una parte importante della realtà sociale. Ciò posto, Samir Amin rifiuta anche le visioni che rovesciano il rapporto fra struttura e sovrastruttura, identificando nel fenomeno religioso la causa fondamentale delle grandi mutazioni in campo economico, politico sociale. Rifiuta, fra le altre, la tesi di Max Weber che attribuisce il genio creatore della modernità capitalistica alla riforma protestante.

La modernizzazione capitalistica, argomenta Amin, non è il prodotto dell’evoluzione di determinate interpretazioni religiose ma, al contrario, sono quest’ultime che si sono adattate alle esigenze delle mutazioni socioeconomiche. La modernizzazione è piuttosto il prodotto di una riforma delle classi dominanti conclusasi, fra le altre cose, con la creazione di chiese nazionali (vedi i fenomeni del gallicanesimo e dell’anglicanesimo) controllate da tali classi. Si è trattato di un processo complesso fondato sul compromesso fra borghesia emergente, monarchia e grandi proprietari terrieri che ha emarginato classi popolari e contadini. Secondo tale punto di vista, le religioni finiscono insomma per auto riformarsi onde adattarsi ai mutamenti della realtà sociale ma, al tempo stesso, e dialetticamente, le logiche religiose sono a loro volta in grado di accelerare, rallentare o addirittura bloccare il cambiamento sociale (10).

A questo punto è il caso di analizzare il modo in cui Samir Amin tratta la questione del rapporto fra religione ed evoluzione delle società tributarie, argomento che occupa buona parte del libro di cui stiamo qui discutendo. Poco fa ricordavo che Samir Amin rifiuta l’articolazione in cinque stadi evolutivi della storia umana elaborata dal diamat staliniano. Al tempo stesso suggerisce a sua volta una diversa successione in stadi, uno dei quali è appunto quello delle società tributarie (che, per inciso, Amin rifiuta di far ricadere sotto categorie quali il modo di produzione schiavistico e il modo di produzione asiatico). Secondo Amin, sono definibili come società tributarie civiltà assai lontane nello spazio e nel tempo: dall’antico Egitto all’impero cinese, dalla classicità greco romana al medioevo europeo e al mondo islamico. Che cosa unifica realtà storiche tanto lontane nello spazio e nel tempo? In primo luogo un blocco egemonico fondato, sia pure con varianti, sulla triade proprietari terrieri che controllano il surplus prodotto dai contadini, esponenti del potere politico (re, signori e caste militari) e gerarchie religiose. Ma soprattutto Amin sostiene che tutte le culture tributarie sono caratterizzate dal prevalere dell’aspirazione metafisica, dalla ricerca della verità assoluta. Di qui la centralità dell’impronta religiosa sull’ideologia dominante. A imporre tale sacralizzazione dell’ideologia sarebbe la trasparenza dei rapporti di sfruttamento: il compito della religione è in primo luogo quello di giustificare/legittimare la disuguaglianza (non a caso le rivolte popolari si fondano su interpretazioni alternative dei testi sacri).

Nel modo tributario compiuto (che ha cioè completato la transizione rispetto alle precedenti forme comunitarie) l’ideologia diventa ideologia di stato, il che fa sì che la sovrastruttura risulti perfettamente adeguata ai rapporti di produzione. Il raggiungimento di questo equilibrio fa sì che le società tributarie possano raggiungere elevati livelli di ricchezza (11) ma, nel contempo, fa sì anche che esse, pur non essendo immobili, non favoriscano i cambiamenti qualitativi dei rapporti di produzione (Amin cita l’esempio dell’espansione islamica: le società conquistate non vengono trasformate, non vengono modificate le forme della proprietà e dell’organizzazione del lavoro, mentre la religione si dimostra capace di adattarsi a società diverse da quella in cui era nata).

Ad alcune società tributarie, come l’impero ellenistico e l’islam che ne raccoglie l’eredità, si deve lo sviluppo di una visione universalistica associata al sincretismo religioso. La transizione dall’alienazione metafisica delle società tributarie all’alienazione mercantile delle società capitalistiche richiederà tuttavia che tale universalismo sia cambiato di segno, richiederà cioè una rivoluzione nelle interpretazioni della religione (che per Amin non è causa, come per Max Weber, bensì concausa ed effetto al tempo stesso della grande trasformazione). Paradossalmente, la storia ha dimostrato che le società tributarie periferiche (non compiutamente sviluppate secondo i criteri sopra esposti) hanno trovato minori difficoltà ad avanzare verso il capitalismo di quelle più centrali e sofisticate, come l’islam.

Il rovesciamento di prospettiva fra il millennio caratterizzato dall’opposizione fra oriente civilizzato e occidente semibarbaro, e il millennio successivo, che contrappone il Nord cristiano al Sud arabo-islamico, piombato in una sorta di stasi, è stato possibile proprio perché il feudalesimo europeo era un modo tributario primitivo, a causa del carattere debole e decentralizzato del potere politico. Ed è stato possibile anche perché la relativa povertà della scolastica europea lasciava, rispetto all’assai più raffinata scolastica islamica, molti più “buchi” da cui è potuta penetrare la cultura dell’empirismo, favorendo le tendenze alla laicizzazione. Così, nel momento in cui le condizioni oggettive impongono il passaggio a forme più evolute del modo tributario, con l’affermarsi delle monarchie assolute, l’esito non è quello di un allineamento dell’Europa medievale alle altre società tributarie evolute: in questo caso, infatti, la costituzione di stati centralizzati non blocca bensì accelera l’evoluzione verso il capitalismo, e ciò avviene perché, quando le monarchie assolute si consolidano, le contraddizioni sociali associate all’emergere di nuove classi (capitale agrario, mercantile e manifatturiero) sono troppo avanzate per poter essere eliminate. Per potersi imporre sulle autonomie feudali, la monarchia assoluta dovrà allearsi con queste nuove forze sociali che , qualche secolo dopo, le si rivolteranno contro.

 

Critica della narrazione eurocentrica

La cultura europea, anche nelle sue forme più sofisticate, è ben lontana dal riconoscere che il vantaggio competitivo che ha consentito alle nazioni del Vecchio Continente di dominare il mondo sia stato il prodotto dello sviluppo ineguale fra le diverse forme di società tributarie, un fenomeno che ha paradossalmente favorito le più arretrate di esse. Accademici, intellettuali, professori di ogni ordine e grado, per tacere di giornalisti e politici, raccontano tutta un’altra storia. Una storia che attribuisce alla cultura europea una pretesa continuità temporale e geografica che avrebbe tracciato, fin dai tempi dell’antica Grecia, un netto confine fra civiltà e barbarie, un confine che oggi si declina come opposizione fra Nord e Sud del mondo, fra centro e periferie.

Una storia che si fonda su una serie di mistificazione ideologiche, a partire da quella che ispira il concetto di Rinascimento, concetto che si afferma proprio nel momento in cui l’Europa si avvia a rompere con la propria storia, passando dal feudalesimo al proto capitalismo. Viceversa, secondo tale concetto, l’antichità greco-romana avrebbe conosciuto una sorta di prima modernità, poi rimossa nei secoli bui dell’oscurantismo religioso. Questa idea si fonda sul radicato pregiudizio che arruola la Grecia antica nel campo della razionalità occidentale, contrapponendola alla barbarie orientale (12). Una visione del tutto improponibile, argomenta Samir Amin, nella misura in cui i debiti della cultura greca nei confronti di quella egiziana, e di tutte le culture orientali che ne hanno anticipato la fioritura, sono tali e tanti da collocarla, semmai (anche considerati i fattori geopolitici che governavano il Mediterraneo orientale in quell’epoca), nel campo orientale; un’appartenenza che la nascita dell’impero alessandrino ha ulteriormente consolidato, incrementandone le contaminazioni con la tradizione indoiranica.

Assieme al peso del mito delle radici greche va valutato quello, non meno rilevante, del mito delle radici giudaico-cristiane. Posto che il binomio in questione è una costruzione recente, nel senso che, argomenta Amin, la parentela con la tradizione giudaica è un costrutto che serve a ripulire la coscienza europea da millenni di pratiche antisemite e a legittimare il ruolo Israele come avamposto dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente. Un costrutto palesemente artificiale, considerato che la discontinuità teologica fra Antico e Nuovo Testamento è radicale e che la religione ebraica non ha alcuna aspirazione universalistica, al contrario di quelle cristiana e islamica che, ad onta dei reciproci conflitti, appaiono decisamente più vicine. In ogni caso, anche a prescindere da questa mistificazione, non regge la tesi secondo cui il cristianesimo (in particolare nella sua versione protestante, secondo Weber) sarebbe stato più favorevole di altre religioni alla fioritura dell’individuo e delle sue capacità di dominio della natura, al contrario di islam, induismo e confucianesimo che viceversa ostacolano il cambiamento sociale (13).

I due parti mostruosi della mitologia eurocentrica sono l’orientalismo e il razzismo. Il primo è la costruzione ideologica di un oriente mitico che presenterebbe caratteristiche invarianti (immodificabili) rispetto a quelle (progressive per definizione) attribuite all’occidente. Il razzismo ne è il risvolto inevitabile, nella misura in cui le caratteristiche in questione sono, rispettivamente, negative nel primo caso positive nel secondo. In questo senso l’eurocentrismo è un caso paradigmatico di culturalismo provinciale (vedi la definizione di culturalismo riportata nella “Premessa”).

Purtroppo, accusa Samir Amin, il marxismo occidentale non è esente da questa peste. Lo stesso Marx ha in più occasioni giustificato la conquista del pianeta da parte dell’imperialismo occidentale, nella misura in cui questo avrebbe il merito, ad onta dei suoi crimini, di accelerare la storia “risvegliando” gli altri popoli dal loro millenario letargo (14). Ma se Marx ha in parte emendato questo peccato nei suoi scritti più tardi, ciò non si può dire per il marxismo occidentale, il quale è sempre apparso condizionato da una eredità evoluzionistica che gli ha impedito di squarciare il velo dell’evoluzionismo borghese. Non a caso esso, al contrario di Lenin e Mao, non ha mai capito la realtà dell’imperialismo, come tristemente certificato dalla solidarietà della Seconda Internazionale nei confronti delle imprese coloniali dei rispettivi paesi. Una cecità proseguita fino ai giorni nostri che impedisce di comprendere quella polarizzazione del sistema mondo che, mentre da un lato pone all’ordine del giorno la rivolta dei popoli periferici, ritarda dall’altro la radicalizzazione del proletariato dei centri.

Rilanciando tale visione, già ampiamente argomentata in testi precedenti, Eurocentrismo propone un nuovo approccio al tema della “lunga transizione” dal capitalismo mondiale al socialismo mondiale. Tuttavia nell’affrontare l’impresa si trascina dietro alcuni residui della concezione contro cui Amin si è battuto per tutta la vita, come cercherò di di dimostrare nel prossimo paragrafo.

 

Partire da Samir Amin per andare oltre

I due nodi teorici in cui emergono i limiti della critica di Amin al marxismo occidentale ruotano attorno alle categorie di universalismo e modernità. Amin riconosce, con Marx, che la natura del discorso illuminista sulla modernità è inequivocabilmente borghese, che capitalismo e modernità emergono assieme e rappresentano due facce di una sola e medesima realtà. Riconosce che la ragione “emancipatrice” (nel senso della liberazione dell’individuo dai vincoli della società tributaria) delle rivoluzioni borghesi si incarna nella triade libertà, uguaglianza, proprietà e che la pietra angolare dell’ideologia borghese è sempre stata e resta tuttora l’identità fra democrazia e mercato. Perché, allora, parlare, in rifermento alle teorie di von Hayek e altri intellettuali neoliberisti, di una ragione borghese “degenerata”, ridotta a libertà e proprietà, per cui non è nemmeno più quella dell’illuminismo (cfr. pag. 42)? Quel “degenerata” vuol dire che esisterebbe una ragione borghese che non è del tutto riducibile alla triade libertà (formale), uguaglianza (formale), proprietà (reale)?

Dopo Marx, scrive Amin, la ragione emancipatrice deve sostituire il terzo elemento del trittico con fraternità, il che implica abolire la proprietà capitalistica, sostituirla con la proprietà sociale. Giusto, ma ciò non implica anche attribuire un significato del tutto diverso anche ai concetti di libertà e uguaglianza? Altrimenti la triade “corretta” con l’inserimento della fraternità al posto della proprietà campeggiava già sulla bandiera della Rivoluzione francese, per cui ripiombiamo nell’equivoco secondo cui la rivoluzione socialista sarebbe l’attuazione delle “promesse mancate” della più radicale delle rivoluzioni borghesi, quella francese appunto. Personalmente ritengo tale equivoco estremamente pericoloso, nella misura in cui rimuove il fatto che, mentre la rivoluzione borghese ha come protagonista una classe che già deteneva gran parte del potere reale, per cui per vincere le è bastato dare una spallata alle istituzioni politiche che rispecchiavano la putrescente realtà dell’Ancien Regime, il proletariato è al contrario una classe espropriata di qualsiasi forma di potere, tanto economico quanto politico e culturale, per cui la sua rivoluzione non potrà che segnare una rottura, una discontinuità assolutamente radicali nel corso della storia.

Viceversa ogni illusione di “continuismo” è deleteria. Cedendo a tale tentazione, si lascia infatti rientrare dalla finestra la visione di una necessità, di una “legge” storica immanente al movimento stesso della modernità (cui si attribuisce la capacità/possibilità di trascendere la sua originaria determinazione di classe) il quale esigerebbe di per sé la transizione dal capitalismo al socialismo; visione che pure Amin sembra negare laddove afferma (vedi sopra) l’inesistenza di presunte leggi della transizione e l’imprevedibilità di un futuro (sotto)determinato dal conflitto fra differenti forze sociali.

Ma il demone del continuismo si insinua anche in alcuni passaggi della sua requisitoria contro l’eurocentrismo, in particolare laddove ne denuncia il falso universalismo. Abbiamo visto come demolisca la narrazione della presunta continuità di un destino europeo segnato fin dalla classicità greca, smascherandone il carattere di un culturalismo (vedi la definizione riportata nella Premessa) localistico, provinciale. Una deformazione, scrive, che annulla l’ambizione universalistica sulla quale pretende di fondarsi (cfr. pag. 186). Al tempo stesso, Amin paventa il rischio che al mito orientalista, con cui l’eurocentrismo vorrebbe inchiodare le altre culture a un destino di arretratezza, si opponga il mito rovesciato di un’identità africana, asiatica o latinoamericana, fondato a sua volta sulla rivendicazione di specificità immutabili (considerate migliori di quelle europee). Accennando a tale rischio, allude a una doppia involuzione culturalistica, eurocentrica in occidente ed eurocentrica rovesciata nel terzo mondo, che impediscono di rispondere alle esigenze di “un universalismo all’altezza della sfida” (cfr. pag. 166). E altrove si chiede quali sono gli elementi sulla cui base si potrebbe pensare “un progetto culturale realmente universalistico”.

Siamo insomma nel pieno della rivendicazione di un universalismo “buono”, originario in cui non si può non riconoscere il marchio dell’illuminismo borghese. E infatti leggiamo che “l’ambizione universalista alimenta fin dalle origini le ideologie di sinistra, anzitutto di quella borghese che ha elaborato le idee di progresso, ragione, diritto e giustizia” (pag. 214). Insomma, anche qui scatta la trappola del continuismo (il socialismo che raccoglie le bandiere che la borghesia ha lasciato cadere nel fango), l’assunzione di categorie (progresso, ragione, diritto, giustizia) avulse dalle loro concrete determinazioni storiche (cioè di classe) e, dulcis in fundo, ricompare la logica determinista meccanicista contro cui Amin ha lanciato tanti strali. Così Amin scrive che se la generalizzazione staliniana dei cinque stadi è falsa ciò non significa che si debba rinunciare ad ogni modello teorico generale. Così ci dice che l’inserimento di tutte le società del pianeta nel sistema capitalistico “ha creato le condizioni di una universalizzazione divenuta necessaria” (pag. 207). Così ci prospetta uno schema di transizione articolato in tre tempi: universalismo monco dell’eurocentrismo capitalistico/affermazione della specificità nazionale-popolare/ricomposizione di un universalismo socialista superiore (pag. 212).

Va sottolineato l’uso delle parole “affermazione della specificità nazionale popolare”, che rispecchia il fatto che Amin si rifiuta di definire socialiste rivoluzioni come quella cinese, o come quelle latino americane, in quanto preferisce appunto chiamarle nazionali-popolari. Del resto, se le avesse definite socialiste, sarebbe stato indotto a ragionare sulla necessità di mettere in discussione l’intera tradizione teorica (da Marx-Engels a oggi) relativa ai temi della transizione (tradizione che fa a pugni sia con il socialismo con caratteri cinesi che con alcune esperienze socialiste dell’America Latina). Ma evidentemente non era pronto a compiere questo passo, che lo avrebbe aiutato a capire che certe contaminazioni fra tradizioni culturali del terzo mondo e teoria marxista non meritano il suo giudizio liquidatorio sulla presunta simmetria fra eurocentrismo e “culturalismi” terzomondisti, così come lo avrebbero aiutato a capire che oggi è più che giustificato lo scetticismo nei confronti delle costruzioni generali, di tutte le costruzioni generali, non solo di quelle staliniane, ma anche di quelle contenute in alcune parti dei suoi lavori, che gli hanno impedito di portare fino in fondo il lavoro di demolizione nei confronti dei dogmi che impediscono al marxismo di uscire dalla crisi in cui si dibatte da decenni.


Note
(1) Cfr. C. Formenti, Guerra e rivoluzione, 2 voll., Meltemi, Milano 2023; vedi anche Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019.
(2) Cfr. G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023. Il concetto della società come complesso di complessi è approfondito sia nella Introduzione di N. Tertulian che nella mia Prefazione a quest’opera.
(3) Anche questa insistenza sull’esigenza di analizzare il capitalismo come sistema totale è un tratto comune fra il pensiero di Samir Amin e quello di Lukács.
(4) Sulle differenze radicali fra il modo di produzione capitalista e le precedenti formazioni sociali, vedi anche C. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
(5) E’ questa imprevedibilità che ha fatto sì che Marx si sia sempre attenuto, nel descrivere il futuro socialista, al principio di tracciarne solo alcuni caratteri generali.
(6) Il rifiuto di definire “leggi” dell’evoluzione storica in grado di prefissarne la direzione è anche al centro del pensiero di Lukács (vedi Ontologia, op. cit.) il quale arrivava ad affermare che le cause dei mutamenti storici possono essere comprese solo ex post.
(7) la categoria di sistema-mondo accomuna Samir Amin ad altri esponenti del pensiero della dipendenza, come Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e Gunder Frank (vedi, in proposito, A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.
(8) Vedi A. Visalli, op. cit.
(9) Vedi, fra gli altri, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986; vedi anche Classe et nation, Nouvelles Editions Numériques Africaines. Dakar 2015.
(10) Particolarmente interessante, da questo punto di vista, è l’analisi che Amir Amin dedica al rapporto dialettico fra spirito del capitalismo americano e religiosità delle sette protestanti emigrate nel Nuovo Continente dalla madre patria inglese. Le sette protestanti emigrate dall’Inghilterra, scrive, avevano una interpretazione particolare del cristianesimo, non condivisa da cattolici e ortodossi né dagli anglicani. Tale interpretazione darà una impronta forte all’ideologia Usa, fungendo da strumento della conquista del continente, che viene legittimata a suon di citazioni bibliche (la conquista della Terra Promessa). In seguito gli Usa estenderanno al pianeta il progetto di realizzare l’opera di Dio (gli americani si considerano popolo eletto dal Signore). È anche questo fattore a rendere l’imperialismo americano più feroce dei precedenti. Tuttavia Amin aggiunge che sarebbe sbagliato affermare che è stato il fondamentalismo religioso a imporre la propria logica al potere: è stato piuttosto il capitale a sfruttare questo carattere dell’ideologia americana al proprio servizio.
(11) È noto che la Cina, nel secolo XVIII, era di gran lunga più ricca di tutte le nazioni europee, Inghilterra compresa, come sottolineato da Adam Smith che considerava il modello di sviluppo cinese, fondato su un equilibrio stabile garantito dalla produzione agricola e dal commercio interno al suo immenso territorio, più “naturale” del modello europeo, fondato sull’accumulazione allargata di capitali. Vedi, in proposito, G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007 (recentemente rieditato da Meltemi).
(12) Una versione paradossale, e intrisa di razzismo, del mito in questione ci è offerta nel film Trecento, in cui gli eroi spartani si battono contro i persiani, rappresentati come orde di mostri. Ne Il socialismo è morto. Viva il socialismo, op. cit. ho messo in luce come i luoghi comuni spacciati da accreditati filosofi accademici occidentali non siano poi così lontani da questa rappresentazione grottesca.
(13) Il prodigioso decollo dell’economia di grandi nazioni orientali come la Cina e l’India è la più evidente smentita di tale pregiudizio. Tanto più che il contatto con il capitalismo occidentale, per queste nazioni, ha avuto esiti catastrofici, distruggendone le ricchezze e precipitandole a lungo nello stato di province coloniali, per cui il loro sviluppo è potuto avvenire solo dopo l’emancipazione dal gioco occidentale e non grazie alla loro occidentalizzazione.
(14) Uno dei critici più severi dell’eurocentrismo di Marx ed Engels è Hosea Jaffe (cfr. Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007. Mi sono occupato a mia volta del tema in un articolo apparso su questa pagina: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html
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