PITAGORA, MARX E I FILOSOFI ROSSI

lug 22nd, 2014 | Di | Categoria: Recensioni

Riceviamo e pubblichiamo la prefazione del nuovo libro di Roberto Sidoli, Daniele Burgio e Lorenzo Leoni intitolato “Pitagora, Marx e i filosofi rossi” di prossima pubblicazione: nella prefazione, intitolata a sua volta “Marx, Blade Runner e la filosofia”, si ritrovano le linee generali e le tesi essenziali del libro.

Buona lettura.

 

 

PITAGORA, MARX E I FILOSOFI ROSSI

L’effetto di sdoppiamento nella filosofia occidentale

Roberto Sidoli, Daniele Burgio e Lorenzo Leoni

 

 Prefazione

Marx, Blade Runner e la filosofia

 

Pitagora, il geniale filosofo e matematico, un protocomunista?

Aristotele, un sostenitore accanito della schiavitù e della proprietà privata dei mezzi di produzione?

Locke e Voltaire, due filosofi illuministi, allo stesso tempo sostenitori della legittimità della schiavitù e del traffico di schiavi africani verso le colonie europee in America?

Il sofisticato filosofo Martin Heidegger, un pensatore antisemita e anticomunista, capace a volte di scavalcare “a destra” lo stesso nazismo genocida?

Sembrano spunti quasi paradossali, ma la realtà della dinamica reale di sviluppo della filosofia occidentale, da circa 2000 anni e fino all’inizio del nostro terzo millennio, ha riprodotto al suo interno la coesistenza e lotta quasi ininterrotta tra due tendenze principali, alternative tra loro, rispetto ai problemi e alle opzioni politico-sociali: e cioè tra una “linea nera” (partendo da Trasimaco e Aristotele) che accettava e legittimava più o meno criticamente l’esistenza e la riproduzione delle multiformi formazioni economico-sociali classiste (schiavistiche, feudali o capitalistiche) basate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e una “linea rossa” (inaugurata da Pitagora e dalla sua scuola di pensiero) che ha via via effettuato invece una precisa scelta di campo collettivistica ed egualitaria, a favore di rapporti sociali di produzione (e politico-sociali) fondati sulla cooperazione e la fraternità tra gli uomini, le diverse nazioni e i sessi, in assenza di proprietà privata e di sfruttamento tra gli esseri umani, attraverso un percorso multiforme che arriva fino a J. Derrida e A. Tosel passando per Dolcino, Winstanley, Marx, Engels e Lenin, per citare solo pochi nomi.

Prima di entrare nell’esame delle due “linee” filosofico-sociali (e filosofico-politiche) alternative, risulta tuttavia indispensabile fornire una definizione di massima rispetto alla natura e alle funzioni principali di quello strano ma importante fenomeno chiamato filosofia.

La filosofia costituisce una sorta di “terra di confine” e un particolare punto di interconnessione della pratica teorica umana posta tra il campo protoscientifico/scientifico, il settore politico-sociale e l’esperienza diretta di tutti gli esseri umani (il senso della vita, il problema della morte, il rapporto tra bene e male, ecc.). La filosofia risulta il settore della praxis riflessiva umana che ricerca la verità e le possibili soluzioni per le mutevoli “questioni fondamentali” e domande essenziali, non risolvibili (o non ancora risolvibili) attraverso la pratica protoscientifica/scientifica, che mano a mano hanno interessato e assillato tuttora il genere umano in modo mutevole e proteiforme, mediante il processo composito di elaborazione autocosciente di concetti e categorie teoriche (il Begriff hegeliano) dotate di un raggio d’azione generale (ad esempio il concetto di archè-principio fondamentale, sviluppato dai presocratici), create e costruite via via in base alle conoscenze e esperienze, alle capacità intellettuali e all’immaginazione creativa dei diversi filosofi; a volte, come nel caso della filosofia di matrice irrazionalista, arrivando a conclusioni demolitorie proprio rispetto ai poteri e potenzialità della ragione umana, ma sempre tentando di dimostrare tali tesi per via autonoma e utilizzando in parte degli argomenti che si appellano alla riflessione e al giudizio critico degli esseri umani, come nel caso di Pascal, Schopenhauer, Kierkegaard, ecc.

L’oggetto e le questioni fondamentali che suscitano come minimo da due millenni l’interesse della nostra specie, formando gli oggetti e le “meraviglie” specifiche delle lotte e del processo di sviluppo della filosofia, della sua ricerca della verità da Talete (600 a.C.) fino ai nostri giorni, della sua caccia al senso/ordine e immagine del mondo, in una continua dialettica tra domande e risposte di respiro generale, risultano di varia natura e assai variegate. Possono essere comunque sottolineate le più importanti, e cioè:

-              la questione della priorità tra materia e spirito (il “Cielo”, nella terminologia confuciana): Engels, nel suo “L. Feuerbach”, la definì correttamente come la questione centrale e decisiva nella storia filosofica, partendo proprio da Talete e dai “presocratici” ;

-              Il correlato problema dell’esistenza/inesistenza di divinità (o di una sola divinità) superpotenti e superiori al genere umano: le domande/risposte sull’esistenza di Dio, in altri termini;

-              il “problema-morte” e le questioni correlate dell’esistenza/inesistenza dell’anima e della sua immortalità, da Pitagora in poi;

-              la possibilità/impossibilità di conoscere in modo adeguato sia l’uomo che la realtà esterna dell’uomo, oltre ai criteri utilizzabili per accertare la verità (la praxis di Marx, ecc.);

-              l’autoanalisi dello stesso pensiero umano, alias la logica formale e dialettica (da Pitagora ed Eraclito) e lo studio delle corrette modalità di funzionamento ed espressione della ragione umana;

-              il dubbio “diabolico” (Cartesio) rispetto alla stessa esistenza, autonoma e indipendente, dell’uomo e/o dei fenomeni, processi ed oggetti diversi da quest’ultimo: il problema del primo film della serie Matrix, se si vuole, o dei “cervelli in una vasca” di H. Putman ;

-              la questione dell’essenza più profonda dell’Universo: ad esempio l’acqua per Talete costituiva il fondamento del reale, “perché ciò da cui tutto si genera è il principio di tutto” .  Non a caso i primi filosofi occidentali dell’area ionica si interessarono principalmente dell’“ontologia, della natura, dell’universo, delle origini e della destinazione finale di tutte le cose. Gli antichi pensatori furono profondamente interessati rispetto ai problemi cosmologici. Tutto ciò in seguito venne definito come ontologia – lo studio della natura dell’essere”;

-              la dialettica tra infinito e finito, relazione e problema che attraversa la filosofia occidentale a partire dal geniale filosofo idealista Pitagora fino al geniale materialista Lenin dei “Quaderni filosofici” del 1908/1918;

-              il problema della modificazione e trasformazione continua (Eraclito, ecc.) o, viceversa, della permanenza e “continuità” profonda della realtà (Parmenide, ecc.), dell’ “Essere” e dell’Universo, con lo scontro tra il metodo dialettico e quello invece contraddistinto dalla cristallizzazione metafisica della realtà ;

-              l’enigma delle relazioni/assenza di relazioni tra tempo, spazio e materia in movimento (Agostino, Engels, lo spazio curvo di Einstein, ecc.);

-              la questione della natura umana, della sua componente principale (uomo buono/cattivo, originariamente buono o egoista, ecc.) e della sua immutabilità o trasformazione in base alla stessa pratica sociale/individuale;

-              la questione del pensiero umano e della sua “fonte”, e cioè se esso sia il frutto  di un’anima immateriale o del corpo umano: Alcmeone di Crotone già nel sesto secolo A.C., diversamente dal suo contemporaneo Pitagora, individuò nel cervello la sede del pensiero;

-              le domande/risposte sul ruolo e posizione generale della nostra specie all’interno dell’universo, sul senso e significato (o assenza di significato) della vita, sulle potenzialità e limiti umani (prometeismo e antiprometeismo, ecc.);

-              la possibilità/impossibilità per l’uomo di raggiungere la felicità e serenità d’animo, con i modi diversi per conseguire tali stati d’animo (Epicuro, stoici, ecc.);

-              l’etica e il processo di definizione e scelta tra “bene” e “male”, tra azioni buone e cattive, oltre all’analisi dell’unità e contraddizioni tra fini e mezzi, alla ricerca del senso dell’esistenza umana e al processo di verifica dell’esistenza/inesistenza della libertà, ecc.;

-              l’estetica: il processo di definizione di “bello e brutto”, dell’arte e creazione artistica;

-              le domande/risposte sulle potenzialità e i limiti della ragione umana, alias la dialettica tra razionalismo e irrazionalismo nel pensiero occidentale ;

-              la possibilità/impossibilità per la stessa filosofia di riprodurre “la realtà come in sé” (Lukacs) e, come affermava I. Kant, di creare una “scienza della relazione” (dei rapporti e interconnessioni) “di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana”, a sua volta capace (Lukacs) di “riunire i principi e le leggi” della conoscenza scientifica e di trovare il sacro Graal delle leggi universali dell’universo, in altri termini.

Tuttavia l’elenco in via d’esposizione, approssimativo anche per economia di spazio, non può non comprendere tra le sezioni principali della pratica sociale filosofica anche il processo di focalizzazione teorica sull’economia (intesa in senso ampio), sulla politica e sulla società; sui rapporti sociali di produzione via via creatisi tra gli esseri umani, sullo stato e sul potere, sulle ricchezze e il denaro; sulla valutazione delle disuguaglianze sociali (la schiavitù come tema ricorrente tra i filosofi e pensatori occidentali, da Platone e Aristotele fino a Locke e Voltaire) e sulla costruzione di modelli considerati ottimali per l’organizzazione/riorganizzazione delle relazioni politico-sociali, e cioè le “utopie” e i progetti di ricostruzione della società, da Pitagora e dalla Repubblica di Platone in poi…

Visto che la filosofia risulta una forma particolare di riflessione sociale sui processi naturali e umani, non poteva non interessarsi e interrogarsi anche sulla praxis politica (e scientifica, ponendosi spesso essa come “ponte” e punto d’interconnessione tra i due segmenti dell’attività umana in oggetto), e da Pitagora e Socrate fino all’inizio del nostro terzo millennio la filosofia ha mostrato pertanto una sorta di attrazione fatale per la politica e la scienza politica. In altri termini la filosofia occidentale (e quella di altre aree geopolitiche, a partire da quella cinese), almeno fin dalle lontane elaborazioni di Pitagora e Senofane, dei sofisti e di Socrate risulta anche, e a volte principalmente una “filosofia politica” e politico-sociale, che ha avuto anche (e a volte principalmente) come oggetto specifico della sua ricerca la sfera politica e politico-sociale, ivi comprese tematiche concrete e “volgari” quali violenza e potere, denaro e schiavitù, guerre e rivoluzioni, lotte di classe (la Politica di Aristotele risulta illuminante sotto questo aspetto), gerarchie socio-produttive e legittimità/illegittimità della proprietà privata dei mezzi di produzione, costituendo pertanto una sorta di prosecuzione della politica nel campo teorico e la riflessione di natura sistematica sulla sfera politica, come rilevò Althusser nel 1968.

Già il padre fondatore della filosofia occidentale, Talete, vissuto alla fine del settimo secolo a.C. nella zona greca del mar Ionio, non si interessò esclusivamente di rintracciare e riconoscere “l’unica sostanza” (Abbagnano) “che fa della natura stessa un mondo, … che costituisce il suo essere, l’unica legge che regola il suo divenire”, ma si occupò anche direttamente di altre questioni più prosaiche, di natura scientifica e politico-economica, risultando a tutti gli effetti un politico, “un uomo politico, astronomo, matematico e fisico, oltre che filosofo”. Come uomo politico spinse i Greci della Ionia, come narra Erodoto (I, 170), a unirsi a uno stato federativo con capitale Teo. Come astronomo predisse un eclisse solare (probabilmente quello del 28 maggio 585 a.C.). Come matematico, trovò vari temi di geometria. Come fisico, scoprì le proprietà del magnete. Un altro aneddoto riferito da Aristotele (Pol., I, 11, 1259 a) tende invece a mettere in luce la sua abilità di uomo d’affari: prevedendo un abbondantissimo raccolto di olive, egli prese in affitto tutti i frantoi della regione e li subaffittò poi a un prezzo molto più alto agli stessi proprietari. Si tratta probabilmente di aneddoti spuri, riferiti a Talete più come a simbolo e incarnazione del savio che come a persona”.

Sempre sul piano delle questioni “prosaiche” e materiali fornite via via dall’economia e dalla politica, G. Lukacs giustamente si chiese in modo retorico “è forse Hegel il solo pensatore di rilievo nella cui opera complessiva l’economia occupi un posto importante? Ogni conoscitore della filosofia inglese risponderà subito energicamente di no ad una domanda di questo genere. Egli sa dei rapporti che intercorrono fra Hobbes e Petty; sa che Locke, Berkeley e Hume furono anche economisti, che Adam Smith è stato anche filosofo, che le concezioni sociali di Mandeville sono inseparabili dalle sue idee economiche, ecc. Ma sa nello stesso tempo che il nesso metodologico tra, poniamo, l’economia e la gnoseologia di Locke, è un campo che non è stato ancora studiato, che la letteratura si è finora limitata a stabilire biograficamente questa unione personale di economia e filosofia, e a trattare poi separatamente, l’uno accanto all’altro, i due campi di attività dei relativi pensatori.

Naturalmente questi rapporti non sussistono solo nella filosofia inglese. A partire da Platone e da Aristotele, anzi, da Eraclito, non c’è praticamente un solo pensatore universale, un solo filosofo, che non abbia prestato alcuna attenzione a questo complesso di problemi”.

Anche se il processo concreto di sviluppo della filosofia occidentale ha visto solo una minoranza dei suoi protagonisti principali impegnarsi direttamente nell’area politico-sociale (Pitagora, Marx ed Engels, Sartre, ecc.), la passione rivolta alla ricerca della verità e al processo di analisi sulla gestione degli affari comuni della società, ivi comprese lo studio dei diversi modelli di organizzazione sociopolitica, ha costituito molto spesso una molla irresistibile e una nobile tentazione per i filosofi, almeno a partire dalla scuola di Pitagora  e da circa 2500 anni fa , fino ad arrivare all’inizio del terzo millennio. Nell’opera “La Repubblica”, Platone giunse fino ad affermare che “se i filosofi non governano le città o se quelli che ora chiamiamo governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all’una o all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano”.

Sotto questo aspetto e per questa materia specifica di elaborazione teorica, i filosofi occidentali si sono divisi e confrontati appartenendo a due tendenze e “squadre” principali, i “rossi” e i “neri”.

La squadra più numerosa e quasi sempre egemone, che partì dal sofista Trasimaco per arrivare a Nietzsche e al lucido delirio nazista dei “Quaderni neri” del filosofo antisemita/anticomunista M. Heidegger, a Popper, a Rothbard e agli anarco-capitalisti, in forme diverse e con livelli assai variabili di elaborazione e passione ha costituito una sorta di raffinato branco di “cani da guardia”, collocati e posizionati sul piano teorico e intellettuale, dei ricchi/privilegiati e del processo di riproduzione dei mutevoli rapporti sociali di produzione/potere di matrice classista, esprimendo e sostenendo via via una scelta di campo (più o meno critica, più o meno convinta) a favore della disuguaglianza sociale e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e spesso contestando le tesi contrapposte degli avversari della proprietà privata dei mezzi di produzione, come avvenne ad esempio nel caso del geniale ma filoschiavista Aristotele.

Siamo in presenza (plurimillenaria) di un insieme variegato di “cani da guardia” intellettuali spesso feroci, come nel caso dell’apparentemente etereo filosofo Kierkegaard, che dopo il 1847 abbandonò il suo iniziale anticapitalismo romantico scrivendo nel 1849 che “se la provvidenza deve mandare profeti e giudici, ciò deve avvenire unicamente per aiutare il governo” e sottolineando, pochi anni dopo, che “tutta la mia opera è rivolta alla difesa della situazione esistente”.

Ma per fortuna si è via via sviluppata simultaneamente anche una nutrita “squadra rossa” che, da Pitagora e Diogene di Sinope fino a giungere a Lenin e Gramsci, ha invece espresso (seppur in forme mutevoli, oltre che con livelli di elaborazione e passione molto variabili) una precisa opzione teorica a favore del comunismo e del processo di creazione di relazioni fraterne ed egualitarie fra gli uomini, tentando di legittimare sul piano filosofico-razionale una scelta di campo socioproduttiva di matrice collettivistica, a volte non priva di limiti e contraddizioni secondarie, come nel caso di Lucrezio.

Oltre a essere in dissenso oggettivo, i due gruppi e “campi” filosofico-sociali (e politici) principali si sono spesso scontrati tra loro direttamente: basti pensare ad esempio alla polemica di Aristotele e della sua scuola contro le tesi favorevoli alla comunione dei beni, alla lotta millenaria dei teologi cattolici, a partire da Agostino, contro gli “eretici” collettivistici e i loro pensatori (manichei, marcioniti, ecc.), oppure allo scontro creatosi anche sul piano filosofico dopo il 1840 tra socialisti e antisocialisti, tra marxisti e antimarxisti, ecc.: anche sotto questo profilo la filosofia è risultata, per dirla con Kant, un “campo di battaglia” a volte feroce e cruento, sul piano intellettuale, con precise ricadute anche su quello politico e pratico .

Collocata e posta in una zona intermedia rispetto alle due tendenze principali, è emersa anche l’interessante e variegata “squadra dei meticci”: e cioè il gruppo dei filosofi (Senofane, Eraclito, Platone, Pico della Mirandola, Giovanni Scoto Eriugena, G. Bruno, Rousseau,  J. Stuart Mill junior, John Rawls, ecc.) che, nel corso dei processi di sviluppo della loro proteiforme elaborazione teorica, ha fatto emergere nelle loro opere  (filosofico-politiche e filosofico-sociali) sia elementi e spunti tipici della “linea rossa” che analisi, tensioni ideali e tesi appartenenti invece a pieno titolo alla tendenza filoclassista in campo filosofico, con un parziale equilibrio al loro interno del peso specifico via via assunto dalle due “anime” teoriche in conflitto/coesistenza reciproca al loro interno.

Usando le immagini e un concetto già elaborato dal grande regista (e filosofo, a modo suo) Sergio Leone nel suo splendido film “Il buono, il brutto e il cattivo”, stiamo esaminando un particolare, mutevole e bimillenario “triello” che ha contraddistinto la dinamica di sviluppo della filosofia occidentale, in una lotta continua (con numerose contaminazioni reciproche, tentativi di sintesi e ricerche di ricomposizione/riconciliazione tra i tre “duellanti”) e in un processo di interconnessione quasi costante tra i filosofi “rossi”, “neri” e “meticci” che via via hanno elaborato analisi, progetti e – a volte – pratiche collettive rivolte alla sfera politico-sociale.

Lo scontro plurisecolare tra “squadra rossa” e “squadra nera”, tra due linee e tendenze alternative in campo filosofico-politico, con l’intervento poi della zona intermedia, “meticcia”, rappresenta una realtà concreta e un “fatto testardo” (Lenin) e di un certo rilievo, dimostrando tra l’altro la persistenza e continuità dell’effetto di sdoppiamento non solo sul piano socioproduttivo, dal 9000 a.C. fino ai  nostri giorni e al terzo millennio, ma anche nel livello della “sovrastruttura” marxiana e delle pratiche sociali tese a produrre idee e teorie filosofiche, concezioni del mondo basate sul connubio variabile tra analisi razionale (autonoma, autodiretta) ed esperienza concreta.

Cos’è l’effetto di sdoppiamento? Ripetendo concetti e metafore già sviluppate in altre opere precedenti, si può notare che secondo la concezione marxista-ortodossa della storia universale, quest’ultima può essere paragonata ad una grande e lunga strada a senso unico, anche se composta da alcune diramazioni secondarie che in seguito si ricollegano al sentiero principale, oltre che da una serie di “vicoli ciechi” che vengono via via abbandonati, più o meno rapidamente.

In questa prospettiva storica, la “grande strada” è formata via via da vari segmenti socio-produttivi interconnessi, seppur ben distinti tra loro (comunismo primitivo/comunitarismo del paleolitico, nella preistoria della nostra specie; fase del modo di produzione asiatico; periodo schiavistico; fase feudale; epoca capitalistica e, infine, socialismo/comunismo), ma essa era ed è considerata tuttora un tracciato predeterminato, almeno in ultima istanza: qualunque “viaggiatore” e società potevano/possono anche prendere delle “scorciatoie” ma alla fine, volenti o nolenti, erano /sono costretti a rientrare nel sentiero di marcia principale e nelle sue variegate, ma obbligate tappe di percorso.

In base ai dati storici allora a conoscenza e a disposizione di Marx ed Engels fino al 1883/95, questa teoria risultava l’unica visione complessiva del processo di sviluppo della storia universale che poteva essere (genialmente) elaborata a quel tempo ma, proprio dopo il 1883/95, tutta una serie di nuove scoperte ed avvenimenti storici portano a preferire una diversa concezione generale della dinamica del genere umano: l’effetto di sdoppiamento.

Immaginiamoci una “grande strada” che, dopo un lunghissimo segmento (fase paleolitica e mesolitica) di scorrimento, si trovi di fronte improvvisamente ad un “grande bivio” ed a una gigantesca biforcazione: da tale bivio partono e si diramano due diverse ed alternative strade, che conducono a mete assai dissimili, senza alcun obbligo a priori per i “viaggiatori” (a causa del Fato/forze produttive) di scegliere l’una o l’altra.

Ma non basta. Non solo non vi è più una sola strada obbligata di percorso, ma – a determinate condizioni e pagando determinati “pedaggi” – qualunque “viaggiatore” e qualunque società umana possono trasferirsi nell’altro tracciato, alternativo a quello selezionato in precedenza, cambiando pertanto radicalmente le proprie condizioni materiali di “viaggio” nell’autobus che stanno utilizzando con altri passeggeri: la scelta iniziale di partenza “al bivio”, giusta o sbagliata, risulta sempre reversibile in tutte e due le direzioni di marcia, in meglio o anche in peggio.

Fuor di metafora, la concezione che proponiamo ritiene che subito dopo il 9000 a.C., ben undici millenni fa nell’Eurasia del periodo neolitico, con la scoperta dell’agricoltura, allevamento e artigianato specializzato, si sia creato e riprodotto costantemente fino ai nostri giorni un “grande bivio”, da cui si sono diramate due “strade”, due linee e due tendenze socioproduttive di matrice alternativa, l’una di tipo comunitario-collettivistico e l’altra di natura classista, fondata invece sullo

sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Pertanto dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri giorni, nell’era del surplus e dai tempi lontani neolitici della Gerico collettivistica dell’8500 a.C., non sussiste alcun determinismo storico, ma altresì un campo di potenzialità oggettive (sviluppo delle forze produttive e creazione/riproduzione ininterrotta di un plusprodotto accumulabile… l’era del surplus) su cui si possono innestare, e si innestano poi concretamente e realmente delle prassi sociali contrapposte, volte a condividere in modo fraterno mezzi di produzione/ricchezza/surplus o, viceversa, a fare in modo che essi vadano sotto il controllo e possesso di una minoranza del genere umano, in entrambi i casi con immediate ricadute anche sulla sfera politico-sociale delle diverse società.

Detto in altri termini, a parità di sviluppo qualitativo delle forze produttive e già formatisi elementi cardine quali agricoltura/allevamento/surplus costante, fin dal 9000 a.C. per arrivare ai nostri giorni era possibile che si sviluppasse sia l’egemonia di rapporti di produzione collettivistici, che quella alternativa di matrice classista: un effetto di sdoppiamento nel quale nulla era/è tuttora scritto a priori, nei libri mastri della Storia.

Situazione di “sdoppiamento”, potenziale/reale, valida nel 9000 avanti Cristo ma anche nel 2014 della nostra era, valida nel 8999 a.C., ma anche nel prossimo anno e nei prossimi decenni: uno stato di sdoppiamento ed un’alternativa radicale nei rapporti di produzione possibili e praticabili sul piano storico, che da undici millenni esclude a priori qualunque forma di determinismo storico e di metafisica basata sul “progresso inevitabile” del genere umano.

Certo, qualunque regressione ad uno stadio paleolitico basato sulla caccia/raccolta di cibo era ed è tuttora impedita proprio da quel processo di sviluppo qualitativo delle forze produttive, da quell’ “era del surplus” costante/accumulabile che determina il sorgere e la riproduzione ininterrotta dell’effetto di sdoppiamento. Ma astraendo da tale “dettaglio” non trascurabile, negli ultimi undici millenni il corso della storia universale è diventato decisamente multilineare, composto com’è dal “bivio” e da due “strade” alternative in campo socioproduttivo e politico, la cui logica più profonda risulta essere l’antideterminismo e l’emersione costante di un campo di potenzialità alternative, nel quale la pratica collettiva degli uomini del passato, presente (noi stessi…) e del futuro assume un ruolo decisivo, sotto tutti gli aspetti”.

Diventano in ogni caso necessarie alcune precisazioni, prima di avviare il viaggio avventuroso tra le agitate e tumultuose correnti del “oceano-filosofia”.

Va innanzitutto sottolineato come la differenza tra “linea rossa” e “linea nera” in campo filosofico-politico spesso coincida con la grande faglia di separazione tra esponenti materialistici (=primato e priorità temporale della materia rispetto allo spirito e alla coscienza-intelletto) e pensatori idealistici (primato delle idee/spirito rispetto alla materia): ma non sempre e non in ogni caso, e vi sono anzi numerosi esempi di segno contrario in tutte e due le direzioni.

Ad esempio Tertulliano risultava profondamente cristiano, ma del genere “rivoluzionario-apocalittico”.

E a sua volta Dolcino, per la sua elaborazione filosofico-religiosa apparteneva chiaramente al campo filosofico di matrice idealista, a causa della sua appassionata fede nell’esistenza-onnipotenza della divinità cristiana, oltre che nella prossima venuta salvifica-apocalittica di uno (splendido) Gesù-liberatore degli oppressi, rientrando sicuramente nella categoria dei filosofi per cui “l’idea” e/o lo “spirito” (Dio, nel caso in oggetto) preesistevano alla formazione della materia: ma altrettanto chiaramente, come del resto vale per il suo lontano maestro spirituale Gioacchino da Fiore, l’eroico frate italiano espose una concezione filosofico-politica di matrice comunista, facente parte a pieno titolo della “linea rossa” in campo filosofico.

Rousseau era un filosofo idealista, ma egualitario e democratico; Fichte risulta addirittura un idealista soggettivo, ma allo stesso tempo un pensatore almeno in parte vicino al socialismo utopistico, e a sua volta anche il comunista Karl Liebknecht, ucciso dai militari e dalla socialdemocrazia tedesca nel gennaio del 1919, si dichiarava idealista (“più deciso di Fichte”) in campo filosofico: l’elenco potrebbe allungarsi a lungo. Passando poi al campo del materialismo filosofico, David Hume, Hobbes e Holbach risultavano spesso vicini a posizioni materialiste, ma animati in ogni caso da una precisa scelta di campo classista, come del resto Nietzsche e le sue posizioni aristocratiche e antisocialiste ben descritte da D. Losurdo nel suo eccellente saggio “Nietzsche, il ribelle aristocratico”.

Pertanto il criterio essenziale per distinguere tra le due tendenze in via di esame non consiste nella scelta filosofica tra materialismo e idealismo o nell’appartenenza sociologica dei singoli pensatori alle classi sociali dominanti, visto che anche Marx , Engels e Lenin non risultavano sicuramente di famiglia operaia (o divenuti operai nel corso della loro vita); ma viceversa nell’elaborazione di prospettive intellettuali corrispondenti agli interessi politico-sociali delle classi dominanti o, in alternativa, a quelli delle masse sfruttate (schiavi, servi della gleba, operai) e al processo di costruzione di una società libera da sfruttamento e oppressione, senza necessariamente (vedi Pitagora, Lucrezio, ecc.) scegliere prospettive rivoluzionarie a favore del comunismo.

In secondo luogo, il campo di indagine di questo saggio è stato volutamente limitato solo al processo bimillenario di sviluppo della filosofia occidentale, non prendendo in esame la dialettica via via creatasi tra tendenza classista e quella collettivistica all’interno della splendida e sofisticata filosofia cinese, oppure di quella indiana, araba ed ebraica.

Se il lavoro in via di esposizione susciterà un minimo di interesse e di  dibattito, saremo sempre in tempo ad allargare il raggio d’analisi a pensatori filosofi di matrice “meticcia”, quali ad esempio in Cina un filosofo quali Mo-ti, o completamente “rossi”: come furono ad esempio sia il geniale fondatore del taoismo, Lao-Tzu (il cui modello utopico “era il collettivismo tribale primitivo”, secondo il grande storico marxista J. Needham), oltre ai grandi filosofi K’ang Yu-Wei (1858-1927) e Mao Zedong, per citare solo alcuni dei suoi esponenti principali.

Terzo chiarimento: la filosofia occidentale, almeno alle sue origini, non risulta per sua natura o necessità divina destinata ad un “corporazione” (Onfray) e a una “setta” che confischi “il sapere filosofico in vista della sola riproduzione della propria casta professionale”, come ad esempio sta avvenendo quasi ovunque nel mondo capitalistico avanzato, a partire dal 1975/79. Parafrasando Gramsci, risulta invece che ciascun uomo risulta un filosofo embrionale, anche se molto spesso egli non sa di esserlo,  non produce una propria filosofia particolare e riflette in modo solo sporadico e occasionale sulla “vita” (Fung Yu-Lan) e sui suoi enigmi: immortalità dell’anima, Dio, senso dell’esistenza, felicità, ecc.

L’uomo (cosiddetto) comune, normale e ordinario risulta in possesso di grandi potenzialità anche nel campo della attività creativa, a patto che egli si impegni continuamente verso di essa attraverso un progetto mirato: secondo il neurobiologo Semir Zeki ogni uomo risulta creativo a modo suo, come del resto sostenevano anche il grande Picasso e Fidel Castro. “Né dovremmo limitarci a considerare l’arte, la musica e la letteratura le uniche facoltà del mondo creativo. Perché la creatività vale anche per i bambini che costruiscono castelli di sabbia, per chi perfeziona l’arte della conversazione, per le capacità gestionali e per molte altre attività e azioni umane. Anzi, la difficoltà è identificare azioni e attività dove l’elemento creativo sia assente. La creatività e l’immaginazione sono dunque attributi di cui ogni cervello è in vario grado miracolosamente dotato, e che in vario grado esprime nelle sue attività. La creatività è, per così dire, la strategia del cervello per supplire ai propri limiti”.

Serve solo un nuovo modo di filosofare, che è allo stesso tempo molto antico e molto comunitario, anche se quasi dimenticato ai nostri tempi.

“In che cosa consiste questo nuovo modo di filosofare? Un modo assai antico… perché è quello dell’agorà e del foro. Esso definisce la maniera antica di praticare una filosofia aperta destinata al passante ordinario: Protagora lo scaricatore, Socrate lo scultore, Diogene l’assistente banchiere, Pirrone il pittore, Aristippo l’insegnante sono dei veri filosofi – creatori di visioni del mondo, autori di opere teoriche, vivono il loro pensiero nel quotidiano e conducono una vita filosofica – non sono professionisti della professione come i postmoderni.

Allo stesso modo non si rivolgono a specialisti destinati all’insegnamento, o alla ricerca filosofica. Parlano al pescivendolo, al carpentiere, al tessitore che si trova a passare di là e, a volte, si ferma, ascolta, aderisce e si converte a un modo di esistenza specifico teso alla creazione di sè come soggettività felice, in un modo dominato dalla negatività”.

Anche a nostro avviso, per riprendere respiro e forza propulsiva dopo la sua decadenza iniziata nel 1975/79, la filosofia deve tornare ad essere un “commons” concreto e un “bene comune” che interessi direttamente anche e soprattutto gli operai e lavoratori salariati, come aveva già notato l’eroico comunista (e filosofo) G. Politzer nel 1935.

Utilizzando a tale scopo e traducendo in parole semplici e concrete anche i migliori messaggi filosofici, più o meno elaborati, che sono stati via via espressi nell’ultimo secolo dall’arte contemporanea: non solo dal cinema, ma anche dalla pittura (si pensi solo alla geniale Guernica di Picasso) e alla letteratura, come nel caso del libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi, e della raccolta di poesie “La vita non è sogno” di Salvatore Quasimodo, per usare solo due dei tanti esempi a disposizione.

Anche attraverso il nuovo e creativo processo di simbiosi tra filosofia e arte, a nostro avviso la filosofia può tornare a essere un prezioso patrimonio collettivo, strettamente collegato alla riflessione individuale e collettiva sull’esistenza umana (felicità, senso della vita, morte e continuità della specie, ecc.: Epicuro, per fare solo un esempio), sugli attuali rapporti sociali e politici e sulla dinamica di sviluppo della scienza/tecnologia contemporanea: su quest’ultimo aspetto Lukacs aveva notato del resto che già nel 1500 e in epoca rinascimentale, in seguito all’impetuoso sviluppo delle scienze, naturali vennero spontaneamente e quasi senza mediazione teorica “posti e risolti nelle scienze, spesso senza consapevolezza filosofica, problemi dialettici” e tutta una serie di questioni strettamente filosofiche.

Quarta precisazione. Il termine materialismo, nel libro in via d’esposizione, verrà utilizzato solo per e nel suo significato filosofico, come concezione del mondo fondata innanzitutto e principalmente sul primato ontologico e temporale della materia sullo “spirito”, significato totalmente diverso dal senso ordinario e dispregiativo assunto dal termine e divenuto di regola sinonimo di crassa avidità, egoismo, brama esclusiva dei beni terreni, assenza di ideali e altruismo, ecc.: sussiste tuttavia una seconda “radice” e un secondo contenuto proprio di regola del materialismo in campo filosofico, e cioè l’apprezzamento dei piaceri terreni e della stessa corporeità umana, in una valutazione positiva che molto spesso i filosofi idealisti, a partire da Platone, hanno invece negato con forza.

Concordiamo pertanto con Onfray almeno sulla necessità di rivalutare radicalmente il “corpo umano e le passioni fisiche” (a partire dalla fondamentale coppia cibo/erotismo), contestando radicalmente le diffuse concezioni idealistiche (sul piano filosofico, non certo intese come amore degli ideali e dell’altruismo) che esprimono “odio del corpo” accompagnato all’esaltazione “dell’anima… e disprezzo per la carne sensuale”, proprio nel campo della produzione di idee.

Ha notato Onfray, proprio riferendosi a tale vizio di origine dell’idealismo filosofico, che “la scrittura della storia della filosofia greca è platonica. Di più: la storiografia dominante nell’Occidente liberale è platonica… Platone la fa dunque da padrone perché l’idealismo, facendo prendere le lucciole mitologiche per lanterne filosofiche, permette di giustificare il mondo così come è, e di invitare a distogliersi da quaggiù, dalla vita, da questo mondo, dalla materia del reale, verso quelle finzioni infantili a cui si riducono tutte le religioni: un cielo di idee pure che sfugge al tempo, all’entropia, agli uomini, alla storia, un oltremondo popolato da sogni screditati di una realtà superiore al reale, un’anima immateriale che salva gli uomini dal peccato di incarnazione, la possibilità per l’homo sapiens, che dedica scrupolosamente tutta la sua vita a morire mentre è ancora vivo, di conoscere la felicità angelica di un destino post mortem – e altre insulsaggini con cui si è costruita quella visione mitologica del mondo in cui molti stanno ancora a marcire. Certo, Platone non è Descartes, il quale non è Kant, ma questi tre, dividendosi venti secoli di mercato idealistico, monopolizzano la filosofia, occupano ogni posto, e all’avversario non lasciano nulla, neanche le briciole”.

Onfray ha in parte ragione su questo punto specifico, ma sottovaluta un altro importante processo politico-intellettuale di “rimozione” avvenuto rispetto alla dinamica bimillenaria di sviluppo della filosofia occidentale, anche per responsabilità diretta di molti filosofi: e cioè che i filosofi “rossi e sovversivi”, a partire dai pensatori cinici, sono stati il più possibile messi in un angolo e quasi dimenticati dalle multiformi storie della filosofia via via elaborate nell’area occidentale.

Solo sguardi fugaci, nel migliore dei casi, e molto più spesso il silenzio hanno infatti circondato alcuni teorici interessanti e collocati su posizioni antagoniste rispetto alle strutture socioproduttive classiste del loro tempo, quali ad esempio:

-              Pitagora, il geniale fondatore della dialettica e dell’idealismo filosofico in terra occidentale;

-              Tertulliano, con il suo “tutto è comune tra noi, tranne le donne”;

-              Marcione;

-              Raterio da Verona

-              Gioacchino da Fiore;

-              Ruggero Bacone

-              Fra Dolcino (non solo un eroico rivoluzionario comunista, ma anche un notevole pensatore);

-              B. Rothman, il teorico degli anabattisti della Comune di Munster del 1534/1535;

-              T. Campanella;

-              J. Meslier, con il suo “testamento” ateo e comunista;

-              Adam Weishaupt, filosofo panteista (oltre che fondatore della setta degli Illuminati di Baviera) e comunista.

Stando almeno alla grande maggioranza degli storici occidentali, sembra quasi che il “filo rosso” in campo filosofico sia iniziato con Rousseau, mentre invece esso “viene da molto lontano” (Gramsci) e si svilupperà ulteriormente anche nei prossimi decenni. Certo,  l’egemonia culturale è rimasta  all’interno della filosofia occidentale quasi sempre nelle dure “mani” teoriche della tendenza filoclassista, ma importanti (seppur diversissimi tra loro) pensatori quali Lucrezio e Marx, Marcione e Lenin, Lukacs e Gioacchino da Fiore hanno via via permesso alla (variegata e composita) linea collettivistica della filosofia occidentale di riprodursi storicamente come una seria e consistente controtendenza egualitaria, in grado di incidere realmente nel corso del processo di sviluppo bimillenario della praxis teorica rivolta ad una indagine a tutto campo, allo stesso tempo razionale e colma di “meraviglia”, rispetto agli enigmi e problemi più importanti dell’esistenza umana.

Serve inoltre introdurre un utile precisazione, anti-eurocentrica, rispetto ai primordi (quasi completamente rimossi) della filosofia universale: sotto questo aspetto il punto più importante diventa il fatto che la filosofia (intesa come analisi della realtà basata su esperienza/ragione capace di produrre categorie teoriche di interpretazione/trasformazione della realtà) trovò il suo punto di irradiazione in Cina e non nel mondo greco. Infatti la prima tesi filosofica a noi conosciuta risale addirittura al nono secolo a.C. con la teoria cinese dei “Cinque Elementi”, contenuta nella sezione “Il grande progetto” del “Libro dei documenti storici”. Testo antichissimo, pertanto, nel quale vengono menzionate e descritte le cinque forze attive che determinano l’evoluzione e la struttura fondamentale dell’universo, acqua, fuoco, legno, metallo e terra: un pentagono di forze materiali che combinate in modo mutevole tra loro, determinano lo sviluppo dell’universo e del genere umano, e proprio nella più tarda filosofia greca troveremo almeno due di esse (l’acqua per Talete, il fuoco per Eraclito) come punti di elaborazione del pensiero razionale occidentale sull’ontologia.

Sesto approfondimento: da dove nascono in ultima analisi le questioni fondamentali e le “domande” tipicamente filosofiche?

Su questa tematica va notato come l’uomo sociale sia via via diventato attraverso la sua stessa praxis sociale, a partire dal lavoro, un animale che si pone collettivamente delle domande (su se stesso e sul mondo circostante) di natura non-genetica e non-istintiva, tentando di fornire ad esse delle risposte, giuste o sbagliato che esse si rivelino nella e attraverso la pratica sociale, e si pose delle domande non-genetiche e per così dire “artificiali” già dal momento in cui egli costruì, circa due milioni di anni fa, i suoi primi strumenti in pietra attraverso l’uso di altri utensili, creando l’avvio del processo tecnologico e del lavoro umano: un processo fondamentale e un salto di qualità gigantesco rispetto alle altre specie viventi che è stato parzialmente riflesso, in modo geniale anche se misticheggiante, nella prima parte del film “2001. Odissea nello spazio” del grande regista (e filosofo, a modo suo) Stanley Kubrik.

Due anni prima di Kubrik, G. Lukacs notò giustamente nel 1966 che “l’uomo primordiale, da cui prima ho preso le mosse, trova delle pietre in qualche luogo. Una pietra può essere adatta a tagliare un ramo e un’altra no e questo fatto – essere o non essere adatto – è un problema assolutamente nuovo, che nella natura inorganica non esiste, perché quando una pietra rotola giù da una montagna non è una questione di successo o di fallimento se cade intera oppure si spacca in due o cento pezzi. Mentre dal punto di vista della natura inorganica ciò è completamente indifferente, la comparsa del lavoro (e anche di quello più semplice) fa sorgere il problema dell’utile e dell’inutile, dell’adatto e dell’inadatto, un concetto di valore. Quanto più si sviluppa il lavoro tanto più estese divengono le rappresentazioni di valore implicate; e in modo tanto più sottile, e su di un più alto piano, si pone il problema se una data cosa, in un processo che diventa sempre più sociale e complesso, sia adatta oppure no per l’autoriproduzione dell’uomo.

Questo è il mio punto di vista sulla fonte ontologica di ciò che noi chiamiamo valore. Dalla contrapposizione di valore e disvalore sorge ora una categoria del tutto nuova, che si riferisce a ciò che nella vita sociale è stata una vita significativa o senza significato”.

Dalla praxis sociale giunsero inoltre via via tutta una serie di domande e risposte sull’inevitabilità della morte individuale, circa 100.000 anni fa, con le prime sepolture rituali e le prime domande/risposte sull’esistenza presenza di spiriti benigni/maligni (con i sogni, anche sui defunti); giunsero in seguito le domande e risposte sull’esistenza della prima divinità, la “Dea Madre” del paleolitico di 30.000 anni orsono, oltre che sul senso della vita e l’origine delle cose.

Grazie alla praxis sociale, in primo luogo lavorativa ma non solo limitata ad essa, l’uomo sociale pertanto scoprì mano a mano la “meraviglia” e lo stupore proto-filosofico di fronte al mondo e a sè stesso, a sua volta il vero brodo di cultura primordiale, alla “Blade Runner”, per la successiva genesi e il salto di qualità filosofico propriamente detto, da Talete in poi.

Anche solo intesa genericamente, come ricerca della verità con l’utilizzo dell’esperienza e/o della ragione, la filosofia greca delle origini, sorse e si sviluppò come un grande processo di interrogazione e autoriflessione, intessuta di meraviglia, sulla verità del mondo preso nella sua globalità, trovando in forme diverse tale una prima chiave di risposte nella particolare materia prima da cui tutto derivava ed era composto. Come ha notato giustamente il filosofo sovietico A. Spirkin, “il pensiero filosofico si è tradizionalmente distinto per il suo orientamento teso a comprendere le fondamenta dell’esistenza entro i limiti dei nostri poteri mentali, i meccanismi dell’attività cognitiva umana, l’essenza non solo dei fenomeni della natura ma anche della vita sociale, dell’uomo e della cultura. Tutto ciò ha avuto un grande significato sia pratico che teorico: è infatti essenziale per il processo di comprensione del significato e degli obiettivi della vita”.

La protofilosofia può essere pertanto intesa in qualità di domande sociali rispetto alle fondamenta dell’esistenza (naturale e umana) ed ai temi importanti che la scienza non può/non può ancora risolvere. Secondo Aristotele, “tutti gli uomini per natura desiderano conoscere” e sono curiosi: e se “conoscere”, apprendere in effetti risulta un presupposto decisivo per qualunque esistenza umana, come insegna ogni esperienza umana dell’Homo sapiens fin dal processo (anche cognitivo, oltre che produttivo) di raccolta/caccia del paleolitico, a maggior ragione diventa centrale “conoscere” (anche attraverso l’opera dei filosofi veri e propri) una “risposta” veritiera alle domande fondamentali dell’uomo, agli enigmi nascosti in quel particolare “monolito nero” (Kubrik) costituito dall’universo.

Siamo pertanto in presenza di un bisogno sociale profondo, anche se a volte rimosso, in una sorta di carsica “sete” di filosofia all’interno del processo di sviluppo della coscienza collettiva umana che è sorta con molti millenni di anticipo, rispetto alla teoria cinese dei “Cinque Elementi” e a Talete. Come ha notato giustamente S. Hawkins, “la specie umana è una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’universo? Quale è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo”.

Come minimo dal 100.000 a.C., il genere umano aveva sommato alla dote (acquisita, e certo non-innata) dell’autocoscienza, alias della capacità di riconoscersi in  uno specchio/acqua, anche la coscienza della propria mortalità, che lo portò sia ad elaborare i primi riti sepolcrali (cospargendo i cadaveri con ocra rossa) sia a stabilire la prima relazione “sacrale” con gli stessi defunti, considerati come ancora vivi perché, argomento razionale e utilizzato dalle tribù primitive di cacciatori/raccoglitori con cui l’uomo “civilizzato” è entrato in contatto negli ultimi due secoli, essi apparivano a volte nei loro sogni: oltre a ciò, sorsero via via tra i clan paleolitici i variegati miti cosmogonici sulla genesi dell’universo, diffusi sotto vesti proteiforme in tutti i gruppi di cacciatori-raccoglitori delle varie arre del globo terrestre.

Si trattò, sicuramente di concezioni del mondo mitiche ovviamente ma che contenevano in embrione alcune delle “domande fondamentali” della filosofia: siamo già in zona “Blade Runner” e molto vicino alle tematiche affrontate nello splendido film di fantascienza di Ridley Scott.

La terz’ultima precisazione riguarda la definizione di verità, categoria che sta alla base della pratica filosofica assieme alla “ragione” e alle “questioni fondamentali”, agli enigmi/domande” via via sorte all’interno del genere umano.

La “Verità” non è altro che il processo dialettico di corrispondenza del pensiero umano (collettivo/individuale) rispetto alla realtà e al suo processo di sviluppo, correlazione accertata principalmente attraverso la praxis: corrispondenza con le “cose” che esiste/non esiste indipendentemente dalla sua utilità (è vero che tutti noi uomini dobbiamo morire, ma questa verità innegabile non ci è certo… utile di per sè), dalle credenze collettive della maggioranza degli uomini (fino al 1600 la gran parte degli occidentali credeva che fosse il Sole a girare attorno alla nostra Terra, ma il consenso allora quasi unanime rispetto a tale visione/concezione non la rese certo una verità) o dalla “coerenza” delle teorie errate e non-veritiere le teorie tolemaiche sul Sole che gira attorno alla Terra risultavano infatti coerenti e eleganti, ma completamente errate.

Da tale definizione di verità discendono alcune conseguenze interessanti, anche e specialmente sul piano filosofico.

La verità non si decide a maggioranza/minoranza, né tantomeno per il suo grado di utilità diretta, come aveva intuito il geniale Eraclito più di due millenni fa: ne tantomeno la verità risulta “pluralista” e dipendente dal contesto storico (Feyerabend), in modo tale che ogni interprete di essa abbia ragione o almeno nell’ambito della propria formazione e condizioni culturali.

In secondo luogo la “corrispondenza” in via d’esame risulta il frutto ed il sottoprodotto della praxis (multiforme) umana, rappresentando uno dei risultati della (multiforme) attività umana: per dirla con il notevole filosofo Mao Zedong, le “idee giuste”/verità non cadono certo dal cielo.

In terza battuta, il fatto che la verità significhi un processo di corrispondenza con il reale del nostro pensiero indica allo stesso tempo che il “reale” non siamo solo noi umani, che esiste una realtà autonoma ed esterna al nostro pensiero e che essa non viene assolutamente creata, generata e riprodotta dalla nostra coscienza umana, individuale e collettiva, o dalla nostra stessa pratica.

Infine la verità risulta un elemento riproducibile da altre specie intelligenti: l’uomo infatti produce “Verità” solo se trova criteri che superino il soggettivismo e che siano riproducibili anche da un’altra (per ora ipotetica) specie intelligente e capace di produrre strumenti, seppur forse con altri organi sensoriali e/o criteri di valore.

I raggi ultravioletti e gli ultrasuoni, ad esempio, rappresentano realtà oggettive indiscutibili ma non percepibili dai sensi degli uomini: tuttavia la nostra specie ha creato tutta una serie di strumenti mater con cui conosciamo la loro esistenza e che potrebbero essere ricreati, riformati e riprodotti da un’altra specie intelligente, preferibilmente più altruista della nostra.

Risulta anche utile un accenno fugace alla questione della dialettica costante tra permanenza e trasformazione delle questioni filosofiche, che attraversa tutta la storia della filosofia occidentale.

Le “questioni fondamentali” della filosofia occidentale non furono delineate interamente già dagli inizi e con Talete, venendo invece poste e fatte risaltare via via dai vari filosofi greci attraverso il lungo processo, a volte tortuoso, della dinamica di trasformazione/ampliamento della filosofia: ma, allo stesso tempo, con Platone e Aristotele ormai le “domande fondamentali” dell’analisi filosofica risultavano quasi tutte presentate ed elaborate, con l’eccezione della questione dell’esistenza/inesistenza del mondo esterno all’uomo (ci penseranno Cartesio e Calderon de la Barca, 1900 anni dopo). Pertanto si è sviluppato, dal 300 a.C. e dall’opera di Aristotele, anche un simultaneo processo di conservazione e continuità all’interno di una parte importante del processo di produzione della filosofia, per cui dopo Platone/Aristotele “le questioni erano sempre le stesse” (Engels): che struttura ha il mondo? Esiste dio (le divinità)? Come fa l’uomo a pensare? Qual è il suo ruolo e posizione nell’universo? Da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo? E non solo le domande, ma anche le principali “risposte”, nelle loro linee fondamentali, rimasero in gran parte simili a partire dal 400/300 a.C. Ad esempio Engels fece giustamente notare che la lotta antica fra materialismo e idealismo, poli dialettici in quel periodo incarnati principalmente da Platone e Democrito/Epicuro, era continuata seppur sotto forma e livelli di elaborazione diversi anche durante l’epoca tardo-medievale, per arrivare poi all’Ottocento in cui operarono Marx ed il suo compagno di lotta e, in seguito, ai nostri tempi.

Non tutte le “questioni fondamentali” (e risposte fondamentali…) della filosofia, tuttavia, hanno subito un tale processo di conservazione e di “eterna” giovinezza: almeno due di esse sono state risolte definitivamente dallo sviluppo scientifico, e cioè il problema “dell’archè” e del rapporto mente/corpo.

Attraverso la scoperta degli atomi prima, degli elettroni/protoni/neutroni in seguito, e dei quark negli ultimi decenni, la scienza moderna ha risolto proprio il problema del “mattone fondamentale” dell’universo, che aveva tanto tormentato i filosofi occidentali da Talete fino a Eraclito e Democrito, dando ragione, una volta per sempre, a Leucippo, Democrito e gli altri esponenti (materialisti) che teorizzavano in modo geniale l’esistenza degli atomi,  fin da quasi tre millenni fa: sorte analoga ha avuto anche la questione della relazione tra pensiero e corpo, dato che il progressivo sviluppo della scienza neurobiologica ha dimostrato ormai senza alcuna possibilità  ogni dubbio (ragionevole) sul fatto che il pensiero umano sia il prodotto dell’attività del cervello umano e dei suoi magnifici, innumerevoli neuroni e sinapsi, come sostenevano (correttamente) la scuola materialista in campo filosofico fin dai primi secoli a.C., anche in modo embrionale e primitivo.

Anche la dialettica tra scienza e filosofia si è via via trasformata e a vantaggio ovviamente della prima, visti gli eccezionali ritmi di accumulazione di conoscenza raggiunti dal complesso scienza/tecnologia, dall’inizio del Seicento e dai tempi di Galileo fino all’inizio del terzo millennio.

La filosofia, come si è già notato attraverso il suo processo di definizione per via “negativa”, agisce e opera ormai solo nei (grandi) spazi di riflessione su cui la scienza non può agire o non agisce ancora con successo, nei quali quest’ultima non può produrre (oppure non produce ancora…) conoscenza consolidate e sicure, seppur sempre suscettibili di un processo ulteriore di approfondimento e di arricchimento sul piano teorico-pratico, attraverso il criterio principale di verità: la praxis umana e la derivata, difficile “comprensione” (per via razionale e attraverso l’esperienza, mediante il metodo filosofico e/o scientifico) “di questa attività pratica” (Marx).

Fin dal 1845, Marx giustamente notò nella seconda delle sue geniali Tesi su Feuerbach che “la questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell’attività pratica come l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”.

E all’ottava tesi, il grande filosofo-rivoluzionario tedesco ribadì che “la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica”.

In alcuni campi del pensiero/pratica umana, la riflessione filosofica rimane ancora oggi lo strumento principale per risolvere “gli enigmi” e le “questioni fondamentali” che assillano l’uomo, ma in altri settori ha già ceduto lo scettro e l’egemonia alla pratica scientifica…

Infine va espressa una definizione precisa di idealismo e materialismo, sempre in campo filosofico.

Il primo utilizzo del termine “idealismo” all’interno dell’elaborazione teorica è dovuto al filosofo (idealista) W. Leibnitz, che lo impiegò già dalla fine del Seicento per definire e inquadrare la concezione del mondo elaborata da Platone, basata sul primato delle “idee” nella genesi e riproduzione del mondo reale: prima dei cavalli reali e concreti, per Platone veniva infatti l’idea della “cavallinità”, come giustamente gli rimproverò il lucido filosofo (cinico) Antistene.

Per tutte le variegate tendenze idealiste, la realtà che percepiamo come uomini viene generata e fondata sull’“idea”, intesa volta per volta come pensiero, o dio, o idee iperuraniche, o spirito assoluto, mentre esse negano alla radice, in modo esplicito o implicito, che l’essere, il mondo, le realtà esistano innanzitutto e dal principio come realtà materiale; una variante dell’idealismo, l’idealismo soggettivistico (Berkeley, Fichte, ecc.), ritiene inoltre che gli oggetti del mondo diversi dall’uomo non sussistano realmente al di fuori del pensiero umano. Infatti per il più grande  filosofo idealista-soggettivo, W. Fichte, tutta la filosofia precedente a lui, Kant compreso, risultò “dogmatica”, in quanto aveva creduto nella teoria dell’esistenza di una cosa in sè, di un mondo, di una realtà di per sè stante e capace di riprodursi indipendente dal soggetto umano: invece le “cose” e il mondo naturale non esistono per Fichte senza il pensiero/attività dell’uomo, non esiste una “cosa in se” indipendentemente dal pensiero e praxis umana. Nel suo scritto del 1797, “Prima introduzione della “Dottrina della scienza”, Fichte distinse l’idealismo dal “dogmatismo/materialismo”, rilevando che per la filosofia idealista “il principio del dogmatico, la cosa in sé,  non è nulla. La cosa in sé diventa una chimera bella e buona; non c’è più ragione d’ammetterla”. […]

Per l’idealismo soggettivista, la “cosa in sé” e l’esistenza delle cose (Sole, altre stelle, galassie, ecc.) indipendentemente dall’uomo/pensiero umano costituiscono solo “una chimera bella e buona”, mentre per il materialismo invece siamo in presenza di una verità confermata dalla pratica: ad esempio la stessa pratica scientifica umana dimostra che il Sole, le altre stelle e le circa 140 miliardi di galassie finora scoperte nell’Universo esistevano ben prima dell’uomo, ed esisteranno anche in un futuro ipotetico contraddistinto dall’estinzione dell’uomo. Almeno dai tempi di Copernico, proprio la praxis scientifica si è spesso rivelata sul piano filosofico… anti-antropocentrica: la Terra non risulta infatti al centro del sistema solare, ecc.

Effettuate queste doverose premesse e precisazioni, si può finalmente immergersi nel vasto oceano della filosofia occidentale e, più precisamente, nella sua sezione che si interessa alla sfera politico-sociale: sacrificando in gran parte, per ovvie ragioni di spazio, il processo di analisi sulla produzione ontologica-logica via via effettuate dai diversi pensatori, oltre che riducendo al minimo la contestualizzazione storica della loro opera e pensiero teorico.

Su di essa basta rilevare che la filosofia occidentale, da Talete fino ai primi due decenni del nostro terzo millennio, si è sviluppata in un ambiente socioproduttivo (e politico-sociale) contraddistinto purtroppo dall’egemonia salda della “linea nera” e dei rapporti sociali di produzione classisti, che si possono distinguere in:

-              schiavistici (sesto secolo a.C./quinto secolo d.C.), dominati prima nell’area greca e poi in quella mediterraneo-europea;

-              feudali: egemone nell’Europa centro-occidentale dal sesto secolo d.C. (con la forma di transizione del colonato) fino al tredicesimo secolo;

-              nella coesistenza in Europa di rapporti di produzione protocapitalistici e semifeudali, dal 1300 fino al 1700;

-              capitalistici: modo di produzione sociale divenuto egemone all’interno dell’Inghilterra a partire dal 1588/1649, e il cui dominio si è esteso via via al resto del mondo occidentale (America e Oceania comprese) nel corso degli ultimi quattro secoli.

Riflettendo a modo suo i conflitti sociopolitici sviluppatisi in questi millenni, anche alla filosofia, apparentemente astratta e pacifica, si è rivelata spesso aspra lotta e scontro feroce tra tendenze opposte, in conflitto irreconciliabile: già Platone aveva parlato della lotta incessante tra “gli Amici delle Forme” e “gli Amici della Terra”, e cioè tra idealisti e materialisti, mentre a sua volta il calmo e pacifico Kant aveva descritto la galassia filosofica come una specie particolare di “Kampfplatz”, un terreno di lotta e scontri più o meno corretti. Di questa galassia, il segmento politico-filosofico risulta a nostro avviso quello più appassionante, anche grazie al salto di qualità epocale apportato ad esso dal marxismo, dall’unica filosofia che sia riuscita ad assumere, dopo il 1917/45, un respiro universale e una dimensione planetaria, dal Venezuela fino alla Cina.

Concetti teorici e categorie filosofiche quali il realismo gnoseologico basato sulla pratica, il collegamento epocale tra materialismo e dialettica, la polarità inscindibile di opposti e di tendenze contrastanti, la praxis trasformatrice e intesa anche come criteri principale di verità, i salti di qualità, la perenne trasformazione dei fenomeni e – a determinate condizioni – il loro mutamento in un processo opposto, le contraddizioni principali e secondarie, l’interconnessione e collegamento universale tra tutti i processi/cose rappresentano solo alcuni dei “tesori” e dei contributi via via forniti al patrimonio comune della filosofia dal marxismo, che ha saputo inventare negli ultimi decenni anche una sorta di “ponte” e di anello di congiunzione tra la cultura occidentale e quella orientale, in special modo cinese e taoista.

Il materialismo dialettico si è già mostrato almeno in parte come una concreta filosofia della praxis: del resto già nel 1894 G. V. Plekhanov aveva sottolineato che il pensiero, “la ragione umana non potrebbe essere il demiurgo della storia poiché ne è essa stessa il prodotto. Ma una volta apparso, questo prodotto non deve, ne per sua natura non può, inchinarsi di fronte alla realtà che la storia gli assegna: esso si sforza necessariamente di ricrearla a propria immagine, di farla più ragionevole… Il materialismo dialettico è una filosofia dell’azione”.

Ma passiamo all’oggetto principale di questo libro, partendo dalla matrice originale delle tre tendenze alternative operanti da più di due millenni nell’ambito della praxis filosofica occidentale.

 

 

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